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Dossier. Internet ci rende più stupidi o intelligenti?

Due ricerche, ugualmente autorevoli, offrono indicazioni opposte. Forse perché a essere determinante è la maturità dell'utente che utilizza il mezzo. Un tentativo di bilancio a 20 anni dall'avvento della Rete e a 10 dalla nascita di Facebook.

La famosa domanda, che fu espressa nella forma più esplicita e nitida da Nicolas Carr - Internet ci rende stupidi? - non ha mai trovato una risposta univoca, né mai la troverà. Al di là degli apocalittici e degli integrati, infatti, esistono seri argomenti per rispondere sia positivamente sia negativamente. Anche perché, se è vero che "il mezzo è il messaggio" (McLuhan docet), sembra difficile negare che la maturità dell'utente nell'utilizzo del mezzo resti comunque decisiva.

A ribadire la neutralità del mezzo, e di conseguenza la centralità della responsabilità di chi lo utilizza, sono due ricerche rese pubbliche nelle settimane scorse. entrambe autorevoli, quindi i dati che hanno prodotto vanno tenuti in eguale considerazione.

Nel decennale della nascita di Facebook, uno studio del Social network studies Italia per conto dell'Università Cattolica, intitolato "Relazioni sociali e identità in rete: vissuti e narrazioni degli italiani su Facebbok" ha offerto dati interessanti e, per più aspetti, sorprendenti. In generale, emerge una sostanziale maturità dell'utente del social medium per eccellenza, in grado di servirsene per sfruttarne le potenzialità, tenendosi lontano dai rischi che comporta. L'utente, in altre parole, sta in rete con consapevolezza, riflettendo sul proprio stare in Rete. Il che porta a sfatare - stando alla ricerca - alcuni luoghi comuni. A partire da quello che le persone su Facebook, prese dalla smania di condividere con gli altri la loro vita, si "lascino andare" nel mettere in mostra aspetti privati, ignari dei rischi per la privacy. Non sarebbe così: si conoscono i rischi, ma li si ritiene astratti e, comunque, prevale l'interesse a gestire strategicamente la propria identità privata in pubblico, attraverso un gioco di chiusura e apertura.

Altro luogo comune smentito dallo studio: Facebook è un luogo di esibizione ostentata di se stessi, un palco narcisistico in cui ciascuno mette in mostra (e in vendita) la propria intimità. In realtà, è emerso che gli utenti sono molto vigili rispetto ai contenuti che decino di condividere con gli altri e raramente parlano di sé in modo esplicito ed esibizionistico.

Insomma, stando a questa indagine, Facebook si profila come uno spazio non anonimo, che offre l'opportunità di enfatizzare aspetti della propria identità non facilmente esprimibili nel faccia a faccia, mettendo in scena un'immagine di sé socialmente desiderabile. E che quindi non ostacolerebbe, ma, al contrario faciliterebbe, le relazioni sociali.

Di segno opposto l'"Indagine sull'uso dei nuovi media tra gli studenti delle scuole superiori lombarde" condotto dal Gruppo di ricerca sui Nuovi media del Dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell'Università di Milano Bicocca. Monitorando oltre due mila studenti delle scuole superiori in Lombardia, è stato osservato che il tempo trascorso on line dagli studenti ha una relazione - negativa - sui risultati scolastici: più si frequentano i social network e i siti specializzati per svolgere i compiti per casa, più peggiorano i risulati in italiano e in matematica.

Vediamo più da vicino l'indagine. Sono stati monitorati 2.327 studenti delle seconde superiori in Lombardia, analizzandone le dotazioni tecnologiche, l’uso dei nuovi media e le competenze digitali. Lo specifico di tale ricerca è l'aver associato l’utilizzo dei media digitali ai livelli di apprendimento, utilizzando i dati dei test Snv-Invalsi. In media gli studenti lombardi trascorrono circa tre ore al giorno in Rete (dato su cui riflettere...), principalmente chattando sui social network (83 per cento) e cercando informazioni e approfondimenti (53 per cento). Ma per ogni ora passata in più su Internet, l’apprendimento cala di 0,8 punti in italiano e di 1,2 punti in matematica. Emerge cioè una relazione negativa tra alcune pratiche di uso della rete e l’apprendimento nelle due materie.

I ragazzi che frequentano centri di formazione professionale superano quelli dei licei e dei tecnici nel tempo speso online. Per quanto riguarda l’utilizzo dei social network, il primato assoluto spetta a Facebook: l’82 per cento degli intervistati possiede un profilo e il 57 per cento lo tiene addirittura aperto mentre fa i compiti.

Un dato preoccupante è che sia i genitori che gli insegnanti, in genere meno preparati sulla conoscenza e l'uso dei social network, sono quasi assenti, anche quando i ragazzi utilizzano Internet per le ricerche scolastiche e i compiti. La conclusione è che i cosiddetti nativi digitali avrebbero bisogno di una guida nell'uso della Rete.

