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Dossier. Trattasi di esseri umani

No al lavoro schiavo. Migranti e rifugiati non sono pedine sullo scacchiere dell'umanità. Il messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale del rifugiato.

Un mondo migliore, senza schiavi

 

 

 

L’immagine è quella della famiglia di Nazareth che ha «vissuto l’esperienza del rifiuto all’inizio del suo cammino: Maria "diede alla luce il suo primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio" (Lc 2,7). Anzi, Gesù, Maria e Giuseppe hanno sperimentato che cosa significhi lasciare la propria terra ed essere migranti: minacciati dalla sete di potere di Erode, furono costretti a fuggire e a rifugiarsi in Egitto (cfr Mt 2,13-14). Ma il cuore materno di Maria e il cuore premuroso di Giuseppe, Custode della Santa Famiglia, hanno conservato sempre la fiducia che Dio mai abbandona».
Papa Francesco, nel messaggio per la Giornata mondiale del rifugiato che si celebrerà il 19 gennaio torna a denunciare le condizioni di vita di chi è costretto a lasciare il proprio Paese e trova, ad accoglierlo, diffidenza e sospetti.  Richiama il ruolo e la responsabilità della stampa per «smascherare stereotipi e offrire corrette informazioni, dove capiterà di denunciare l’errore di alcuni, ma anche di descrivere l’onestà, la rettitudine e la grandezza d’animo dei più. In questo, è necessario un cambio di atteggiamento verso i migranti e rifugiati da parte di tutti; il passaggio da un atteggiamento di difesa e di paura, di disinteresse o di emarginazione – che, alla fine, corrisponde proprio alla “cultura dello scarto” – ad un atteggiamento che abbia alla base la “cultura dell’incontro”, l’unica capace di costruire un mondo più giusto e fraterno, un mondo migliore. Anche i mezzi di comunicazione sono chiamati ad entrare in questa “conversione di atteggiamenti” e a favorire questo cambio di comportamento verso i migranti e i rifugiati».
Chi lascia il proprio Paese, ricorda il Papa, lo fa perché non ci sono alternative, perché è a rischio la propria vita e quella della propria famiglia. E punta il dito contro uno sviluppo che «non si può ridurre alla mera crescita economica, conseguita, spesso, senza guardare alle persone più deboli e indifese. Il mondo può migliorare soltanto se l’attenzione primaria è rivolta alla persona, se la promozione della persona è integrale, in tutte le sue dimensioni, inclusa quella spirituale; se non viene trascurato nessuno, compresi i poveri, i malati, i carcerati, i bisognosi, i forestieri (cfr Mt 25,31-46); se si è capaci di passare da una cultura dello scarto ad una cultura dell’incontro e dell’accoglienza. Migranti e rifugiati non sono pedine sullo scacchiere dell’umanità. Si tratta di bambini, donne e uomini che abbandonano o sono costretti ad abbandonare le loro case per varie ragioni, che condividono lo stesso desiderio legittimo di conoscere, di avere, ma soprattutto di essere di più. È impressionante il numero di persone che migra da un continente all’altro, così come di coloro che si spostano all’interno dei propri Paesi e delle proprie aree geografiche. I flussi migratori contemporanei costituiscono il più vasto movimento di persone, se non di popoli, di tutti i tempi. In cammino con migranti e rifugiati, la Chiesa si impegna a comprendere le cause che sono alle origini delle migrazioni, ma anche a lavorare per superare gli effetti negativi e a valorizzare le ricadute positive sulle comunità di origine, di transito e di destinazione dei movimenti migratori».
Occorre collaborazione, cooperazione, impegno di istituzioni nazionali e internazionali «per costruire un mondo migliore», per superare la povertà fatta di «violenza, sfruttamento, discriminazione, emarginazione, approcci restrittivi alle libertà fondamentali, sia di individui che di collettività».
«In fuga da situazioni di miseria o di persecuzione verso migliori prospettive o per avere salva la vita», insiste il Papa, «milioni di persone intraprendono il viaggio migratorio e, mentre sperano di trovare compimento alle attese, incontrano spesso diffidenza, chiusura ed esclusione e sono colpiti da altre sventure, spesso anche più gravi e che feriscono la loro dignità umana».
Ma sono in tanti, anche, che accompagnano questo cammino, che lavorano accanto e insieme a chi fugge da situazioni di pericolo e miseria. C’è ancora la mano di Dio, che non abbandona. Per questo si può ancora avere fiducia. «Non perdete la speranza che anche a voi sia riservato un futuro più sicuro», conclude il Papa, «che sui vostri sentieri possiate incontrare una mano tesa, che vi sia dato di sperimentare la solidarietà fraterna e il calore dell’amicizia».

