Cure palliative. Mons. Pegoraro, “per la Chiesa sono risposta buona, doverosa ed eticamente corretta”
Nel mondo, secondo la World Health Assembly (organo legislativo dell’Organizzazione mondiale della sanità), ogni anno oltre 40 milioni di persone avrebbero bisogno di cure palliative, ma il dato è destinato a crescere a causa dell’invecchiamento della popolazione e della persistenza di malattie croniche e infettive. Per fotografare lo stato globale dell’arte attraverso un confronto tra esperienze di paesi, culture e tradizioni religiose diverse e per diffondere una cultura dell’attenzione al malato terminale, alla qualità della sua vita e della famiglia che lo circonda, la Pontificia Accademia per la Vita (Pav) ha organizzato in Vaticano il Congresso internazionale “Palliative Care: Everywhere & by Everyone. Palliative care in every region. Palliative Care in every religion or belief” (28 febbraio/1 marzo). La due giorni, che si è conclusa con la presentazione di un “White Paper for global palliative care advocacy”, ha visto la partecipazione di 400 specialisti e operatori del settore di 38 Paesi del mondo. A colloquio con mons. Renzo Pegoraro, cancelliere della Pav.
Che cosa si intende per cure palliative e qual è la posizione della Chiesa al riguardo?
Si tratta di cure che garantiscono una presa in carico integrale del paziente specialmente nella fase terminale della vita, offrendo risposte ai suoi bisogni fisici, psicologici, spirituali e relazionali e garantendogli così la migliore qualità di vita possibile. Dando sollievo alla sofferenza e accompagnando i malati terminali ad una morte dignitosa e il più possibile serena,
la Chiesa ritiene le cure palliative una risposta buona, doverosa ed eticamente corretta
per offrire assistenza alla persona nella sua totalità ed evitare derive, da una parte verso l’eutanasia, dall’altra verso l’accanimento terapeutico, procedure entrambi non ammissibili.
Un punto controverso e sul quale si fa ancora molta confusione, soprattutto dopo recenti casi di cronaca, è quello della sedazione palliativa profonda…
Il magistero della Chiesa ha al riguardo una linea coerente e consolidata nel tempo. Già Papa Pio XII negli anni Cinquanta aveva sostenuto l’importanza di somministrare analgesici per il trattamento del dolore insopportabile e non altrimenti alleviabile, anche se questi potessero essere indirettamente causa di abbreviazione della vita. Da allora ad oggi il progresso della medicina fa sì che questo possibile effetto collaterale sia molto raro. Resta fermo che questo tipo di sedazione va offerta solo in casi estremi per alleviare i cosiddetti “sintomi refrattari” (dolore altrimenti insopportabile) di un paziente nelle ultime fasi di vita, secondo procedure appropriate e cercando, quando è possibile, di avere il consenso del malato e coinvolgendo anche i familiari affinché sia una decisione condivisa. Voglio ribadire che
la sedazione profonda è una procedura inerente alle cure palliative e non ha nulla a che vedere con l’eutanasia o il suicidio assistito.
Questi due giorni hanno visto un confronto a 360 gradi tra culture e tradizioni diverse…
Un confronto e un dialogo che ha permesso di conoscerci e di condividere ciò che avviene nel mondo, come si pongono le diverse realtà e quali risposte stanno attivando. Non mancano certo difficoltà e problemi legati a motivi, tradizioni religiose, situazioni economiche e sociali, contesti culturali diversi. Permane inoltre una profonda disparità tra Paesi ricchi e paesi in via di sviluppo dove scarseggiano preparazioni e trattamenti adatti, formazione del personale, strutture e servizi e dove, talvolta, si riscontra un certo fatalismo. Tuttavia, pur nella consapevolezza di queste differenze e di questi limiti,
è emersa una forte “universalità” e volontà di lavorare insieme per promuovere lo sviluppo delle cure palliative, una loro maggiore diffusione e migliore organizzazione su scala globale, sia a domicilio sia negli hospice.
Quale può essere il ruolo delle religioni?
Per la loro capacità di “entrare” nei diversi contesti culturali, possono favorire e accompagnare questo processo coinvolgendo le famiglie, e aiutare la nascita di strutture di accoglienza.
Qual è l’obiettivo del White Paper presentato a conclusione del congresso?
Si tratta della sintesi operativa di un testo più ampio e discorsivo elaborato dal Gruppo di esperti del progetto PaL-Life avviato dall’Accademia, sullo stato globale delle cure palliative e
contiene 13 raccomandazioni ad ampio raggio rivolte ad altrettante categorie di soggetti che a diverso titolo svolgono ruoli sul campo: policymaker, università, ospedali e centri di cura, medici, aziende farmaceutiche, organizzazioni internazionali, chiese e istituzioni religiose, associazioni professionali e per i diritti umani, gruppi di pazienti e media.
Tutti possono svolgere un compito importante nella promozione di una cultura della vicinanza e dell’accompagnamento della vita più fragile. Cultura che implica nuova mentalità, nuovi approcci e nuovi modelli organizzativi. Il Paper è stato consegnato ai partecipanti al congresso. Tenteremo di diffonderlo ulteriormente coinvolgendo e sollecitando tutti gli stakeholder interessati.
In Italia le cure palliative sono state introdotte dalla legge 38 del 15 marzo 2010, qual è il suo giudizio?
È certamente una buona legge, ma nel nostro Paese c’è ancora molto da fare sia per la diffusione di queste pratiche sia nell’organizzazione dei servizi. Permangono ancora troppe disparità territoriali.
Giovanna Pasqualin Traversa
© www.agensir.it, venerdì 2 marzo 2018