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Coronavirus: Restiamo a casa

Facciamo nostro l'appello alla responsabilità di tutti i cittadini da parte dei virologi e dei medici in prima linea: è l’unico modo per fermare l’epidemia. I reparti di terapia intensiva sono allo stremo. Sta a noi vincere questa guerra

L’infermiera al telefono ha la voce che un po’ si incrina, è stanchissima, fisicamente e psicologicamente, racconta di uno scenario mai visto, delle sale operatorie ferme, salvo urgenze, per liberare i respiratori per i contagiati da coronavirus in crisi respiratoria, dei salti mortali, per fare posto ai nuovi arrivati, del rischio ogni giorno più concreto di fronteggiare un limite fisico: man mano che cresce il numero dei contagiati, crescono in proporzione i casi con complicanze polmonari. Quando il numero dei casi complicati supera la soglia dei posti, dei medici rianimatori, dei respiratori disponibili si comincia a rischiare tutti, dato che respiratori meccanici, letti da rianimazione (non letti qualunque ovviamente), e medici rianimatori non sono qualcosa che si possa estendere all’infinito né formare all’improvviso.  Per questo, proprio loro, che vedono ogni giorno quanto accade e che sempre di più lo raccontano come uno scenario di guerra, diffondono con ogni mezzo un messaggio che le istituzioni, dopo pericolose oscillazioni nelle scorse settimane, stanno ora raccogliendo in modo univoco: «Italiani, state a casa. Vediamo troppa gente in giro». Ridurre drasticamente i contatti sociali, ripetono virologi e immunologi, è l’unica arma che abbiamo per difenderci da un virus contro il quale non abbiamo né terapie specifiche né anticorpi.

Stare a casa vuol dire assumersi la responsabilità di isolarsi per quanto possibile, tenendo a distanza non l’umanità, ma i contatti fisici il più possibile e limitando al massimo gli spostamenti. È un sacrificio che chiede di cambiare anche drasticamente le abitudini di vita. Si tratta di tenersi in contatto con gli amici e con i familiari con cui non si convive via telefono e chat, non di invitarli a cena la sera a casa, perché la casa in sé non protegge, l’unica cosa che ci può proteggere è la riduzione dei contatti sociali. Si può camminare all’aperto ma il più possibile separati, di certo non stare sulle panchine uno accanto all’altro o in gruppo seduti sugli scalini o all’aperitivo ai tavolini all’aperto tutti vicini. Vale per le singole persone, che devono evitare per il tempo necessario tutti i contatti che possono evitare. Ridurre spostamenti vuol dire che non fanno eccezione le gite nei fine settimana, ovunque siano, per non dire le irresponsabili fughe dalle zone chiuse in treno e in bus. Vale per lo sport, anche professionistico che non può restare un mondo a parte. Vale per le imprese invitate ad adottare il telelavoro – quelle che possono – nella misura più ampia. Sono tutte misure che servono a evitare che molte persone vadano in giro, si contagino e diffondano il virus. Sarà un sacrificio economico per molti, soprattutto per esercizi che fanno della socialità la ragione di vita, ma serve la razionalità di capire che più lo si fa ora tutti insieme più si può sperare di farlo a breve termine. Diversamente le conseguenze sulla salute e sull’economia saranno più lunghe e devastanti per tutti.

È una questione di responsabilità nei confronti di sé stessi e degli altri, per una volta isolarsi non è un gesto di egoismo ma di responsabilità verso l’altro, un modo di proteggere ciascuno sé stesso e la collettività insieme. Parafrasando don Lorenzo Milani occorre, in questo momento, sentirsi ciascuno responsabile di tutti, non obbedendo alla cieca ma usando il senso critico per capire, come ci stanno ripetendo esperti ed autorità civili e religiose (da papa Francesco, al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al presidente del consiglio Giuseppe Conte), che condividiamo tutti la stessa fragilità, che stare lontani fisicamente è ora l’unico modo che abbiamo di fare quadrato ed essere tutt’uno con i nostri affetti con il resto della comunità.

La comunità cinese a Milano, che abbiamo anche talvolta aggredito all’inizio in una vergognosa caccia all’untore, ci ha dato in questo una straordinaria lezione di civiltà: ciascuno si è volontariamente isolato per senso civico, per proteggere sé stesso e tutti noi, senza attendere ordinanze. È una lezione, ci dicono i medici in prima linea, di cui devono fare tesoro gli italiani che sono ancora fuori dalle zone rosse e arancioni: prevengano, riducano i contatti sociali anche loro, prima di trovarsi dove già sono altri, sull’orlo della crisi di un sistema sanitario che resta tra i migliori al mondo, ma che se non ha, da subito e senza deroghe, la collaborazione della nostra rigorosa responsabilità individuale, nonostante gli sforzi, rischia di non poter dare assistenza a tutti quelli che ne avranno bisogno.

Elisa Chiari

© www.famigliacristiana.it, lunedì 9 marzo 2020

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