Annachiara Valle

© Famiglia Cristiana, 19 gennaio 2014

 

«Da un mare presidiato a un mare accogliente»

 

 

 

«Sui migranti occorre cambiare prospettiva e assumere atteggiamenti e comportamenti più consoni al Vangelo». È il messaggio dei vescovi del Triveneto, in occasione della 100ª Giornata del Migrante, che la Cei quest'anno ha scelto di celebrare a Mestre, nel Veneto.

«Sui migranti occorre cambiare prospettiva e assumere atteggiamenti e comportamenti più consoni al Vangelo». È l'appello dei Vescovi del Triveneto in occasione della 100ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, che si celebra domenica 19 gennaio.

I Vescovi, riuniti a inizio gennaio, nella Casa Maria Assunta di Cavallino (Venezia) per una “due giorni” di aggiornamento pastorale, hanno riflettuto in particolare sulla prospettiva multiculturale della società, poiché la Conferenza Episcopale Italiana ha scelto il Veneto - regione che ha alle spalle una lunga storia di emigrazione - come luogo della celebrazione ufficiale della Giornata del migrante.

«È stato papa Pio X, nel 1914, a istituire tale giornata - ha detto mons. Francesco Moraglia, patriarca di Venezia e presidente della Conferenza Episcopale Triveneta -. Una sensibilità che il pontefice, di origini trevigiane, aveva già dimostrato nel suo impegno pastorale come parroco a Tombolo, nel Padovano, come vescovo di Mantova e come patriarca di Venezia, e che ha ulteriormente sviluppato come successore di Pietro. Per la Chiesa del Triveneto e del Veneto in particolare, la solidarietà è una storia che continua».

Ed è proprio il patriarca, domenica 19 gennaio, alle 11, nella chiesa del S. Cuore, in via Aleardi, a Mestre, che ha celebrato con altri confratelli vescovi, la liturgia eucaristica (trasmessa in diretta su Raiuno), alla quale sono stati invitati, in particolare, gli immigrati.

Ricordando la visita dello scorso luglio di papa Francesco a Lampedusa, mons. Moraglia ha aggiunto: «Occorre dare concretezza al salto di qualità che il Papa ci chiede quando ci invita ad abbandonare la cultura dello scarto». Poi, un monito al governo italiano. «Il mare nostrum non può essere solo un mare presidiato, dev'essere anche un mare accogliente, e l'accoglienza non può che significare integrazione. Occorre, perciò, che la politica compia scelte precise in questa direzione e investa adeguate risorse».

Ma qual è la situazione nel Triveneto, a cinque anni dall’inizio della crisi, che ha colpito la società mondiale e, in particolare, le economie occidentali? La risposta, nell’analisi di don Bruno Baratto di Migrantes Treviso: «Innanzitutto - dice -, questo ha determinato il quasi totale annullamento delle quote di ingresso per lavoro subordinato e, di conseguenza, i flussi si sono ridimensionati, concentrandosi, invece, sull’altra motivazione di immigrazione, cioè i ricongiungimenti familiari».

In Italia i cittadini stranieri sono 5.011.000 (Dossier Caritas-Migrantes del 2012). Nel Triveneto, sono 680.645, con un ridimensionamento pari a -8,4% tra il 2010 e il 2011. Si è passati dal 34,4% di ingressi per motivi familiari del 2007, al 48,4% del 2012, con un valore assoluto di oltre 23 mila permessi di soggiorno per motivi familiari, rispetto ai circa 17 mila per lavoro; questi ultimi sono calati del 39% rispetto al 2007.

