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Anticipazione. Papa Francesco e quelle parole rivoluzionarie

Popolo, lavoro, misericordia: la teologa argentina Emilce Cuda indaga il pensiero di Bergoglio nel contesto della riflessione latino-americana

Anticipiamo qui sotto alcuni stralci del nuovo saggio di Emilce Cuda in uscita per Bollati Borignhieri, "Leggere Francesco. Teologia, etica e politica" (pagine 258, euro 20,00), introdotto da una prefazione di Juan Carlos Scannone. Emilce Cuda a Buonos Aires dirige il Programma per lo studio della cultura presso l'Università Arturo Jauretche e insegna presso la facoltà di Teologia della Pontificia Universidad Católica e la facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Buenos Aires.

È parola profetica, quella di Francesco. Parola che «odora di pecora» e di militanza. Parola che è nostalgia tanguera di un paradiso perduto, con un misto di esultanza calcistica per una speranza escatologica; formula insolita, quella di un portegno che pone così vicino il cielo e l’inferno da mostrare possibile il primo e rendere l’altro visibile. Parola in cui, in una sera romana, senza volerlo, si sono livellati i destini di chi sta sopra e chi sta sotto, dei poi e degli ancora. Parola che trascina dietro di sé un intero pelago, quello delle lotte, delle conquiste e delle sconfitte di un popolo, che è tutti i popoli, con i loro vivi e i loro morti, i loro amici e i loro nemici. Parola che sembra l’ultima voce del pianeta e smaschera il demonio, nascosto dietro un capitalismo disumanizzato; religione opaca, quella del consumo. Parola di pastore con fondamento teologico e polso politico. Parola che, come in un tango, ci fa conoscere oggi quello che sapevamo ieri, il Vangelo di Gesù, il Cristo, per il quale tutti sono persone, soprattutto i poveri, degni di una vita buona nell’abbondanza e nella gioia, qui e ora, e non rifiuti del sistema. Quella parola predica l’unità nella differenza, l’unione senza la confusione.

Il discorso pontificio dell’attuale papa latino- americano tende a smascherare le cause della povertà, desacralizzando quelle strutture ingiuste che sono state invece divinizzate, e denaturalizzando processi che sono in realtà storici. Un simile gesto, compiuto da uno dei successori di Pietro, spinge gli studiosi e la stampa internazionale a concentrare la propria attenzione sul pensiero teologico e politico argentino. Ma quanto c’è di argentino nel discorso di Francesco? Molto, se consideriamo la sua denuncia politica senza scuse. L’attitudine profetica – nella persona di un pontefice – fa sì che il mondo, teologico e non, si chieda di nuovo, e stavolta in modo interdisciplinare: è legittimo parlare oggi di teologia e di politica, di teologia politica e di etica teologica? Il discorso di Francesco non sembra essere solo una critica scritta a tavolino, perché esorta apertamente a una conversione strutturale, sociale e politica, come prodotto di una prassi culturale incarnata, cioè coinvolta nelle tensioni del presente. Il suo discorso invita a prendere il cammino dell’esilio da una cultura della morte e della tristezza verso una cultura della vita e della gioia. Quanto può essere efficace una simile esortazione per un pubblico non cattolico, non credente e non politicizzato? Già a prima vista, possiamo notare che, negli ultimi tre anni, ogni giorno si registra la presenza di Francesco nei titoli dei giornali di tutto il mondo. Proprio dopo il trionfo della modernità e del suo liberalismo laicistico, che in molti casi è divenuto anticattolico, assistiamo con stupore a questo spettacolo inaudito: un papa fa notizia perché il papa è la notizia. Parrebbe allora che la voce del pastore non predichi più nel deserto.

