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IV Domenica di Quaresima anno A. “Io sono la luce del mondo!”

Nel cammino che la chiesa ci fa compiere verso la Pasqua, dopo il tema dell’acqua – acqua di vita che Gesù Cristo dona al credente in lui – ecco il tema della luce o, meglio, dell’illuminazione, azione compiuta da Gesù affinché noi vediamo e siamo strappati dalle tenebre.

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Il brano del Vangelo è un lungo racconto, costruito in modo meraviglioso, uno dei più preziosi del IV Vangelo, vero capolavoro dell’arte drammatica. A Gerusalemme, dove si sta celebrando la festa delle tende (sukkot), festa della luce in cui la spianata del tempio era interamente illuminata, Gesù dichiara: “Io sono la luce del mondo!” (8,12) e subito dopo dà un segno, rivela come questa luce illumina.
Gesù e i suoi discepoli passano accanto a un cieco: il Vangelo legge lo sguardo che tutti i presenti posano su quell’uomo gravemente leso nelle sue facoltà fin dalla nascita. Tra quanti sono coinvolti troviamo innanzitutto i discepoli, che pongono a Gesù una domanda simile a quella che anche noi spontaneamente porremmo. Di fronte al male, noi sentiamo il bisogno di una spiegazione, vogliamo trovare il colpevole, magari appellandoci a un’antica visione teologica che vede un legame diretto tra peccato e malattia: “Ha peccato questo cieco, per meritare la cecità, oppure hanno peccato i suoi genitori?”. Non sta forse scritto: “Io, il Signore, sono un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione” (Es 20,5)?

Ma Gesù rifiuta in modo categorico questa spiegazione e alla domanda risponde annunciando quanto sta per fare: vuole manifestare l’azione di Dio, l’amore di Dio! Gesù rifiuta le spiegazioni abituali, anche se pie e devote, non propone neppure altre giustificazioni del male, ma si impegna a contrastare, a distruggere il male, a rendersi solidale con chi soffre. Questo l’unico comportamento di Dio, questo il comportamento che l’uomo deve adottare. Ecco, di fronte allo stesso cieco, due ottiche diverse: uno sguardo colpevolizzante dei discepoli, uno sguardo di compassione e di solidarietà da parte di Gesù.
Ed ecco Gesù all’opera: impasta con la sua saliva del fango, lo spalma sugli occhi del cieco con gesto terapeutico che ricorda il gesto di Dio quando aveva creato Adamo (cf. Gen 2,7) e poi chiede al cieco di recarsi alla piscina di Siloe – cioè alla piscina dell’ “Inviato” – per lavarsi. Gesù, che proprio nel IV Vangelo è chiamato più volte l’Inviato da Dio, manda il cieco a lavarsi all’acqua dell’Inviato: così fa il cieco, e guarisce.

A questo punto prosegue il diverso “vedere” dei testimoni del fatto. Gesù è uscito di scena, ma inizia il processo contro di lui, un processo in contumacia, potremmo dire, condotto attraverso il cieco guarito. Innanzitutto i vicini si chiedono se davvero il guarito vedente è la stessa persona che era cieca oppure solo uno che gli assomigliava. Poi sopraggiungono i farisei che si informano sulla modalità della guarigione operata da Gesù e la contestano: perché ha operato in giorno di sabato con un’azione medica, proibita in quel giorno? Nel frattempo sopraggiungono i genitori del cieco nato, povera gente, che dicono e non dicono, timorosi come sono dell’autorità religiosa avversa a Gesù.

E così i farisei con il loro sapere teologico e la loro autorità religiosa, autosufficienti e autoreferenziali come tutti gli uomini religiosi di ogni tempo, non pensano di incontrare Gesù per interrogarlo, ma emettono su di lui un giudizio: “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore!” (v. 24). Si consuma così il processo in contumacia in cui coloro che si fanno giudici dell’opera di Dio concludono con disprezzo che tanto Gesù quanto il cieco nato e ora vedente sono dei peccatori. In verità però il cieco ora non solo vede, ma ormai contempla e discerne nella fede chi è l’Inviato di Dio, chi l’ha salvato.

La conclusione dell’episodio evangelico ci mostra che quanti hanno creduto di giudicare sono in realtà stati giudicati da Gesù, che quelli che vedevano e credevano di vedere appaiono ciechi, che quanti indicavano gli altri come peccatori risultano preda di un peccato profondo: la cecità peccaminosa, la rivolta dei cuori induriti. Chiediamoci anche noi: chi è cieco e chi vede? In verità, resta cieco chi indurisce il proprio cuore di fronte a Cristo, mentre vede colui che discerne la propria cecità e si apre all’azione sanante e illuminante del Signore Gesù.

Enzo Bianchi

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