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5 anni in 5 parole. Un vocabolario che parla a tutti

Tra discorsi e documenti, il messaggio del Papa ha la forza per raggiungere il cuore di ogni uomo

Cinque parole, una per anno, ma potrebbero essere cinquanta, o cinquecento. È una scelta puramente simbolica quella che proponiamo oggi, a cinque anni dalla serata che spalancò davanti alla Chiesa e al mondo, insieme alla grande finestra su piazza San Pietro, una pagina che ancora oggi appare assolutamente nuova. Da allora – come ricordava ieri Vatican News – siamo stati testimoni partecipi di due encicliche e altrettante esortazioni apostoliche, 23 motu proprio, due Sinodi, un Giubileo, 22 viaggi internazionali con oltre 30 Paesi visitati, 17 visite pastorali in Italia, 8 cicli di catechesi all’udienza generale, quasi 600 omelie durante le Messe a Santa Marta, oltre a decine di discorsi, messaggi, lettere. Un magistero delle parole e dei gesti già ingentissimo che sulle reti sociali ha attratto 46 milioni di follower su Twitter e oltre 5 milioni su Instagram. Al cospetto di un panorama tanto vasto, cinque parole tra infinite altre sono una goccia d’acqua, ma la loro scelta vuole indicare una piccola parte per il tutto, un viaggio che attraverso questi sentieri porta al cuore di un messaggio capace di parlare al cuore di tutti.

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DIALOGO

L’arte di gettare ponti dove c’erano crepacci. «Qualità umane uniche»

Gianni Cardinale

Quando il 23 settembre 2015 Barack Obama ricevette papa Francesco alla Casa Bianca disse che il grande successo della visita americana del Pontefice era dovuto al suo «ruolo» ma anche alle sue «uniche qualità come persona». «Nella sua umiltà, nel suo abbraccio di semplicità, nella gentilezza delle sue parole, nella generosità del suo spirito – continuò tra gli applausi l’allora presidente Usa – noi vediamo un esempio vivente degli insegnamenti di Gesù, un leader la cui autorità morale non emerge solo dalle parole ma anche dai gesti». Il mix tra carisma petrino e qualità umane «uniche», come ben colto da Obama, sono alla base della grande capacità di papa Francesco di aprire porte che sembravano sbarrate, di dialogare con interlocutori difficili e a volte improbabili, di gettare ponti ritenuti impensabili. Di dialogare, insomma. In campo ecumenico, con le altre Chiese e comunità cristiane. In ambito interreligioso, con le altre fedi. Nel terreno geopolitico, rispetto alle potenze dell’orbe. Ecco quindi l’incontro a Cuba con il patriarca Kirill, il primo della storia tra un vescovo di Roma e il leader spirituale dell’ortodossia russa (ma anche la visita a Lund in Svezia per i 500 anni della Riforma protestante e la prossima tappa a Ginevra per i 70 anni del Consiglio ecumenico delle Chiese). Ecco quindi il recupero di un rapporto cordiale con il grande imam dell’Università cairota di al-Azhar, la massima autorità sunnita (allo stesso tempo però il Pontefice non teme di usare il termine «persecuzione», solitamente poco amato dalla diplomazia vaticana, per indicare la situazione dei cristiani in terre anche islamiche; e non ha avuto remore a parlare di «genocidio» armeno, nonostante le rimostranze turche, poi rientrate). Senza dimenticare i cordiali rapporti con il mondo ebraico, suggellato con la visita alla sinagoga di Roma e con una miriade di udienze concesse alle tante e sfaccettate rappresentanze israelitiche. Ecco quindi il ruolo decisivo nella storica svolta nei rapporti tra Stati Uniti e Cuba (senza contare il lunghissimo elenco di capi di Stato e di governo che continuano a chiedere, e a fare visita, al vescovo di Roma). Con la Santa Sede che ormai ha rapporti diplomatici con ben 183 Stati (gli ultimi, papa Francesco “regnante”, l’islamica Mauritania e il Myanmar a maggioranza buddista). Non tutte le iniziative lanciate dal Pontefice hanno avuto le conseguenze sperate, si dirà. L’ulivo piantato in Vaticano da Shimon Peres e Abu Mazen con una vera pacificazione ancora lontana in Terra Santa stanno lì a ricordarlo. Ma al Papa, è noto, interessa soprattutto iniziare processi, accompagnandoli con la preghiera. Processi come quello dal grande significato ecclesiale, e di notevole spessore geopolitico, che si sta attuando, non senza difficoltà, con la Cina di Xi Jinping. Con il sogno che al primo Papa gesuita possa essere concesso di pregare davanti alla tomba del confratello Matteo Ricci.