Il 72% dei cittadini stranieri, pari a 487.030 persone, è residente in Veneto. Le province con il più alto numero di residenti stranieri sono Verona (100.891 persone), Treviso (98.958) e Vicenza (94.582). La perdita di posti di lavoro tra gli stranieri, nel periodo giugno 2008-giugno 2013, è stata di oltre 12 mila unità (9,3% del totale), circa 6.000 unità in meno nella sola annualità a cavallo tra il 2012 e il 2013. Questo genera una condizione di instabilità, anche emotiva, e molti - sia stranieri che autoctoni - scelgono di andarsene altrove (nel 2012, ci sono state oltre 50 mila cancellazioni dalle anagrafi italiane per trasferimenti all’estero).

Per quanto attiene alla scuola (dall’infanzia alla secondaria di secondo grado), nel Triveneto, per l’anno scolastico 2012-2013, gli alunni con cittadinanza non italiana erano 127.729 (92 mila in Veneto). A fine 2012, i minori erano il 25% della popolazione straniera. Le acquisizioni di cittadinanza sono andate significativamente aumentando nel corso degli anni, fino ad arrivare a 12.700 nel 2012 in tutto il Triveneto.

Nel Veneto, le concessioni di cittadinanza nel 2012 hanno registrato una crescita del 7% rispetto al 2011, ma una diminuzione del 14% rispetto al 2010. «Uno dei punti di forza dell’Italia e del Triveneto, ovvero di essere stato nei secoli un territorio di scambi commerciali, culturali e demografici con il mondo mediterraneo ed europeo, rischia di venir meno e di lasciarci ai margini di qualsiasi ripresa, non solo economica, ma anche culturale e sociale - spiega don Bruno -.

L’azione pastorale non potrà non tener conto di queste dinamiche. La stessa pastorale per i gruppi cattolici di nazionalità straniera dovrà confrontarsi ancor più con la tensione ad essa insita tra custodia delle specificità culturali e delle tradizioni religiose di origine, ed inserimento sempre più attivo di questi cattolici nel tessuto delle Chiese del Triveneto. Costoro potrebbero essere infatti cruciali nel risvegliare una società - e una Chiesa - che sta invecchiando nell’età anagrafica dei suoi membri, ma anche nelle sue prospettive di futuro e di speranza, e che ha profondamente bisogno di chi genera vita, come i migranti».

Romina Gobbo

© Famiglia Cristiana, 19 gennaio 2014

 

Per i migranti integrazione e interazione

 

 

 

La Kyenge ringrazia l'impegno della Chiesa e mette in guardia dai rischi che corre la nostra democrazia intervenendo alla conferenza stampa di presentazione della Giornata per i migranti

«Ad essere minacciata non sono io. Credo che, ad essere minacciata, sia la democrazia». Cécile Kyenge arriva alla conferenza stampa convocata dalla Cei per la Giornata dei Migranti. Ringrazia per «l'impegno della Chiesa nel promuovere la cultura dell'accoglienza e dell'incontro» e aggiunge che «occorre una politica che sia insieme di integrazione e di interazione, considerando gli immigrati soggetti attivi e partecipativi della vita del Paese. E inoltre bisogna fare tutto il possibile per rimuovere, come dice la nostra Costituzione, gli ostacoli alla piena eguaglianza tra cittadini».

Nel centenario della istituzione della Giornata, che si celebrerà il 19 gennaio, monsignor Giancarlo Perego, direttore di Migrantes, snocciola i dati: «Cent'anni fa, dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, papa Benedetto XV indirizzava una lettera a tutti i vescovi italiani nella quale li invitava a celebrare in diocesi una Giornata per i migranti e i rifugiati perché la guerra aveva creato molti profughi. Cent'anni dopo non una, ma 23 guerre in atto, creano milioni di nuovi rifugiati e profughi. Oltre 42 mila sono arrivati sulle nostre coste soltanto nel 2013, 10 mila nella sola Lampedusa».

Monsignor Perego denuncia i continui tagli alla cooperazione (dai 139 milioni del 2013 ai 125 del 2014) e il crescente sfruttamento dei lavoratori immigrati che sono nel nostro Paese. Lavoratori sottopagati e sottoinquadrati (la percentuale in Italia è del 61 per cento contro il 17 del resto d'Europa), con oltre 100 mila incidenti sul lavoro l'anno. A questi, secondo l'Inail va aggiunta anche una fetta dei restanti 164 mila "incidenti invisibili", cioè che riguardano sia italiani che stranieri impiegati in nero. Non solo, monsignor Perego parla anche di una vigilanza in materia che si è notevolmente abbassata, se solo si considera che in Basilicata e Calabria, nel 2010 quando si sono verificati i casi di Rosarno, non era stata fatta alcuna segnalazione di sfruttamento lavorativo.