Il concetto si può tradurre anche così: i ragazzi hanno bisogno di venire educati all'uso delle nuove tecnologie, affinché ne facciano un uso consapevole, sfruttandone lepotenzialità e non facendosi irretire dai rischi. Perché siamo noi a rendere intelligente o stupida la rete, non viceversa.

Paolo Perazzolo

© Famiglia Cristiana, 27 ottobre 2013

 

Raffaele Simone: «Bisogna imparare a usare la tecnologia»

 

 

 

I nuovi mezzi sono "simpatici", certo, ma anche delicati e pericolosi. Sta alla scuola il compito di fornire ia giovani gli strumenti per un rapporto consapevole e critico.

Google, Facebook, cellulari e connessioni assortite festeggiano anniversari a cifra tonda e innescano  ricerche, dai risultati contraddittori, sugli effetti che la tecnologia ha sulla nostra vita e sul nostro modo di imparare. Abbiamo chiesto a Raffaele Simone, professore di Linguistica all'Università Roma 3, autore di saggi documentati e caustici sul tema, tra cui Presi nella Rete (Garzanti) , di aiutarci ad approfondire.

Professore, partiamo, provocatoriamente e un po' brutalmente, dal titolo, non suo, di un suo intervento di qualche anno fa: la tecnologia ci rende stupidi?

«No, non ci rende stupidi, non direttamente, almeno. Ma ci sta rendendo dipendenti e in questo senso, come tutte le dipendenze, istupidisce un po' chi ne cade vittima. Ovviamente molto dipende da che cosa si fa con la tecnologia. Google va benissimo per cercare al volo un’informazione spicciola: se non ricordo la capitale dello Zimbabwe Google mi soccorre velocemente, mentre in passato avrei dovuto impiegare più tempo. C’è differenza tra cercare la biografia di Alice Munro e visitare siti pornografici, cosa che fa - a quanto dicono le statistiche - il 30% degli utenti. Ma è sciocco pensare di usare Google per una tesi di laurea, facendo copia-incolla senza fonti certificate».

A proposito di tesi di laurea, da professore universitario, avrà ormai modo di capire come la tecnologia ha cambiato i suoi studenti, gli ultimi ormai sono "nativi digitali"...

«Gli studenti nati al tempo di Google sono "perduti" nella pratica del copia-incolla, non hanno la minima consapevolezza del fatto che copiare e incollare un contenuto significa rubare pensieri altrui. Temo che molti dei miei colleghi non ci facciano troppo caso: occorre grande esperienza per accorgersi di un salto logico, di un errore di traduzione, di un calco da un’altra lingua. I miei studenti fanno fatica a capire che usare la Rete a scopo di lavoro, senza controllo delle fonti, non garantisce qualità».

Tutto questo modifica sensibilmente l'insegnamento universitario?

«Sì, almeno per un professore che non voglia  abdicare al proprio ruolo: il fatto che gli studenti abbiano l’abitudine di affrontare lo studio nel modo in cui si diceva, impone a noi, che cerchiamo di trasmettere saperi complessi,  di 'farla corta",  perché chi ci ascolta è sempre meno attrezzato ad affrontare la proposta di argomenti articolati.  Si pensi al fatto che i manuali universitari ormai,  a eccezione delle discipline giuridiche e mediche, non superano le 280- 300 pagine. Non solo, il fatto che le matricole arrivino dalle scuole secondarie conoscendo poche migliaia di parole e non sapendo quasi niente del resto, ci impone di aprire una parentesi ogni volta che si fa riferimento a una nozione che i ragazzi dovrebbero avere acquisita. Del resto non vedo come possano essere incentivati a imparare di più, se vedono arrivare al successo perfino scrittori, come Ammanniti, che scrive con 900 parole».

Si dice sempre che la tecnologia ha rimesso al centro la scrittura, nessun incremento di alfabetizzazione?

«Direi di no, a giudicare dagli strafalcioni che si leggono. Mi è capitato anche di correggerne anche a un noto fisico, di cui non faccio il nome. La Rete favorisce l'aumento della quantità di scrittura, ma si tratta di una scrittura non sorvegliata, piena di errori: spesso chi scrive in Rete nemmeno si rilegge. Si dice anche che la tecnologia insegni la sintesi, ma nemmeno questo è vero: solo la sintesi di un concetto scientifico, giuridico,  filosofico richiede talenti, la sintesi delle proprie emozioni del giorno prima non richiede alcuna abilità».

Premesso che indietro non si può tornare, che fare?

«So bene che non sarà certo il mio ditino a tappare la falla, il mio è l'argomentare di un “sorpassato”. Però la scuola dovrebbe fare qualcosa di diverso dall'accoglienza entusiastica delle innovazioni tecnologiche, magari - come è sin qui è accaduto - senza avere piena coscienza del fatto che la tecnologia non è soltanto simpatica, ma anche delicata e pericolosa, perché incide sulla nostra mente. Mi sembra indice di pochezza culturale il favore con cui, da più parti, si saluta l'idea che i libri di testo vengano sostituiti da tablet in cui ogni insegnante possa assemblare il proprio 'libro': un testo destinato alla scuola è un libro più complesso di altri che richiede un autore, una organicità, una coerenza interna. Non solo, se la scuola vuole, come deve, stare al passo con la tecnologia, deve cambiare anche i propri paradigmi: non può pensare di limitarsi ad applicare strumenti nuovi al vecchiume del suo impianto tradizionale. Diversamente la scuola fallisce. Questo va detto, va detto con estrema chiarezza, perché si sta correndo verso la digitalizzazione della scuola senza avere affatto riflettuto sui vantaggi e i rischi».