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FAMIGLIA

Due Sinodi e due “consultazioni” in un triennio di accesi dibattiti. Da qui parte «il giubilo della Chiesa»

Luciano Moia

Se c’è un tema chiave del pontificato di Francesco, l’unico a cui nella storia della Chiesa un Papa abbia scelto di dedicare due Sinodi a un anno di distanza l’uno dall’altro, è sicuramente la famiglia. Il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi, ha rivelato che già nelle settimane successive all’elezione, durante un dialogo serale a Santa Marta, il Papa gli avesse rivelato la sua intenzione di avviare una riflessione a tutto tondo sull’argomento, da lui evidentemente considerato centrale, come primo passo del suo pontificato. E, quando si è trattato di definire l’articolazione dell’assemblea, è stato Francesco stesso a chiedere non solo di “raddoppiare”, ma anche di far precedere al confronto tra i vescovi, una consultazione di tutto il popolo di Dio. Anche questa una novità mondiale. Perché il Papa considerasse urgentissimo e prioritario parlare di famiglia, è stato evidente durante il triennio di dibattito sinodale – dall’annuncio dell’ottobre 2013 alla pubblicazione di Amoris laetitia l’8 aprile 2016 – in cui, accanto ai temi centrali della vita e dell’amore, sono emersi una serie di nodi irrisolti su matrimonio, sessualità e generazione. Dal problema dell’accoglienza ai divorziati risposati all’accompagnamento delle persone omosessuali, dalle convivenze all’educazione sessuale, dalla coscienza informata dei coniugi chiamata in causa su temi come la regolazione della fertilità al gender e a tanto altro ancora. Tutte questioni che, dopo un lungo e spesso aspro confronto nella doppia assemblea, sono sfociate nella “sintesi” di Francesco. Quanto il Papa consideri la famiglia crocevia pastorale di tutta quella complessità umana, sociale ed ecclesiale che si allarga e si costruisce a partire dall’amore tra uomo e donna, è apparso con assoluta evidenza dalle prime parole dell’Esortazione postsinodale: «La gioia dell’amore che si vive nelle famiglie è anche il giubilo della Chiesa». A sottolineare che nulla come il mistero dell’amore umano che costruisce futuro per sé e per il mondo, rappresenta il richiamo permanente del rapporto fedele tra Dio e il suo popolo. Ecco perché, sia durante il dibattito sinodale, sia nei suoi altri interventi, il Papa ha sempre spiegato che l’obiettivo dell’impegno “con” e “per” la famiglia vada inteso in una prospettiva più ampia possibile, con l’obiettivo di accogliere e integrare tutti coloro che, al di là delle scelte relazionali, intendano essere riabbracciati dall’amore misericordioso del Padre.

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GIOVANI

Dall’attenzione verso i social alla novità dell’assise sinodale sempre in ascolto dei ragazzi