«C'è una cultura da cambiare», aggiunge monsignor Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente sia di Migrantes che della Commissione episcopale per le migrazioni, «una cultura che deve considerare tutti i cittadini uguali, compresi gli abitanti di Lampedusa e di un'altra isola che pochi citano: Linosa. Un solo cardiologo che visita di giovedì, quindi non ci si può distrarre e farsi venire l'infarto di venerdì», scherza il vescovo, «oppure un ambulatorio veterinario gestito d'estate dai volontari con un'apparecchiatura per i raggi x per le tartarughe. Se ci si rompe un braccio, solo d'estate naturalmente, da Linosa, dov'è l'ambulatorio, bisogna tentare di raggiungere Lampedusa. E, se bisogna operarsi, Palermo. Eppure questi abitanti, in situazioni così precarie, hanno aperto finestre e porte per accogliere i profughi. E quando dico loro che si sta pensando a un Nobel per i lampedusani mi rispondono: "Per noi il miglior premio è non vedere più morire in mare queste persone"».

Annachiara Valle

© Famiglia Cristiana, 15 gennaio 2014

 

Trattasi di esseri umani

 

 

Un convegno sulla tratta degli esseri umani e un progetto contro lo sfruttamento lavorativo dei migranti: due facce della stessa medaglia

Lo sfruttamento dei migranti, la mercificazione della loro persona e la sopraffazione della loro dignità hanno origini lontane. Ben prima di mettere piede sui famigerati barconi che approdano sulle nostre coste, quando chi fugge dal proprio Paese deve pagare ingenti somme per il viaggio.

E quando non è l'imbarcazione di fortuna ad affondare in vista della "terra promessa", è la speranza di una vita migliore a naufragare per centinaia di migranti che, a causa della loro condizione di clandestinità, sono vittime dello sfruttamento. Sfruttamento sessuale per le ragazze costrette a prostituirsi, lavorativo per i migranti oggetto di un caporalato senza scrupoli, ma anche accattonaggio e traffici illeciti. È evidente, quindi, quanto indissolubilmente legati siano tratta e sfruttamento dei migranti.

Di questi temi si è discusso, lo scorso 9 gennaio a Roma, nella tavola rotonda "Perché SI TRATTA DI TE. Contro la tratta delle persone migranti per sfruttamento sessuale e lavorativo", organizzata da CIR - Consiglio italiano per i rifugiati, FIDAPA - Federazione italiana donne arti e professioni e Affari - BPW Italy, in collaborazione con Programma Integra, InMigrazione Onlus, Cooperativa Be Free e l'associazione colombiana Espacios de Mujer.

In Italia la tratta degli esseri umani è ormai realtà consolidata e strutturale del sistema di sfruttamento. Crisi economica e precarietà del lavoro non hanno fatto altro che creare altro terreno fertile alla logica della sopraffazione.

Secondo Caritas e CNCA, che nell'ottobre 2013 hanno pubblicato "Punto e a capo sulla tratta: 1° rapporto di ricerca sulla tratta", dal 1999 al 2012 65 mila persone si sono rivolte ai servizi di aiuto e assistenza per le vittime della tratta, e 21 mila tra loro sono entrate in un programma di protezione e assistenza sociale; Nigeria e Romania sono i principali Paesi di provenienza delle persone trafficate e assistite, ma Albania, Brasile, Marocco e Cina registrano numeri in costante aumento. Particolarmente significativa l'indicazione che più della metà delle giovani trafficate tra i 18 e i 25 anni di età subiscono uno sfruttamento di tipo sessuale legato alla prostituzione.

Nel corso del convegno, si è parlato perciò degli aspetti di prevenzione, di individuazione delle potenziali vittime e della loro tutela, con particolare riferimento all'applicazione normativa dell'articolo 18 del Testo unico sull'immigrazione, che prevede la possibilità di rilascio di uno speciale permesso di soggiorno allo straniero, sottoposto a gravi forme di violenza e sfruttamento, quando la sua incolumità personale sia a rischio per essersi sottratto a un'organizzazione criminale o aver testimoniato contro di essa in un procedimento penale.

