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Dolore, stop allo show

La fuga dal dolore è naturale e comprensibile, l’indifferenza inaccettabile. Eppure uno dei paradossi di quest’era sovrabbondante di immagini è proprio la freddezza diffusa davanti alla sofferenza che entra quotidianamente nelle case ogni giorno

Image_5.jpgE che deve fare ascolti e quindi attirare pubblicità. La crescente assuefazione alla sofferenza, in particolare verso la carestia nel Corno d’Africa è stata denunciata agli inizi dell’autunno Bernard Kouchner, cofondatore di Médecins sans frontières e ministro degli esteri francese dal 2007 al 2010, un uomo che ha costruito la propria immagine e il successo di quella ong ormai globalizzata anche grazie a un uso intelligente della sofferenza nei media. Ma in questo secondo decennio del secolo il quadro è cambiato, i cuori sembrano induriti e dobbiamo affrontare anche l’amnesia collettiva davanti a tragedie come le guerre mondiali, l’Olocausto, le guerre di fine 900. Il tema viene affrontato il 15 dicembre a Milano all’Università Cattolica, che dedica un’intera giornata di studi al «Dolore degli altri, immagini della sofferenza tra memoria e oblio».

Sugli atteggiamenti che assumiamo davanti al dolore ragiona anzitutto il filosofo Salvatore Natoli. «La fuga è una reazione – puntualizza – motivata dal rifiuto della sofferenza. Ma non dimentichiamo la compassione, la scelta di sopportare con l’altro il dolore». Il quadro cambia con la rappresentazione del dolore nella società dell’immagine. Che, secondo il filosofo milanese, porta a tre atteggiamenti. «Anzitutto il terrore provocato dalle immagini della morte. Però questo nasconde il rischio del compiacimento davanti a immagini forti, ma ben fatte. Poi c’è la commozione dietro alla quale c’è un desiderio di partecipazione, anche se si mantiene un certo distacco rispetto alla compassione. Dipende certo dalla generosità personale, ma è la commozione a far contribuire se viene proposta una raccolta fondi per le vittime di una tragedia. Infine la meditazione, che viene dalla memoria. Nel caso dell’immagine, ad esempio, il cinema, quando è una forma d’arte, può aiutare a meditare sul dolore e fare memoria». Per Natoli, però, non vanno demonizzati i media. «Do per scontato il fenomeno dell’assuefazione al dolore, ma la colpa non va attribuita solo alla tv. Il miglior antidoto all’indifferenza resta l’esperienza del dolore vivo, ad esempio attraverso il volontariato».

Eppure la tv ha mercificato il dolore. Almeno 20 anni fa Aldo Grasso, critico televisivo del «Corriere» e docente di Storia della radio e della tv all’ateneo di Largo Gemelli, fu il primo a coniare la fortunata espressione «tv del dolore» per le trasmissioni di Maurizio Costanzo. Genere che si è evoluto lasciando tracce nella nostra coscienza. «Oggi va in onda quotidianamente lo spettacolo del dolore perché la tv – osserva Grasso – non porta a nessuna esperienza diretta della sofferenza reale. Lo descrivo con una bella definizione coniata da Alberto Savinio, 'dolorismo', che rappresenta il dolore nella convinzione di fare opera profonda. Ma il dolore è la cosa più individuale e intrasferibile della vita umana, la cui importanza deriva dal carico di senso che gli attribuiamo. La televisione invece glielo toglie. L’unico senso che gli carica è l’audience. Perciò si sono costituite queste compagnie di giro che ogni giorno si ritrovano in qualche salotto televisivo a parlare di un delitto e riaprire ferite. Li chiamo dissotterratori di cadaveri. La loro attività principale consiste nel dissotterrare in tv ogni giorno un morto, piccolo spettacolo più o meno riuscito e più o meno osceno». Che fa audience. «È un filone che tira ed è coltivato. Si è evoluto, prima c’era il caso umano nel talk show del quale si raccontava la storia. Oggi siamo passati alla ricostruzione della scena del crimine, filone più strutturato e complesso». E così si arriva all’assuefazione. «Inevitabile. Quando si rappresentano certe scene e si parla di certi argomenti, per difenderci ci costruiamo una callosità come arma di difesa. E i programmi tv per attrarre pubblico sono costretti ad aumentare la posta in gioco. Così il dolore è diventato un prodotto tra gli altri».

E una delle conseguenze è l’inerzia dello spettatore nelle grandi città. L’ha studiata lo psicologo sociale Adriano Zamperini, docente all’università di Padova, che da diversi anni si occupa di fenomeni di violenza collettiva. «L’inerzia è riscontrabile davanti al dolore che incontriamo, quello delle persone comuni come quello delle persone relegate nella categoria della diversità come immigrati e rom». Colpa dei media? «La persona è condizionata dall’ambiente. Parte dell’inerzia è attribuibile all’individualismo estremo che anche i media diffondono. Ma è anche colpa della fretta, ad esempio. È dimostrato che se si diffonde un modello nel quale alle persone viene fatto credere di non avere tempo, non si dedicheranno agli altri». Semmai per lo psicologo il caminetto dei media è responsabile di attivare altri meccanismi psicologici. «È provato che la sensazione di distribuzione della responsabilità davanti a un problema di un’altra persona diminuisce il coinvolgimento personale. Ma non va colpevolizzata la persona, non esistono infatti indifferenti, ma gesti di indifferenza». Antidoti all’inerzia? «Investire sulla formazione sociale. Dobbiamo educare cittadini che facciano esperienze individuali di condivisione dei problemi e della sofferenza altrui. Penso ad esempio a un servizio civile obbligatorio, anche breve, per riappropriarci della coscienza della realtà».

Paolo Lambruschi

© Avvenire, 15 dicembre 2011