Mimmo Muolo

Il vocabolo giovani non è di quelli che più immediatamente vengono in mente quando si parla di papa Francesco. O meglio, non venivano in mente fino a poco tempo fa. Perché non c’è dubbio invece, che per quanto riguarda il 2018 sia non solo una tra le parole del pontificato, ma la parola predominante. Le scelte pastorali del Pontefice l’hanno infatti imposta all’attenzione generale: già la settimana prima di Pasqua si terrà in Vaticano un incontro preparatorio mondiale del Sinodo a loro dedicato; poi ad agosto sarà la volta dei giovani italiani di riunirsi a Roma; a ottobre l’assise dei vescovi e infine a gennaio 2019 la Gmg a Panama. Non è una sorpresa, soprattutto se si considera che in un certo senso il pontificato è nato sotto il segno dei giovani. Il primo viaggio internazionale, papa Bergoglio lo ha infatti compiuto in Brasile per la Gmg del 2013, ereditata dall’agenda di Benedetto XVI, il quale - qualche mese prima - proprio rendendosi conto che per le sue condizioni di salute non avrebbe potuto essere presente iniziò il percorso di discernimento che lo avrebbe portato alla rinuncia.
Fin da Rio de Janeiro, però, Francesco lo spartito del rapporto con le nuove generazioni ha voluto suonarlo secondo il suo stile pastorale. Alla gioia di quel primo incontro (chi non ricorda le immagini della papamobile che solca il lungo viale di Copacabana tra due ali di folla?) si sono aggiunti i contenuti di una catechesi scandita da due piani triennali (quello delle beatitudini, da Rio fino a Cracovia 2016, e quello del Magnificat, da Cracovia a Panama) e la costante di un reiterato invito a tessere sempre i rapporti tra le generazioni. Sempre, quando parla ai giovani, il Papa fa riferimento ai nonni, alla loro esperienza da tenere in conto. E in più di una occasione citando il profeta Gioele, ha sottolineato «i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni», proprio a richiamare la necessità di un scambio fecondo tra esperienza e innovazione.
L’assise sinodale del prossimo mese di ottobre è da questo punto di vista la cartina di tornasole assoluta. Papa Francesco non vede i giovani come un universo a parte, ma come parte di un tutto, che è la comunità ecclesiale nel suo complesso quando parliamo di Chiesa (e il Sinodo dei vescovi che, particolare non da poco, segue quelli sulla famiglia, è certamente un evento di Chiesa al massimo livello); ed è invece il mondo "laico" globalmente inteso, quando invece consideriamo i giovani nello scenario della vita di tutti i giorni. Una parte, dunque, in dialogo fecondo con le altre parti. Per questo Bergoglio ha voluto un percorso di avvicinamento che fosse improntato all’ascolto più ampio possibile, anche e soprattutto dei giovani che in Chiesa non vanno. Il Papa social, che usa metafore tecnologiche quando parla ai ragazzi e posa con loro nei selfie, ha fatto in modo che tramite un questionario sul sito del Sinodo ognuno potesse esprimersi liberamente. Perché è anche da quell’ascolto che potranno arrivare le risposte alle grandi domande su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, tema dell’assemblea di ottobre.

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FAMIGLIA

«E tu, sai custodire la tua anima?». Ci sentiamo chiamati per nome con lo stile delle domande personali

Francesco Ognibene

«E tu?». Ridotto all’osso, è forse questo il messaggio interiore che ci consegnano i primi cinque anni di pontificato di Francesco. Scorrendo a memoria l’insegnamento del Papa spicca la centralità assegnata in quasi tutti i suoi discorsi, nelle omelie, in udienze e messaggi, tweet e interviste al coinvolgimento diretto di un interlocutore personale – io, tu, ogni lettore o ascoltatore delle sue parole – assai più che di una massa indistinta e senza nome. Davanti a Francesco si è sempre faccia a faccia, ma senza sentirsi sotto esame: semmai incoraggiati a guardarsi dentro con coraggio, presi per mano da un padre che ci accompagna – io, tu – nel buio di noi stessi. La vita cristiana è faccenda anzitutto personale, un incontro, un’esperienza, una testimonianza. È la risposta a una chiamata che non ammette mimetismi: devo espormi io. Francesco parla come un direttore spirituale durante un colloquio, o meglio ancora, come un confessore che aiuta a far luce dentro di sé. È come se ci ricordasse sempre che il Vangelo non è un testo di filosofia ma un abito da indossare, uguale e diverso per tutti. La prova è in quell’intercalare col quale quasi in ogni discorso sulla vita di fede finisce per rivolgersi a ciascuno con una serie di domande incalzanti, impegnative. Nel commento alle letture del giorno durante la Messa a Casa Santa Marta è un appuntamento pressoché fisso, come ancora ieri mattina: «Mi sento sazio nel desiderio con la vita che porto – ha invitato a chiederci – o cerco di andare avanti, anche con difficoltà, con delle prove, sempre più, più, più, perché il Signore è questo più, più, più?». C’è tutto papa Francesco in questo interpellarci semplice e diretto. Setacciando il suo magistero si potrebbe assemblare un corposo esame per la nostra anima che abbraccia il rapporto con Dio, la Chiesa, il prossimo. Non è il solo riflesso di un’abitudine del gesuita ma l’indicazione precisa del luogo dove tornare a sentirsi di casa, da conoscere, tenere ordinato, riportare alla sua limpidezza, senza stancarci: la nostra coscienza. Alla sua manutenzione abituale invitò a pensare, ad esempio, facendo distribuire in piazza San Pietro al termine di un Angelus nel febbraio 2015 un libriccino – Custodisci il cuore – con una guida per l’esame di coscienza alla portata di tutti, perché il cuore «non diventi una piazza dove vanno e vengono tutti tranne il Signore». «Alla fine di ogni giorno – ha detto in una recente omelia del mattino – bisogna chiedersi: “Cosa è successo nel mio cuore oggi? Cosa ho sentito? Cosa ho fatto? Cosa ho pensato? Questo sentimento è cristiano o non è cristiano?” E così andare avanti».