In questo senso va quindi inquadrato il progetto (del quale si è discusso nella Tavola Rotonda del 9 gennaio) "Rosarno... e poi?", un intervento finalizzato a sostenere l'uscita da situazioni di sfruttamento lavorativo, favorendo l'integrazione delle vittime. Il progetto è stato finanziato da Fondazione con il Sud e implementato dal CIR, in partnership con il Comitato per il centro sociale, Comunità Rut - Suore Orsoline, Caritas diocesana di Caserta e Associazione Futura.

Partito nell'aprile 2013 e con una durata prevista di 2 anni, il progetto ha favorito l'accesso a misure di tutela e avviato percorsi di integrazione per stranieri vittime della tratta e dello sfruttamento, attraverso informazione, orientamento socio-legale, assistenza legale e sanitaria, mediazione culturale, grazie agli sportelli aperti nelle città di Caserta e Salerno.

Per maggiori informazioni consultare il sito: www.cir-onlus.org

Francesco Rosati

© Famiglia Cristiana, 13 gennaio 2014

 

Migranti nel canale di Sicilia: urgono risposte

 

 

 

Messaoud Romdhani, del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, è in Italia per chiedere di aprire il dialogo con il Governo italiano

Messaoud Romdhani, rappresentante del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, don Armando Zappolini, presidente del Coordinamento nazionale comunità di accoglienza (Cnca), Domenico Chirico, diretto di Un ponte per..., Oliviero Forti, responsabile immigrazione Caritas italiana e Piero Soldini della Cgil: sono i protagonisti di una tavola rotonda in cui fare il punto e chiedere nuovamente risposte immediate al Governo sulle posizioni che l'Italia intende assumere rispetto al flusso di migranti che quotidianamente si mettono in viaggio dalle coste nordafricane con il miraggio di raggiungere il nostro Paese. Tanti gli spunti di riflessione emersi, con un obiettivo chiaro: la necessità sempre più stringente sollevata da famiglie e associazioni tunisine di aprire un canale stabile di comunicazione attraverso cui trasmettere le informazioni sui migranti.  

«Sui migranti dispersi nel canale di Sicilia - sottolinea Romdhani - va istituita una commissione d'inchiesta italo-tunisina che dovrebbe essere formata dai rappresentanti non solo dei rispettivi Governi ma anche dalle famiglie e della società civile.  vanno realizzati sistemi di soccorso comuni tra le due sponde del Mediterraneo». I numeri, d'altronde, esigono spiegazioni: nel solo 2011, secondo le stime del Forum, le persone scomparse durante il "viaggio della speranza" sono 1.300-1.500: uomini, donne, bambini di cui si sono letteralmente perse le tracce gettando nello sconforto e nell'angoscia i loro familiari. 

Ma parlare di migranti, inevitabilmente, significa parlare anche di quello che la politica può fare: e, dunque, da una parte la legge Bossi-Fini, dall'altra l'impegno dell'Unione europea, nella convinzione che un approccio puramente difensivo e per certi versi respingente non può essere la sola chiave di risoluzione della questione. Reprimere è senz'altro più facile e meno dispendioso che sforzarsi di integrare e valorizzare: ma è un atteggiamento lesivo dei diritti umani fondamentali, oltre che poco lungimirante nel medio-lungo periodo per una società che è sempre più multirazziale e multiculturale e, anzi, su questi valori può fondare la propria crescita. «Voglio difendere una politica migratoria diversa, umana. Oggi - prosegue Romdhani - notiamo che, nonostante l'indurimento della politica migratoria europea, nonostante Frontex e l'intolleranza verso il diritto d'asilo, sempre più persone prendono il mare, rischiando la vita. Da qui la necessità di un'altra politica, della cooperazione tra i Paesi del Sud e del Nord del Mediterraneo che condividono lo stesso spazio, uno spazio dove ci sono sempre stati scambi economici e culturali, ma anche umani. Sui respingimenti e le espulsioni, poi, ricordo ai nostri amici italiani che in Tunisia non è previsto il diritto di asilo. Noi, società civile tunisina, lottiamo per questo diritto. Di conseguenza, la Tunisia non può assicurare, per il momento, la protezione delle persone considerate in uno stato di pericolo nel loro Paese d'origine».

