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Mi Ami Tu?

Meditazione dell'Arcivescovo Mons. Giuseppe Satriano per la Giornata di Santificazione Sacerdotale. Cattedrale di Bari, venerdì 11 giugno 2021

Nello scegliere il tema di questo ritiro, mentre pensavo alla solennità del Sacro Cuore, il pensiero è caduto sul brano di Giovanni, appena ascoltato, e sulla domanda di Gesù a Pietro, domanda che mi è risuonata dentro suscitando tre riflessioni per la nostra vita:

  1. La sfida della preghiera.
  2. La tentazione e il rimedio per il nostro ministero.
  3. L’abbandonarsi ad un abbraccio d’amore.

 

  1. La sfida della preghiera.

         C’è una domanda alla base del nostro ministero ed è la stessa domanda posta da Gesù a Pietro, dopo la risurrezione, sul lago di Tiberiade: “Simone di Giovanni mi ami tu più di costoro?”, e poi ancora: “Mi ami Tu?” (Gv 21).

         Pensiamoci, è strano! Gesù che ha consumato la sua vita nell’annunciare amore, ora chiede amore. Il Maestro vive il tentativo di condurre il cuore di Pietro a contattare il suo, liberando l’apostolo da quell’ansia da prestazione che lo aveva portato alle soglie del tradimento, ricollocando la sua vita nella dinamica dell’amicizia, dell’amore, del dono.

         In fondo Gesù gli sta chiedendo di radicare la vita non tanto sulla base di quello che sa o non sa fare per lui, ma solo e soltanto sulla forza di una relazione vera, autentica e libera che abbia il sapore, il gusto del dono.

         Quel “Mi ami Tu?” è l’invito a entrare in una relazione cuore a cuore, lasciandosi toccare le viscere dalla vita. “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi ed io vi ristorerò” (Mt 11,28), solo quando impariamo a vivere a partire dalla conoscenza personale dell’amore di Dio per noi, sentendoci amati per quello che siamo e non per quello che vorremmo essere o pensavamo di essere, solo allora il nostro cuore di presbiteri si apre e diviene capace di portare consolazione, guarigione, riconciliazione, annunci di speranza e di vita nuova.

Prima che preoccuparci delle cose del mondo, prima di desiderare di apparire gradevoli e convincenti, siamo chiamati a essere mistici: profondamente radicati nel suo Cuore. Ecco la disciplina da vivere: imparare a stare alla presenza di un Dio che a me si rivolge chiedendomi: “Mi ami tu?”.

Oggi più che mai la realtà che ci circonda manifesta sete di Dio, e non basta essere preparati, desiderosi di aiutare il prossimo e nemmeno persone dalla salda moralità.

C’è una virtù che precede le altre ed è prioritaria: essere uomini di Dio, ministri saldamente radicati in una intimità personale con Lui che passa attraverso una relazione profonda con la Parola incarnata, Gesù.

Se non siamo immersi in un ascolto autentico della voce dell’amore che sgorga dal Cuore di Cristo, non riusciremo a vivere con saggezza e coraggio le scelte che la vita ci chiede, ma ogni situazione difficile da affrontare sarà motivo di divisione e discordia

È il vivere la preghiera come stato permanente del nostro agire che ci rende attenti e vicini alla gente senza essere relativistici, convinti senza essere rigidi, gentili senza essere fiacchi. La preghiera è intimità modellante, che si ottiene con la fatica della perseveranza. Essa richiede insistenza, ma non serve a convincere Dio bensì a entrare in relazione con Lui. Pregare è la strada privilegiata per la conversione e il riorientamento dei nostri desideri.

Far riecheggiare oggi quel “Mi ami Tu?” è motivo per metterci in cammino e vivere quel salto di qualità, dal morale al mistico, con cui imparare a dimorare nell’amore del Signore.  