Elisa Chiari

© Famiglia Cristiana, 27 ottobre 2013

 

Io navigo da solo

 

Una ricerca ha indagato l'uso delle nuove tecnologie in ambito famigliare. Genitori e figli cercano, in genere, una mediazione sulle regole di utilizzo, ma raramente gli adulti siono presenti mentre il ragazzo naviga.

La maggior parte delle case sono oggi abitate dai social media che, pur non occupando molto spazio fisico, entrano sempre più nelle relazioni tra genitori e figli. Quali rischi e opportunità portano questi strumenti alla vita delle famiglie? Il volume Famiglia e nuovi media - Studi interdisciplinari sulla famiglia, edito da Vita & Pensiero, illustra un’indagine svolta su quasi 700 adolescenti e giovani lombardi e sui loro genitori. Si tratta di studenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado della Lombardia e della sede milanese dell’Università Cattolica. Ecco, in sintesi, il ritratto del rapporto fra le famiglie e i social media.

Tecnologia in casa. Il 61,9% dei ragazzi dichiara di avere almeno un pc a fronte del 14,8% con due o più, connessi alla rete nel 77,4% dei casi, anche se ormai superati da nuovi dispositivi portatili. Almeno un portatile è presente nel 39,5% delle case, nel 52,7% se ne contano due o più di due, di questi l’86,7% è in rete; l’Ipad raggiunge il 24%. Il cellulare è lo strumento più diffuso: il 99,1% dichiara di avere uno o più cellulari in famiglia, di cui il 76,3% connesso. 

Social media. Facebook è il prescelto Facebook risulta essere il social network per antonomasia sia per i ragazzi (96%) sia per i genitori (46,6%). In particolare Facebook rappresenta uno strumento di relazione con i fratelli e le sorelle (il 58,1% dichiara di averli nelle rete di amici) e con i cugini (85,7%) o altri parenti (40,2%) a fronte di un quarto che vede la presenza della mamma (25,8%) e/o del padre (24%) come ‘amico’. Con questi ultimi, il legame è tuttavia debole. Anche se presenti nella Rete, i genitori sono raramente emittenti/destinatari di informazioni.

Il tempo in Rete. Il 55% dei figli naviga da 1 a 3 ore al giorno a fronte del 23,6% dei genitori. Di questi il 19,7% dichiara di non farlo mai a fronte solo del 2,2% dei figli.

Genitori e figli di fronte alle tecnologie. Un quarto dei genitori dichiara di definire le regole di internet insieme al figlio, in particolare il divieto di contattare sconosciuti (29,8%), il 30,9% di spiegarle, il 28% dice di discutere di cosa ha trovato o può trovare in rete non solo in termini di pericoli (49,7%) ma anche di potenzialità (25%), il 41% di ascoltare ciò che il figlio fa in rete, e solo il 16,7% dei genitori ammette che il figlio fa delle domande su questo. Tuttavia, nelle dichiarazioni dei figli le percentuali cambiano. Il 50,8% dice che le regole non sono definite per niente, non si è limitati (per niente nel 75,6%) o si ricorre a software di blocco (per niente nell’86%), non sono spiegate le regole (per niente nel 66,5%), si discute di ciò che si fa in Rete e non si parla di potenzialità (per niente nel 46,4%). Confermano di non fare domande ai genitori (43,4%) e che questi non sono presenti (58%) durante la navigazione. Aumentano invece le percentuali legate al parlarne in chiave di pericolo e di ascolto di ciò che i ragazzi dichiarano di aver fatto online.  Padri e madri sono preoccupati che i ragazzi possano vedere immagini sessuali esplicite (38,9%) e immagini violente (33,5%), che i social media possano essere uno strumento che provoca isolamento (37,8%), dia informazioni rischiose (65,7%) e che, in fondo, sia poco sicuro. E ancora che sia inutile nel fare i compiti, nell’imparare la diversità e la tolleranza, nel partecipare alla vita della comunità, nell’aiutare a risolvere i problemi, visto negativamente anche rispetto alla scoperta di cose nuove perché connotate negativamente.

Genitori e figli sono amici su Facebook?
Si tratta di una situazione minoritaria (una quota compresa tra il 15% e il 20% del campione) di genitori e figli che dicono di scambiarsi informazioni tramite Facebook e la media complessiva dei contatti, sia per i figli che per i genitori, non supera uno scambio comunicativo ogni 2-3 mesi.

Paolo Perazzolo

© Famiglia Cristiana, 27 ottobre 2013