«È sempre più necessario e urgente un cambio di prospettiva radicale. - ha dichiarato don Armando Zappolini, presidente del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA). - Bisogna assicurare dignità e rispetto alle persone in fuga da fame e guerre. Le politiche vanno elaborate a partire da questo principio elementare. E abbiamo, a questo proposito, molti anni di vergogna da recuperare».  

«È inutile fare cooperazione internazionale oggi se non riteniamo centrale la questione dei diritti umani nei paesi in cui operiamo e nel nostro stesso paese - ha aggiunto Domenico Chirico, direttore di "Un ponte per...". - Per questo senza un’alleanza tra gruppi di società civile ogni sforzo di solidarietà nel Mediterraneo rischia di essere solo una stampella agli accordi commerciali e al controllo e alla militarizzazione delle frontiere».

«La CGIL sin dal nascere della primavera araba sta lavorando insieme al sindacato tunisino per la costruzione di una rete di assistenza, informazione e tutela dei sindacati del Mediterraneo rivolta ai migranti - ha infine spiegato Piero Soldini, responsabile Immigrazione della CGIL. - Ci sono state tappe significative di questo lavoro sia al Social Forum mondiale di Tunisi sia alla sede dell’OIL di Torino. Proseguiremo con determinazione questo progetto perché dobbiamo impedire con tutte le nostre forze che si disperdano vite umane nel percorso migratorio».

Alberto Picci

© Famiglia Cristiana, 16 gennaio 2014

 

Prendiamo sul serio il loro dolore: Lettera da Tunisi

 

 

 

Nel corso della conferenza "Migranti dispersi nel canale di Sicilia" Cnca ha presentato un documento che dà conto del viaggio in Tunisia organizzato nel settembre de 2013 , che ha permesso di incontrare tanti esponenti della società civile tunisina e di fare il punto con loro sia sulla situazione della Tunisia e dell’area del Mediterraneo sia sulla questione dei migranti tra Europa meridionale e Maghreb.

«Perché il dolore delle donne tunisine non viene compianto? Il silenzio non può placare questo dolore, né fermare la ricerca della verità, né impedire la loro lotta, né vanificarla. Persino una verità drammatica può confortare chi ha visto partire e scomparire il proprio figlio, marito, fratello. Il silenzio è l’unica risposta che non possiamo permetterci. Senza le nostre leggi, le nostre convenzioni internazionali, gli accordi tra i Paesi frontalieri, senza le nostre scelte politiche, quegli uomini, quei ragazzi, non sarebbero mai saliti sui barconi della speranza». (Giusi Nicolini, Sindaco di Lampedusa e Linosa, 20 luglio 2013).

A distanza di un anno dalla visita a Lampedusa, di nuovo un piccolo gruppo di operatori e volontari di CNCA ha toccato un’altra sponda del Mediterraneo, andando nella capitale della terraferma più vicina all’isola siciliana. Ci rivolgiamo a chi, dentro e fuori il sociale, opera perché l’area mediterranea sia presto baricentro che armonizza le differenze, un crocevia di idee, stili e azioni che umanizza il vivere di tutti.

«Tutti noi, partecipanti alle giornate di fine settembre a Tunisi, viviamo la quotidianità in gruppi e organizzazioni che impastano percorsi di persone affaticate e marginalizzate, ricchi di esperienze e sapere collettivo, con proposte di abitazione comunitarie, di lavoro cooperativo, di iniziative di supporto alle ricerche di autonomia di vita e di significati, di azioni coordinate per il cambiamento degli equilibri sociali, economici e politici del nostro Paese. Nessuno tra noi può dire di vivere se non che poco più di un frammento del complesso di situazioni con cui entra in contatto ogni giorno il variegato mondo delle oltre 250 realtà che camminano assieme nel CNCA».