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MISERICORDIA

Non solo il Giubileo, ma la profezia di gesti «fuori dal protocollo»

Matteo Liut

Come un autentico «profeta della misericordia», papa Francesco ha saputo annunciare con forza l’amore di un Dio non solo a parole ma soprattutto con i gesti. D’altra parte durante l’Udienza generale del 16 ottobre 2016 è stato lui stesso a sottolineare la necessità di comunicare la misericordia attraverso azioni concrete: «Le opere di misericordia risvegliano in noi l’esigenza e la capacità di rendere viva e operosa la fede con la carità. Sono convinto che attraverso questi semplici gesti quotidiani possiamo compiere una vera rivoluzione culturale, come è stato in passato. Se ognuno di noi, ogni giorno, ne fa una di queste, questa sarà una rivoluzione nel mondo!».
Coerentemente con questa dichiarazione, Bergoglio ha scelto per sé uno stile fatto di tante piccole o grandi scelte guidate dall’amore di Dio. L’indizione del Giubileo straordinario della misericordia è stata solo il “laboratorio” più evidente, una vera e propria scuola offerta al mondo intero. Un’occasione preziosa donata soprattutto alla Chiesa, da sempre chiamata a «essere testimone della misericordia», come ricordava il Pontefice durante la liturgia penitenziale presieduta in San Pietro il 13 marzo 2015 in occasione delle “24 ore per il Signore”. In quell’occasione il Papa annunciò il Giubileo, la cui apertura ufficiale si tenne l’8 dicembre seguente.
Ma Bergoglio, con la sua consueta capacità di testimoniare lo stile del Vangelo al di là delle convenzioni dettate dalle istituzioni, decise che l’avvio del Giubileo sarebbe stato anticipato con un gesto posto in una delle tante «periferie» del nostro pianeta. E così il 29 novembre 2015 aprì la Porta Santa della Cattedrale di Bangui, nella Repubblica Centrafricana.
Nella sua lettera Misericordia et misera, a conclusione del Giubileo, il Pontefice ha voluto ricordare non solo la continua necessità dell’umanità di ricevere il perdono di Dio ma ha sottolineato anche il «valore sociale» della misericordia: «Essa – spiega il Papa in quel documento – spinge a rimboccarsi le maniche per restituire dignità a milioni di persone che sono nostri fratelli e sorelle».
Quante volte, in questi cinque anni, abbiamo visto il Pontefice letteralmente rimboccarsi le maniche per prostrarsi davanti agli ultimi: ogni Giovedì Santo ha scelto di lavare i piedi a coloro che la società tende ad emarginare, come i carcerati o i migranti. Uno dopo l’altro questi gesti hanno offerto una vera e propria catechesi dei gesti della misericordia, compiuti sull’esempio di quel Dio che continuamente tende la propria mano verso un’umanità spesso in fuga da lui. Per comunicare questo messaggio dirompente, ci ha insegnato papa Francesco con i suoi gesti “fuori dagli schemi”, non c’è protocollo che tenga, perché l’unico vero “protocollo” è proprio la misericordia.

Cardinale, Liut, Moia, Muolo, Ognibene

© Avvenire, martedì 13 marzo 2018

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