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Dal rancore degli «esclusi» un nuovo soggetto sociale

Il disagio genera voglia di farsi sentire, tra urne e Web. Gli effetti della lunga recessione e la compressione della classe media hanno estromesso molti cittadini dai processi di crescita

Dovesse dipingere oggi Il quarto stato, Pellizza da Volpedo non avrebbe problemi a riempire di protagonisti la sua opera. Potrebbe anzi allargare la prospettiva, dal primo piano dei braccianti, al terzo stato, la borghesia urbana, e permettersi altre divagazioni. Gli sconfitti della globalizzazione che avanzano con passo fiero, più rabbia e meno eleganza rispetto al passato, nell’Occidente in crisi di identità, sono senza dubbio una delle immagini chiave del 2016 appena archiviato. Perché tale e imponente è stato il vento di rivalsa soffiato negli ultimi mesi da rendere impossibile il procedere con vecchie istantanee e categorie desuete. Il paradosso è che, adesso, i vinti stanno vincendo sui vincitori, utilizzando le armi che sono rimaste: il voto e la Rete, la democrazia e Internet, l’urna e i social network. È un bene o un male? È un fatto. Punto. Pieno di contraddizioni da indagare e di indizi su quel che potrebbe accadere.

Volti diversi, una nuova offerta politica. Proviamo a mettere in fila, dunque, le facce degli sconfitti, improvvisamente usciti dalle caverne della storia e impossessatisi del palcoscenico. Sono gli operai delle nostre periferie che mal sopportano la concorrenza degli immigrati nell'assegnazione delle case popolari, sono i contadini del Midwest che hanno votato Donald Trump insieme ai metalmeccanici del Michigan, i ragazzi di Bernie Sanders e di Occupy Wall Street, la « France des invisibles » che Marine Le Pen vuole riuscire a sedurre, gli under 35 che hanno affossato, soprattutto al Sud, la riforma costituzionale italiana nel referendum. «In realtà i vinti della globalizzazione sono i veri vincitori – riflette il sociologo Guido Bolaffi –. In fondo, chi sta nelle borgate e ha problemi con l’affitto della casa spesso poi ha l’iPhone, grazie ai prodigi della globalizzazione. La novità è che è emersa un’offerta politica in grado di rispondere ai loro bisogni. Fino a qualche anno fa, per fare un esempio, i partiti operai delle richieste dei contadini non sapevano che farsene». Fenomeni diversi e frastagliati si sono così unificati, mettendo insieme le istanze e la protesta dei ceti sociali più in difficoltà, usciti tutti ugualmente impoveriti dalla Grande Crisi. «Forse dovremmo chiederci – sottolinea l’economista dell’università Luiss, Cesare Pozzi – se la globalizzazione sia stata davvero un percorso naturale e ineluttabile. Io penso di no e credo invece che sia stata il risultato di diverse scelte politiche, su tutte quella di portare su scala mondiale il modello americano di democrazia capitalistica».

Pochissimi contro tanti. In America il 90% della popolazione ha un reddito medio, l’1% corrisponde invece alla parte della popolazione più ricca. «Questa situazione – ha detto recentemente il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz – esiste anche in altri Paesi, ma gli Stati Uniti presentano più disuguaglianze, con un reddito dei ricchi 300 volte superiore rispetto a quello della classe media». In Italia, secondo una ricerca Swg-Legacoop, tre cittadini su quattro pensano che la forbice tra benestanti e indigenti si sia allargata, mentre il 55% definisce il sistema di mercato «chiuso in corporazioni». La globalizzazione, complice la recessione, ha uniformato tutto ed è stata percepita come un processo di penetrazione aggressiva di pochissimi nei confronti di tanti. Il risultato? «Quattro-cinque miliardi di lavoratori sfruttati, 140 corporation globali, Stati senza alcun potere – sintetizza Pozzi –. Quel che è successo è stato semplicemente un modo politico di risolvere il problema della classe media, che oggi non esiste più. Solo il Papa sembra aver chiaro quanto sta accadendo: ci sono alcuni diritti indisponibili della persona, che vanno riportati in primo piano. Riguardano la dignità, la salute e il lavoro e vanno tutelati prima di tutti gli altri».

Un soggetto nuovo sulla scena L’effetto di tutto questo è stata la nascita di un nuovo soggetto, che ha ingigantito le dimensioni della protesta civile e ha destabilizzato le previsioni delle élite. «È nata la moltitudine del rancore» fa notare Aldo Bonomi, uno dei primi a intuire anni fa il cambio epocale di paradigma. «Prima – spiega il sociologo milanese – la polarità era tra capitale e lavoro, con lo Stato in mezzo. Oggi non c’è più nulla. Si è tentata la strada della disintermediazione e l’approdo è stato un boomerang per chi se ne è fatto promotore». Gli sconfitti della globalizzazione sono stati prima esclusi dai processi di crescita e coesione sociale, poi si sono autoemarginati, infine sono riemersi senza diventare un popolo, semmai solo la somma di più individui. «Così è esplosa la questione sociale dei dimenticati, che può essere risolta in un unico modo: ricostruendo la società di mezzo. O la politica torna al livello del suolo, per scomporre e riaccompagnare i processi sociali, non per forza con nuovi corpi intermedi ma di certo con nuove idee di società – esorta Bonomi –, o la metamorfosi cui stiamo assistendo continuerà, con esiti imprevedibili».

Umori sociali, populismi, potere. Non è un caso che la crisi di rappresentanza sia stata risolta, nell’ultimo anno, cavalcando teorie e personalità fuori dagli schemi. «Trump non è certo un vinto della storia, eppure ha promesso di ridare voce a chi si sente sconfitto – ragiona Bolaffi – . E Le Pen o Grillo hanno forse il physique du role dei perdenti? Tutt’altro». Il punto è che è cambiata la nozione stessa di potere, tanto che il delegato di una comunità non rappresenta più la comunità stessa, le sue origini e la sua storia, ma gli interessi che lo sostengono. Nel frattempo, però, rischiano di prevalere gli istinti peggiori: la paura, la chiusura, la discriminazione. «Anche la nozione stessa di populismo va scomposta, dentro ci sono disagi sociali da comprendere – spiega Bonomi – mentre bisogna tornare a lavorare sui meccanismi di appartenenza al quartiere, al borgo, alla città, alla nazione. Molto dipenderà dalla nascita di una comunità operosa, in grado di medicare le ferite aperte dalla competizione feroce degli ultimi vent’anni». È forse l’ora di deporre le armi, di siglare una tregua tra vincitori e vinti, che non potrà che avvenire nei territori dove la globalizzazione si è persa.

Diego Motta

© Avvenire, martedì 3 gennaio 2017

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