«Nel più piccolo degli organi direttivi collegiali del CNCA, l’esecutivo nazionale, un paio di anni fa abbiamo scelto di trasformare le nostre riunioni in occasioni per ascoltare, vedere e toccare luoghi simbolo delle situazioni che ci stanno interpellando, aprendo la partecipazione a qualche consigliere e/o rappresentante dei gruppi aderenti. Così siamo andati a organizzare i nostri incontri in due strutture di beni confiscati alle mafie prima in Calabria e poi in Lombardia; nel Parlamento Europeo a Bruxelles; in un campo rom della capitale; a Lampedusa e, da ultimo, a fine settembre 2013, appunto, a Tunisi».

«Un metodo di lavoro per le nostre ‘riunioni’ che ci sta insegnando molte cose e ci consente di esprimere vicinanza, approfondimento di questioni, rilancio pubblico di temi per dare consistenza ai diritti e spingere a trasformare mentalità diffuse, azioni inadeguate e leggi inappropriate o ingiuste».

«La realtà tunisina da qualche anno torna spesso nelle riflessioni di CNCA. Per tre tipi di motivi, tre fili sui quali progressivamente si sono infittite le connessioni e che ora troviamo ben intrecciati tra loro:
- il filo delle minoranze: abbiamo posto il tema della nostra cecità come dato di partenza nel leggere l’azione delle minoranze nell’oggi. È quanto il testo Grammatica di minoranze indica nelle sue prime facciate, riprendendo l’avvio della ‘rivoluzione dei gelsomini’ a fine 2010 in Tunisia, la prima delle ‘primavere arabe’ che poi interesseranno gran parte degli Stati del nord Africa, ma anche Yemen, Bahrain, Siria... Solo la consapevolezza della miopia in cui stiamo può aprire spazi inediti, un altro modo di vedere gli eventi e la politica;

- il filo degli sguardi da Sud che, dall’assemblea del 2012 a Napoli (“Dai sud i futuri possibili”), ha posto come baricentro il Mediterraneo e durante la quale siamo stati invitati ad andare in Tunisia. Un’area territoriale e spaziale come il Mediterraneo ci interroga sempre più. Apparteniamo a quest’area e oggi più che mai intravediamo il valore della relazione e dell’incontro con le donne e gli uomini che abitano le altre sponde. Si è reso visibile nel nostro operare l’esigenza di accorciare le distanze tra i tanti mondi che coabitano il Mediterraneo per ascoltarsi reciprocamente e imparare l’uno dall’altro, e vi è la consapevolezza del bisogno di allargare le prospettive includendo i diversi punti di vista. I movimenti della Primavera araba hanno reso visibile quelle fratture presenti nelle popolazioni dovute non solo alle dittature ma anche alle diseguaglianze territoriali e generazionali rispetto al tenore di vita, alle prospettive di futuro, all’accesso al mercato del lavoro e all’opportunità di fruire di diritti, beni e servizi pubblici. Tanti temi ci accomunano e potremmo creare spazi di lavoro comune a partire dai temi quali il sistema di protezione sociale, la costruzione della società civile, le migrazioni e gli asili, i beni comuni. Tanti temi ci accomunano e potremmo creare spazi di lavoro comune a partire dai temi quali il welfare, la costruzione della società civile, le migrazioni e gli asili, i beni comuni.

- il filo dei migranti: è il filo che lo scorso anno ci ha portati a Lampedusa per alcuni giorni e poi a scrivere la Lettera da Lampedusa4, con precise richieste e proposte che abbiamo aggiunto al coro degli inascoltati dalle Istituzioni Nazionali. I migranti dei vari Paesi africani vi approdano, quando ci riescono, spesso partendo dalle coste tunisine o libiche, come quelli della strage del 3 ottobre, avvenuta a pochi giorni dal nostro rientro. “Morto numero 31, maschio, nero, presumibilmente trent’anni. Morto numero 54, femmina, nera, presumibilmente vent’anni. Morto n.11, maschio, nero, presumibilmente di 3 anni: queste parole identificano non solo qualcuna delle 364 vittime del bilancio ancora provvisorio di quel giorno, ma – come litania di corpi spesso trovati nella stiva avvinghiati nell’ultimo abbraccio – recita la vergognosa e colpevole strategia scelta dei governi dell’Italia e dell’Unione Europea nei confronti di rifugiati e uomini e donne alla ricerca di un futuro possibile».