La sua parola è ascoltata e tenuta in considerazione dai governi laici di quasi tutti i Paesi del mondo, e in alcuni casi addirittura temuta, perché con essa si misura l’opinione pubblica che li legittima [...]. Prima ancora di chiederci se il discorso dell’attuale papa sia teologico o politico, senza disdegnare le due pratiche come farebbe un riduzionismo semplicistico che divide la realtà in buoni e cattivi, osserviamo che la critica del pontefice ai fondamenti politici di strutture sociali ingiuste mira piuttosto a «desacralizzarle». La desacralizzazione è innanzitutto una funzione teologica, prima che filosofica o politica. Anche se il papa prende posizione nei conflitti politici, leggendo la realtà come un testo di cui cerca e mette in evidenza le incoerenze, e rendendo udibile, e visibile, la richiesta di giustizia da parte del fratello – come avviene tra Caino e Abele nella Genesi –, non per questo ritiene che i fondamenti politici siano trascendenti – come ha preteso di affermare la modernità –, bensì immanenti. Quando i principi politici immanenti sono presentati come trascendenti, necessari e inviolabili, allora vengono divinizzati, prendono il posto di Dio e generano nuove religioni: è il caso del rapporto tra capitalismo e consumo, bersaglio conclamato della critica del pontefice. Mi chiedo, quindi: è idolatria rispettare in modo incontrovertibile le interpretazioni particolari dei principi di libertà e uguaglianza? È la Chiesa, nella persona di Francesco, che deve assumersi il compito di desacralizzare la modernità? Non è forse un compito già intrapreso da Benedetto XVI nei suoi celebri dibattiti con Jürgen Habermas e con Paolo Flores D’Arcais? Francesco si inserisce in un dibattito che si avvale di una terminologia contrassegnata da un sistema disumanizzato, o istituisce nuove categorie in questo dibattito, sostituendo «uguaglianza» con «popolo», «libertà» con «lavoro» e «giustizia » con «misericordia»?

Riconoscere la priorità della misericordia sulla giustizia è l’esempio lampante della parola sovrana di Francesco che, pur non essendo teologica, non per questo appare meno politica. La misericordia è qualcosa di diverso dalla giustizia, o è un modo altro di intendere la giustizia, ossia non come sistema retributivo dei meriti acquisiti, bensì come sistema distributivo e compensativo, con la consapevolezza che i bisogni generano differenze sociali e culturali, e che la tentazione è un’ulteriore causa del male quando si suddivide e si giudica? In tal modo il conflitto sociale smette di essere terreno esclusivo della sociologia e della politica, e diventa anche terreno legittimo della teologia, su un piano diverso ma non meno coinvolgente: «fate chiasso», dice Francesco, abbiate l’«odore delle pecore». Come sostiene Juan Carlos Scannone, con papa Francesco ci troviamo davanti all’emergere di un nuovo paradigma, a partire dal quale si critica il paradigma attuale. La visione trinitaria di Dio si oppone perciò all’idolatria del denaro, all’autoregolazione e all’assolutizzazione dei mercati, che dimenticano la categoria di relazione. Nell’enciclica Laudato si’ è evidente l’affermazione dell’essere relazionale; relazione che ora si estende anche alla natura.

Così il magistero pontificio di Francesco colloca di nuovo il politico al centro del dibattito teologico, non come fondamentalismo religioso, bensì come prassi limitata dai principi costruiti a posteriori dall’esperienza, e marcando il confine tra etica e politica, e tra religione e filosofia. Allo stesso modo nasce il cristianesimo, cioè come una teologia che critica la religione di Stato perché fondamento assoluto dell’oppressione e dell’esclusione, e che lotta per lasciare vuoto quel trono. Ciononostante, per leggere Francesco non possiamo lasciare da parte certi criteri propri della teologia latino-americana, delineatisi grazie alla prassi teologica con quel particolare popolo. I criteri sono: la precipua relazione con Dio, Cristo e Maria; la consapevolezza di appartenere alla Chiesa in quanto Popolo di Dio e Corpo mistico di Cristo; il sentimento di fratellanza e solidarietà con gli altri; il culto dei morti e la pratica dei sacramenti, soprattutto il battesimo, che conferisce dignità agli uomini in quanto uomini, indipendentemente dai loro meriti. (© 2018 Bollati Boringhieri editore, Torino Traduzione di Amaranta Sbardella)

Emilce Cuda

© Avvenire, martedì 27 marzo 2018

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