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Puglia, culla della speranza

"Noi volevamo, come sempre vogliamo e vorremo, il trionfo della giustizia e dell’amore tra gli uomini; ma per lunghi anni, purtroppo!, non avevamo compreso che la giustizia e l’amore non sono possibili senza la luce di Cristo. Eravamo cercatori di Cristo e non ce ne accorgevamo".

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Queste parole di Giovanni Modugno, educatore bitontino del primo novecento, sono in buona parte anche la cifra della mia vita.

            Sono stato a lungo, negli anni passati, impegnato con convinzione e passione a cercare nella pratica politica le ragioni di un riscatto sociale dei più poveri e degli emarginati di una società che correva, dopo le due guerre mondiali, più velocemente dello stesso pensiero umano.

            Ho vissuto cioè in prima persona l’inganno che intervenire sulle cose di Cesare potesse portare ad una affermazione vittoriosa del bene sul male.

            Un inganno determinato dalla grande forza di cambiamento sociale che ha attraversato il novecento non sempre accompagnata, anzi quasi mai, dal desiderio di mantenere l’etica alla base di ogni comportamento sociale degli individui e delle comunità.

            Un inganno segnato da una liceità estrema, che ha affermato e sostenuto in realtà un principio consumistico: “ciò che è vecchio non serve”, che è presto stato dominante nella cultura occidentale. Una liceità senza regole, figlia del silenzio delle generazioni che hanno vissuto l’atroce dolore di due guerre mondiali portatrici in pochi anni di immensi lutti come mai era accaduto nella storia dell’umanità. La necessità intima di rimuovere quel dolore dei nostri nonni, dei nostri padri, delle nostre madri, ha spezzato il filo del racconto della vita tra le generazioni, che per millenni ci ha insegnato a vivere.

            Ci siamo messi alla ricerca del nuovo in assoluto, affannosamente, dimenticando etica e certezze del passato e dimenticando soprattutto che l’uomo è relazione, conoscenza, confronto con i suoi simili.

            Con queste premesse, scivolato in una pratica edonista e nichilista, l’uomo contemporaneo si è lasciato soggiogare dal linguaggio e dalle sue tecniche espressive senza badare al contenuto. Il pensiero dominate ha preferito cambiare nella forma piuttosto che rinnovarsi nello spirito. Nelle arti, nella musica, nella poesia, così come nell’urbanistica, nell’architettura, nel design e via dicendo, favoriti dalla produzione industriale di massa, abbiamo dato spazio alle inutilità, che ben presto sono diventate barriere alla conversione dei cuori.

            Il linguaggio della persuasione, elemento essenziale per la sopravvivenza di un sistema fondato sul marketing e sulla pubblicità in cui fossimo tutti considerati consumatori e non persone, ha preso il sopravvento sul linguaggio della relazione, in tutti i campi: nella informazione, come nella formazione, nella politica come nei rapporti personali.

            L’epoca della comunicazione si è quindi contraddistinta da subito come l’epoca della incomunicabilità tra le persone, schiacciate dal peso ingombrante della tecnologia a coprire il vuoto di relazione.

            Il risultato è un disagio esistenziale che avvolge ognuno di noi e ci allontana dall’altro. Fratelli di sangue, si, ma non di comunione. Un disagio che chiede di essere guarito, come tutte le malattie. Di qui il forte bisogno del sacro dell’uomo dei nostri giorni. Il bisogno di riformulare le domande di sempre: Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?. E di cercare le risposte nella relazione, nel confronto, nell’intimità del nostro pensiero, che si apre alla ricerca di Dio.

            Anche la Chiesa non si è salvata dal linguaggio della persuasione. Sappiamo bene come nei Vangeli c’è la risposta di verità alle domande esistenziali dell’uomo. Eppure anche la Chiesa nella seconda metà del novecento, interpretando troppo libertariamente, in un pluralismo a volte caotico, le intuizioni di rinnovamento del Concilio Vaticano II, ha cercato il cambiamento della forma fine a se stessa, preoccupata più nell’aspetto formale che sostanziale, dei banchi vuoti a Messa e della riduzione delle vocazioni.