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  1. La tentazione e il rimedio

         Credo sia inutile ribadire che il nostro tempo è ammalato di individualismo, di narcisismo. C’è un’operazione culturale nichilista che tocca la società e anche noi ministri di Dio: si sta svuotando la persona e la sua relazione con gli altri per mettere al centro l’individuo, un contenitore vuoto capace solo di essere soggetto di bisogni da esaudire, bisogni non reali ma spesso indotti dal mercato e dai media occulti.

         Anche i nostri presbitéri risentono di questa fatica: trovare la via della relazione autentica, fraterna e collaborativa non è cosa facile

         Spesso viviamo come acrobati, funamboli, che cercano di camminare su una fune sottile, sempre in attesa di applausi, di riconoscimenti, nella speranza di non cadere e romperci il collo.

         Un certo divismo ed eroismo individuale, aspetti di questa società competitiva, non sono estranei come tentazione alla Chiesa di oggi. Anche Gesù fu tentato nel deserto in questo modo: “Gettati giù dal pinnacolo del tempio e lascia che gli angeli ti sorreggano e ti portino tra le loro braccia” (cfr. Lc 4, 9-10).

         Ciò che rischia di avvelenare il nostro ministero, rendendolo più un’avventura personale che comunitaria è proprio in questa tentazione dell’apparire, di una certa “spettacolarità”.

         La risposta a ciò la troviamo ancora una volta in quel meraviglioso dialogo tra Gesù è Pietro: “Pasci le mie pecore” (Gv 21, 17).

         È nell’affidamento pastorale del suo gregge, del suo popolo, che Gesù ci indica l’atteggiamento da vivere per evitare questa tentazione della vita.

         L’Apostolo non viene incaricato di una missione eroica, solitaria, ma alla luce di quanto Gesù ha già detto, sono da individuare le coordinate di un ministero improntato alla comunione e alla reciprocità.

 

I due volti del … pascere

         Non dimentichiamolo Gesù ha inviato i suoi a due a due e non da soli. L’annuncio del Vangelo è sempre comunitario. Inoltre, il ministero sacerdotale è chiamato a vivere la reciprocità, come si evidenzia dalle stesse parole di Gesù nel vangelo di Giovanni al capitolo 10:

Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e dò la mia vita per le pecore” (Gv 10, 14-15).

         Gesù desidera che ci prendiamo cura degli altri, non come professionisti del disagio, dall’alto delle nostre competenze, ma come accompagnatori umili che curano e sono curati, parlano e “si lasciano parlare”, perdonano e sono perdonati, amano e si lasciano amare.

         “Pasci le mie pecore” è attenzione a non vivere in maniera disincarnata la nostra responsabilità del gregge, spiritualizzando la spiritualità e rischiando di far gridare al nostro corpo il bisogno di carnalità.

Mi spiego! Talvolta rischiamo di vivere il ministero intellettualmente, considerando il Vangelo un insieme di idee preziose da annunciare. Quando questo avviene rischiamo di trovarci a gridare il nostro bisogno di affetto e di intimità.

         Lontani da ogni delirio, siamo invitati a comprendere che il riconciliare, guarire, dare speranza non dipende da noi. Come gli altri, anche noi siamo persone segnate dal peccato, vulnerabili e bisognose di cura, ma proprio qui sta il mistero del nostro ministero: proprio noi, così conciati, siamo stati scelti a trasmettere mediante il nostro essere, pieno di limiti, l’amore grande e incondizionato di Dio, per amor suo, solo per amor suo.

         È in questo senso che dobbiamo imparare a vivere l’essere fragili e vulnerabili, non in maniera nascosta, mascherata, idealizzando il nostro ministero e rischiando di cadere in una solitudine disperata o in una doppia vita, ma avendo il coraggio di riconoscere i nostri limiti, vivendo confessione e perdono come modalità concreta per volerci bene e realizzare relazioni autentiche.      Pensiamo a quanto spesso cediamo alla tentazione di camuffare noi stesi agli occhi della nostra gente.

         Confessarsi e perdonarsi, in altre parole, vuol dire essere pienamente partecipi dell’essere un corpo solo con la propria comunità, rendendo conto della nostra vita, coinvolgendoci con tutto il nostro essere, compreso quell’io ferito che portiamo con noi.

