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Don Milani e la scuola "facile"

Cesare Segre e Paola Mastrocola attribuiscono al Priore di Barbiana e alla sua pedagogia una responsabilità nei guasti dell'istruzione attuale. Noi la vediamo in un altro modo.

milani-marcia_1233263.jpgLa scuola italiana manda all’università persone con una preparazione inadeguata, zoppicanti nella loro lingua madre, incapaci di apprendere in profondità. Così, in sintesi, Cesare Segre ha raccolto e rilanciato sul Corriere della Sera di ieri il dibattito sulla  “scuola facile” innescato dal volume Togliamo il disturbo, saggio sulla libertà di non studiare, pubblicato per Guanda da Paola Mastrocola. 

     Segre e Mastrocola denunciano sacche di ignoranza diplomata. Leggiamo, però, tra le righe, che una parte della responsabilità, per questi guai della scuola attuale, sarebbe da attribuire alle teorie pedagogiche di don Lorenzo Milani. Ecco, vorremmo spezzare una lancia a favore di don Milani convinti che, se oggi fosse qui, avrebbe parole durissime contro una scuola che livella tutto in basso e che, invece di dare agli svantaggiati la possibilità di elevarsi verso i migliori, appiattisce i migliori verso lo studio al minimo sindacale. 

Le lettere vere

     È una scuola – quella ritratta dalla Mastrocola - che chiede sempre meno,
terrorizzata dai ricorsi ed è più classista di quella contro cui polemizzava don Milani. Allora chiudeva in faccia la porta agli svantaggiati che poi salivano a Barbiana in età da scuola dell’obbligo. Oggi invece non chiude la  porta a quasi nessuno neppure all’università ma, stando a molte testimonianze, lascia troppi nell’ignoranza da cui sono partiti. Sicuri che don Milani avesse teorizzato questo sfascio? 

      Noi non lo crediamo, anche se abbiamo letto la Lettera a una professoressa. E non lo crediamo anche  perché abbiamo letto le sue lettere vere, quelle agli amici, ai ragazzi, alla madre. E soprattutto abbiamo ben presente Esperienze pastorali il suo libro più duro e ancora attuale, a differenza di Lettera a una Professoressa che attuale non è, perché criticava una scuola che non esiste più da tanto. Sostituita da una peggiore diranno Segre e Mastrocola. Forse, o forse no, ma non è questo il punto. 

La scuola dell'obbligo

È che dal giugno 1967 don Milani sta sotto terra nel minuscolo cimitero di Barbiana
. Se qualcuno, dopo, ha trasformato quelle sue pagine provocatorie in un manifesto, spesso ridotto a slogan, per peggiorare la scuola nel nome di Milani, tirandolo per la tonaca nel caso, non possiamo farne una colpa a don Lorenzo. Anche perché uno degli slogan in voga diceva: “la scuola non può bocciare”, ma quelli che lo gridavano avevano rimosso, forse in malafede, dalla citazione due parolette fondamentali. Milani scriveva: “la scuola DELL’OBBLIGO non può bocciare”. (Sottinteso: perché se boccia lì, perde per sempre e manda i dispersi a badar le pecore per sempre). 

Paola Mastrocola ha ragione quando dice che sarebbe stata meno classista una scuola capace di dare anche ai più poveri la possibilità di accostarsi all’Iliade del Monti per consentire loro di scegliere se restare montanari o diventare professori di Oxford. Ma a Barbiana non finivano quelli rimandati in quarta ginnasio perché svogliati, finivano quelli che, semianalfabeti, avevano chiuso la loro avventura scolastica a elementari interrotte senza aver imparato a leggere nemmeno il contratto di lavoro prima di firmarlo, senza avere la minima idea di dove fosse Oxford. Erano ragazzi come Nevio,  mandato a 11 anni a bottega dal fabbro e ritirato solo per insufficienza di forza fisica. 

Un giorno del 2007 a Vicchio di Mugello abbiamo conosciuto Nevio: ha fatto per tutta la vita l’autista di autobus, ma parla meglio della media degli autisti di autobus e quando gli chiedemmo che cosa gli avesse lasciato don Lorenzo ci disse così: “A me ha lasciato la lingua e le lingue.  Parlo inglese e francese e conosco un discreto italiano. Se non avessi camminato due ore al giorno con la tuta di gomma nel fango per andare a Barbiana a piedi  - era la più vicina a casa e i pullman non c’erano - non saprei leggere, capendone i contenuti, la prima pagina di un giornale”. 

Ecco. Nevio, per esempio, che adesso è un signore bianco di capelli, ha afferrato da quella scuola sulla collina non gli strumenti per diventare un professore, ma quel tanto che gli basta per capire che cosa di drammatico sta accadendo in questi giorni nel paese che abitiamo, il suo conflitto istituzionale, la crisi alle sue frontiere, cosa che probabilmente molti liceali di oggi stentano a cogliere. 

I poveri e l'Iliade

 

A proposito di quel che scrive Segre, attribuendo a don Milani avversione per il sapere linguistico, va detto che don Lorenzo faceva scuola insegnando prevalentemente lingua e lingue, perché era convinto che avere parole fosse l’unico mezzo per darsi uno scopo più alto che guadagnarsi a sera un piatto di minestra, l’unico strumento per dare voce a un pensiero. 

Se la prendeva con l’Iliade del Monti, non perché disprezzasse il fatto che i poveri potessero arrivare a capire anche quella: contestava, provocatoriamente, il fatto che all’epoca si pretendesse di adoperare l’Iliade del Monti come punto di partenza. Si può anche dissentire da questo assunto, ma se la scuola una colpa ha avuto, dopo Milani, è stata quella di non cogliere il sunto cruciale del suo pensiero: formare meglio possibile più ragazzi possibili non per farli diventare più ricchi, ma per farli diventare più uomini. Milani voleva persone consapevoli di sé e dei propri diritti e doveri. Voleva studenti capaci di senso critico, l’espressione giusta sarebbe cittadini responsabili. 

Se chi ha riformato la scuola italiana nel nome di Milani, se chi ha rivendicato una scuola diversa nel suo nome, l’avesse fatto con il suo spirito questo paese oggi probabilmente verserebbe in condizioni migliori. Forse. Anche perché è giusto ricordare, come Mastrocola fa, anche a chi l’ha dimenticato, che Barbiana non era una scuola facile. Vi si studiava per dieci ore al giorno, sabato, domenica, Natale e Pasqua compresi, e non volava una mosca. Perché don Milani non permetteva. Casomai qualche pedata, sua, ai più indisciplinati. Era il prezzo da pagare perché nessuno restasse indietro. 

Quando a un convegno chiesero a don Milani come esportare Barbiana rispose, al solito, provocatorio: “Potete suicidarvi”. Perché, per fare quello che faceva lui, ci si sarebbe dovuti votare alla causa senza pause come aveva fatto lui. E per avere ragazzi motivati come i suoi, ci sarebbe voluto il Mugello del 1954 come alternativa, anziché il sogno del Grande Fratello. Oppure un esercito di maestri, magari sostenuti nella loro severità dalle famiglie e dall’intera società, capaci di insegnare a non farsi irretire da chi negli anni ha avuto interesse a che il Grande Fratello prosperasse. Con o senza Iliade del Monti.

Elisa Chiari
© Famiglia Cristiana, 26 febbraio 2011
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