            L’inganno della politica è che le avanguardie potessero determinare il corso della storia. Un doppio inganno, perché le avanguardie non rispondono ai quesiti esistenziali e perché le avanguardie non sono mai il popolo, che ha i suoi tempi, le sue convinzioni, le sue esigenze primarie, le sue necessità spirituali e soprattutto le sue contraddizioni e incoerenze.

            Dalle grandi conflittualità sociali del secolo passato, però, pare aprirsi una nuova era all’orizzonte favorita dalla sconfitta delle ideologie e dalla maggiore consapevolezza dei popoli del valore della democrazia che fonda le sue radici nella secolarizzazione del cristianesimo.

Cristo non è stato avanguardia. Cristo è testimonianza. Non ha costruito un percorso politico, ha indicato la via della salvezza. Il cristianesimo non è una ideologia, né può essere considerato alla base di una ideologia.

Io sento il diritto e il dovere di diffondere la mia morale e la mia religione – scriveva Giovanni Modugno a Gaetano Salvemini il 12 gennaio del 1947 – ma, essendo fermamente convinto che il cristianesimo non si subisce ma si accoglie nel più profondo dell’anima, so che non ho il diritto di imporlo con la forza e con la violenza; e so, inoltre, per lunga esperienza, che per creare serie, sincere e salde convinzioni occorre il metodo evangelico; cioè, il metodo della comprensione, della pazienza, della carità.

            Se riannodare i fili del racconto della vita tra le generazioni può favorire il ritorno ai valori etici, rispondere all’esigenza imprescindibile dell’educazione (emergenza del nostro tempo) e rimettere al centro della vita quotidiana l’uomo nella sua interezza di corpo e spirito, ispirandosi ad una sorta di nuovo socialumanesimo, capace di prendere il meglio delle esperienze culturali, ideali, sociali e politiche del novecento, occorre essere convinti che è solo l’amore, la testimonianza dell’amore la strada maestra.

            La politica, dunque, oggi ha più che mai bisogno di amore, bisogno di cristiani che testimonino amore, la disarmante forza dell’amore. Poiché quando ci si convince a priori di essere nel giusto non si riesce più a discernere il giusto dall’ingiusto, il vero dal falso.

            D’altra parte non può esserci giustizia sociale senza amore. Non c’è giustizia sociale che sia imposta e non condivisa anche da chi la pensa diversamente. Amare l’avversario in politica, includerlo, considerarlo, ascoltarlo, incoraggiarlo all’amore, aiuta più di ogni parola ad una speranza di giustizia sociale.

Non è nella rivendicazione dei diritti la risposta ai bisogni dell’uomo, ma nell’operosità dell’amore. Il bene comune non nasce dallo scontro tra le diversità, ma dall’incontro, dal confronto, dall’accettazione e dal dialogo.

In una società votata alla rissa, con scontri verbali inverosimili, toni esasperati, molto spesso per mancanza di idee o per esplicito malessere esistenziale, i laici cristiani e non solo, ma tutti gli uomini di buona volontà, debbono saper mostrare la via migliore della politica nell’interesse del bene comune.

Molta violenza, molta intemperanza, gran desiderio del fracasso e tutto a base di piccinerie misere e personali. A parlare con loro sono subito disarmati, perché non hanno mai in vista la riuscita delle cose che sostengono, e perciò sbagliano le mosse e pregiudicano i buoni effetti che si potrebbero ottenere con altro atteggiamento.Così scriveva Anna Kuliscioff a Filippo Turati sulle tante divisioni del movimento socialista a cavallo tra ‘800 e ‘900. Quel movimentismo giacobino non ci ha ancora abbandonato e molto spesso accompagna molti cristiani in politica, rendendoli meno credibili nella loro fede. Gesù ci ha insegnato ad essere uomini miti, determinati, ma miti.