         Non si tratta di narrare le proprie miserie e fragilità dal pulpito, bensì di lasciare che gli altri leggano le nostre fatiche e sofferenze. Questo permetterà alla comunità di elaborare quell’interesse, quelle gentili correzioni che ci consentono di rimanere fedeli alla nostra vocazione.

      

  1. L’abbandonarsi ad un abbraccio d’amore.

 3.jpg        Nel dialogo con Pietro, alle battute finali, trovo la terza riflessione da proporre. Gesù fa riferimento ad un tempo in cui l’Apostolo dovrà fidarsi più che di se stesso di un altro, di Dio, e camminare su vie non pensate e non desiderate: “In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21, 18).

         Poveri noi quando desideriamo interpretare la vita a partire dal potere e dall’esercizio del controllo sul nostro destino! Gesù ci dice con chiarezza che maturità di vita nel ministero è la capacità e la disponibilità a lasciarsi condurre dove non si vorrebbe.

         La guida che serve i fratelli è guida che dà fiducia alla provvidenza e si lascia condurre in luoghi sconosciuti, indesiderabili e talvolta dolorosi.

         Il brano ci suggerisce che la via del ministro di Dio non è quella che ambisce alle altezze mondane, ma vive la logica del Cristo che “non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso…sino alla morte di Croce” (Fil 2, 6-7).

         Anche se chiamati ad essere guide siamo invitati a lasciarci condurre in un’obbedienza alla vita. In tal senso ci è d’aiuto il discernimento non emotivo, superficiale, ma profondo, aperto all’intimità con Dio, capace di coinvolgere corpo, mente e cuore.

         Solo il lasciarci abbracciare da Dio e dalla sua logica di vita, carica di compassione per noi, ci permetterà di sperimentare la sua misericordia come fonte di salvezza.

         Molti di noi si chiedono come ripartire dopo questa pandemia? Cosa privilegiare?

         Sarò banale, ma credo che questo tempo ci provochi ad una fede nella presenza reale di Dio che sia formulata in modo ben chiaro. In altre parole, siamo chiamati come pastori a evitare forme di fatalismo, di disperazione, di rassegnazione che provengono dal mondo per testimoniare, in modo inequivocabile, il valore della Parola da cui tutto ha avuto origine e che ha fatto, anche del più piccolo evento della storia umana, un Kairos per entrare in relazione intima con il Signore.

         Imparare ad ascoltare la voce di Dio ci apre il cuore e ci conduce ad interpretare la vita con il suo sguardo, con il suo cuore, con fiducia e consegna di noi stessi.

Il nostro ministero di guide, chiamate a pascere il gregge di Cristo, ci esorta ad aiutare gli altri ad ascoltare questa voce per esserne confortati e consolati.

         Essere presbiteri che pregano, che tendono le mani al cielo, consapevoli del proprio limite come Pietro, ma che, pieni di fiducia, si consegnano come lui in un “tu lo sai che ti amo”, riempie il cuore di speranza per il futuro.

In quanto vi ho detto c’è tanta passione per il dono che Dio ha posto nelle nostre mani e tanto affetto per voi, miei cari fratelli nel sacerdozio. Concludo con una preghiera a me cara

Sacro Cuore di Gesù,
desiderando attestarti la nostra riconoscenza
e riparare alle nostre infedeltà,
noi ci consacriamo totalmente a Te
e proponiamo di spendere per Te la nostra vita
perché ti ami ogni creatura.

Fa' che la tua Chiesa sia in ogni luogo
l'attenta esperta di umanità,
testimonianza viva della tua Incarnazione.
Liberi dalla tentazione di sentirci migliori degli altri,
fa' che siamo solidali e amici della gente,
apostoli di simpatia e di verità
perché il Vangelo diventi cuore del mondo.

Sostieni i giusti, consola gli afflitti, converti i peccatori,
conforta i malati e i moribondi, affinché tutti gli uomini
siano figli ed eredi del tuo Regno.

Amen.

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