Spesso ci si interroga sulle divisioni dei cristiani in politica. Le divisioni sono il sale della democrazia che è premessa dell’operosità dell’amore. Persino in una famiglia di sani principi ci si può dividere sugli acquisti da fare, sulle priorità di qualcosa rispetto ad altro, sulla scelta degli studi dei figli, sulla gita al mare o in montagna, sul computer o il tablet, ma ciò che conta è il metodo del confronto, la non sopraffazione degli uni sugli altri, il rispetto reciproco. L’amore è l’unità della famiglia come è l’unità di tutta l’umanità. L’aspirazione massima che si intende coronare con la giustizia sociale.

Ci si può dividere, ad esempio, sulle tasse, se aumentarle per reggere la spesa pubblica a favore dell’assistenza alle classi sociali più deboli, o se ridurre le tasse favorendo una defiscalizzazione per i lasciti e gli aiuti di carità e detassare del tutto i redditi sotto una certa fascia, o anche nel sostenere un equilibrio tra entrambe le cose.

Né credo che Gesù abbia dato a nessuno l’obiettivo di essere maggioranza. Oltretutto le maggioranze finiscono per esaurire molto spesso la spinta ideale propulsiva, finiscono per impantanare le cose, mantenere lo statu quo, non incoraggiare la conversione dei cuori.

            La frustrazione per la pratica politica ormai prevalentemente dedita, nella migliore delle ipotesi, al soddisfacimento di interessi di parte mi ha portato a praticare il giornalismo come professione verso la fine degli anni 80. Ma la frustrazione interiore è andata raddoppiandosi perché ero sempre più consapevole di esercitare una professione che non riusciva più a rispettare le persone in quanto tali e che utilizzava la parola per piacere, adulare, persuadere o viceversa offendere, mortificare, escludere.

            Le comunicazioni sono una frontiera, una trincea, che incide, cambia, trasforma la cultura e il pensiero comune dominante portando ogni professione ad essere, a sua volta, una trincea. Ma anche se molto spesso noi cattolici ci sentiamo e probabilmente siamo bersaglio, vittime, parte lesa si direbbe in un linguaggio giuridico, non possiamo esimerci dalle nostre responsabilità nel non riuscire a comunicare amore in ogni circostanza anche e soprattutto nei confronti di colui che ci appare nemico.

            E’ illuminante la riflessione che Santa Scorese, serva di Dio barese morta giovanissima, diremmo oggi vittima di stalking, scrive nel suo diario di studentessa: In una classe dove solo un altro paio di ragazzi sono praticanti è un po’ difficile essere una piccola Maria. Sono partita in quarta, partecipando vivamente alle discussioni in classe, ma alla fine mi sono accorta che forse non avevo ottenuto molto e che alla fin fine tutto era valso solo a farmi chiamare “monaca” o “bizzoca”. Ho sofferto tanto perché capivo che non potevo star ferma… Voleva dire che dovevo prima di tutto lavorare su me e poi cercare di trasmettere l’Ideale. Allora mi sono messa all’opera, ed è stato quasi naturale trovare il modo per vivere l’Ideale anche tra i “compagni”: è amarli uno per uno, come se amassi Gesù in loro, cercando proprio di farmi una con loro.

Il nostro, troppo spesso, è un atteggiamento ipocrita, da quieto vivere formale, dei rapporti sociali e della nostra coscienza. Sotto la cenere dell’apparenza arde, però, il fuoco della contraddizione.

L’uomo è contraddizione, vive il dualismo tra bene e male nella sua carne come nella sua mente. Solo lo Spirito può salvarlo. E con esso la preghiera, l’incontro con l’altro anche se diverso e nemico, in cui riconoscere, come negli amici, il volto di Dio.

            L’incontro con don Vito Marotta mi ha riportato a Gesù, dando ricchezza e senso alla mia vita quotidiana. “Vorrei essere volto di Dio” ha scritto don Vito nelle sue poesie-preghiera. Nella nostra frequentazione quotidiana mi ha insegnato con l’amore della fraternità a vedere in ogni altra persona il volto di Dio. E il suo sorriso è diventato il mio sorriso.

            Non che la vita sia diventata all’improvviso rosa e fiori. Tutt’altro. Ma il mio dialogo con Gesù, l’ascolto della sua parola, la consapevolezza del suo Amore immenso donato agli uomini hanno riempito le bisacce del mio cammino terreno, portandomi a considerare la mia professione, il mio scrivere come testimonianza dell’amore universale.

            L’ amore universale di cui scrive Hafida Faridi, una donna marocchina di Marrakech ben integrata con la sua famiglia musulmana a Gioia del Colle da qualche anno. Dio mio, con te e vicino a te, vivo in un mio vasto mondo dove non vi è spazio per l’odio,/ dove il mio smisurato Amore per te si estende su tutte le tue creature. Il sangue dell’uomo fratello è sacro!,- scrive Hafida, -che indica nel perdono,la virtù nobile,la via maestra:Ti tendo una mano tremante mentre con l’altra ti tiro verso di me dicendoti:/ “ti perdono, convertiamo la nostra discordia in pace!

La Puglia non è avulsa dal contesto generale dell’occidente opulento anche se da sempre è porta ad oriente. Conosciamo bene i mali dell’opulenza.

Ma come ebbe modo di dire Giovanni Paolo II nella Basilica di San Nicola il 26 febbraio del 1984, Le onde di questo mare hanno portato lungo i secoli, da un capo all’altro delle sue sponde, idee e merci, minacce e progresso, costituendo, in una diversità di concezioni e di costumi, una integrazione che voi cercate di comprendere e di promuovere con gli strumenti della cultura. Una maggiore integrazione fa parte della vocazione naturale del Mediterraneo: quella cioè di diventare un anello importante del dialogo Nord-Sud – e come non pensare, allargando lo sguardo, all’Europa e all’Africa? – dialogo oggi così urgente per la pace del nostro pianeta.

Siamo sempre stati una terra che non ha vissuto molte guerre, una terra accogliente, aperta persino alle dominazioni facili di altri. Abbiamo imparato ben presto ad incrociare sul nostro territorio la cultura dell’oriente con la cultura dell’occidente, anche prima dell’avvento di Cristo.

Oggi, di fronte ai cambiamenti sociali e politici che si annunciano nel Mediterraneo, ad Oriente come in Africa, possiamo offrire la tradizione della nostra terra come culla della speranza. Un processo culturale che ci porti verso la verità condivisa tra popoli, senza pregiudizi né fraintendimenti né falsi scopi.

Mi chiedo spesso che differenza ci sia tra un bambino nato a in un paese arabo, magari fondamentalista, e un bambino nato nella nostra Puglia, ad esempio. A parte le differenze di censo, condizione che potrebbe anche essere la stessa, di lingua, di costume e di cultura, saranno bambini educati a considerare l’esistenza di un Dio unico.

Con la globalizzazione che avanza veloce, è iniziata l’epoca della mediazione tra le culture come necessità. Una necessità che non è meticciato, che è sempre esistito, ma incontro, sintesi, ricerca univoca dei valori condivisi. Ben più che semplice tolleranza o accettazione del diverso.

Un modo nuovo di pensare e di agire ci attende. Un percorso che accomuna tutti i popoli del Mediterraneo nell’abbattere steccati culturali di divisione secolare, nel riconoscere ed eliminare le sovrastrutture culturali che abbiamo costruito nei secoli favorendo le divisioni, e nell’alzare le antenne alla sintonia di una verità universale.

Sono stato recentemente in Terra Santa. Ho constatato direttamente la ferita storica tra le tre religioni monoteistiche. La spianata delle Moschee che si è sovrapposta al Tempio di Gerusalemme, edificato dal popolo ebraico e a noi tanto caro per le predicazioni di Gesù. Così come sono visibili i segni indiscussi delle crociate di fede dei seguaci di Cristo, capaci di dividersi nella storia per la conquista di un simbolo di potere. Ma attorno a quello stesso Santo Sepolcro è stata un piccola croce di legno riarso all’ingresso della povera Chiesa Etiope a pormi profeticamente di fronte alla domanda- affermazione: Gesù non può essere morto in croce per tutto questo?!

Tutta l’umanità è chiamata ad abbandonare le sovrastrutture culturali che hanno accentuato drammatiche divisioni nei secoli. Siamo chiamati a compiere un grande lavoro di sottrazione per semplificare il cammino della verità. Noi per primi, abbiamo aggiunto troppo alle parole di Gesù. Abbiamo affollato di simbolismi speculativi la semplicità della verità di Cristo. Dobbiamo ripartire dal Cristo che si fa vita pubblica, che si manifesta, che partendo dal valore più puro della tradizione indica il futuro nella considerazione dell’animo puro di ognuno di noi, capace di ricacciare le tentazioni, capace di rispettare e amare i fratelli, primi fra tutti coloro che sbagliano.

E’ il perdono la nostra redenzione. Il perdono che chiediamo a Dio per i nostri peccati, il perdono che riconosciamo ai nostri fratelli per ogni torto ricevuto. Il perdono che ci tocca chiedere tutti a Dio per la storia passata, antica e recente.

La Chiesa siamo noi, presbiteri e laici. La Chiesa è il nostro agire quotidiano, il nostro percorso di testimonianza, difficile, contraddittorio, faticoso, ma inequivocabile. Ciò che siamo è ciò che mostriamo di essere. Non possiamo essere una cosa e mostrarne un’altra. Non possiamo essere testimoni di fede e nascondere la fede, riducendola ad un mero fatto personale. La fede per i cristiani è vita di popolo, vita comunitaria condivisa, anche con chi ritiene di non doverla condividere, perché la fede dei cristiani non è imposta, è semplicemente testimonianza coerente.

Dobbiamo essere pronti ai cambiamenti. Dobbiamo prestare ascolto e comprensione insieme alla capacità di essere credibili in quanto testimoni di Cristo.

L’auspicio più grande per gli uomini di Chiesa oggi, è di non essere farisei. Di non dare per scontate acquisizioni e comportamenti che più che del Vangelo siano il frutto di una dominante culturale destinata in quanto tale ad esaurirsi.

            Nel pellegrinaggio in Terra Santa mi sono lasciato immergere in alcune suggestioni poetiche, che in conclusione di questa mia testimonianza, mi piace affidare anche a voi, laici, consacrati, presbiteri e Vescovi perché se gli uni hanno la responsabilità di essere testimoni di Gesù nella vita sociale, gli altri hanno la responsabilità di essere motore propulsore della continua conversione di ogni uomo credente.

 
 
 “Ascoltatelo”.
E il silenzio si fece voce,
preghiera di perdono
per ogni volta
che dimentichiamo l’ascolto.
 
“Ascoltatelo”.
E il sangue nelle nostre vene
sentì il calore del sollievo,
il tepore fraterno
e consolatorio di ogni solitudine.
 
“Ascoltatelo”.
E il fallimento fu dimenticato,
per ogni volta
che l’ascolto alimenta la speranza
ed è gioia di condivisione.
 
Ripartite dalla Galilea.
Ripartite di qui.
Dove la luce divina
squarcia persino
la serenità del cielo.
Ripartite di qui.
Dove ha parlato
e si è svelato
l’ultimo degli umani,
colui, che da fratello,
ci ha indicato la via,
che è il Padre di noi tutti,
Dio Misericordia e Amore.
Ripartite dalle sue parole.
 
Enzo Quarto
San Giovanni Rotondo, 28 aprile 2011
Terzo Convegno Ecclesiale Regionale
"I laici nella Chiesa e nella società pugliese, oggi"
 
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