«Prendendo le distanze da ogni ipocrita tentativo di chi ha voluto e costruito ‘queste’ politiche di respingimento e ora si mette dalla parte delle vittime, ribadiamo i punti di vista e richieste espressi nella Lettera da Lampedusa. Inoltre, consapevolmente, inviamo le persone di volontà orientata al bene collettivo alla disobbedienza civile della Legge Bossi-Fini e delle normative connesse. È tempo di riprendere gli spazi di umanità comune violati».

«Nei contatti scelti, abbiamo privilegiato l’incontro con le nuove associazioni, toccando la società civile della capitale svegliata dalla rivoluzione: Tunisi però, ci è stato ripetuto, è sensibilmente diversa dal resto del Paese».

«FTDES è un’organizzazione tunisina nata per agire politicamente sulla situazione delle donne, dell’ambiente, dei migranti e del diritto al lavoro. All’inizio non aveva previsto di farsi carico direttamente delle situazioni personali, ma può accadere, com’è avvenuto questa estate, che qualcuno chiami al telefono dell’associazione per chiedere il numero della guardia costiera italiana. Erano giovani tunisini in mare verso l’Italia, alla ricerca di un riferimento perché dispersi da giorni: nessuno sa se sono arrivati».

«L’impatto con la realtà di questi anni li ha trasformati: nella loro sede i familiari dei dispersi vengono a incontrarsi e a far sentire la loro voce: più volte, e anche quest’anno, hanno manifestato a Roma il loro non arrendersi. La madre di un disperso, durante il recente Social Forum di Tunisi, ha detto alla stampa internazionale: “Siamo madri, padri, sorelle e fratelli nello stesso modo in cui lo si è in Europa. Perché dunque il nostro affetto e il nostro dolore non hanno lo stesso valore degli affetti che, in un caso simile, verrebbero riconosciuti ai familiari di giovani europei?” Di seguito riportiamo un ampio stralcio dell’appello per i migranti tunisini dispersi diffuso via internet:  «Immagini tu?. Prova a immaginare: tuo fratello o tuo figlio parte e non dà più notizie di sé dopo la sua partenza. Non è arrivato? Non lo sai, potrebbe essere stato arrestato nello stato di arrivo che non prevede che si possa arrivare semplicemente partendo e che per questo arresta quelli che arrivano mettendoli nei centri di detenzione o in prigione. Aspetti qualche giorno, guardi immagini alla televisione del luogo in cui potrebbe essere arrivato, per sperare di vederlo. Capisci anche che tuo figlio o tuo fratello non è l’unico a non aver telefonato dopo essere partito. Insieme alle altre famiglie chiedi allora alle autorità del tuo paese di informarsi, di capire se sono tutti in qualche carcere, speri che lo siano anche se temi che non vengano trattati bene. Ma le autorità non fanno nulla, non chiedono e non ti ascoltano, per mesi. Tu nel frattempo fai presidi, manifestazioni, parli con i rappresentanti di alcune associazioni, con i giornalisti, porti la foto di tuo figlio o di tuo fratello ovunque, ti affidi a ogni persona che viene dall’altro paese, le dai le foto, la data di nascita, le impronte digitali. Vuoi sapere. Ma non accade nulla e cominci a immaginare (…). Sono morti? Sono in carcere? Sono…? Per saperlo chiediamo ora alle autorità italiane e tunisine di collaborare. (…) Immagini, tu?».

«Alcune situazioni hanno iniziato da poco a essere prese in carico da due giovani psicologi: c’è una madre che già per due volte si è imbarcata nelle stesse condizioni del figlio per venirlo inutilmente a cercare in Italia… Ci raccontano di come, recentemente un’altra madre dopo mesi insonni e senza risposte, si sia accoltellata più volte al petto nei locali del Ministero degli Esteri tunisino… E lo scorso anno Jannet Rhimi, mamma di Oussam, 19 anni, si è data fuoco a Tunisi per protestare contro il silenzio delle autorità tunisine e italiane, inutilmente interpellate dalle associazioni dei dispersi. A molte famiglie non rimane altro che stordirsi con i telegiornali italiani visibili a Tunisi nella speranza, spesso vana e talvolta ingannatrice, di riconoscere in qualche fotogramma di stranieri in città italiane il volto del figlio o un suo indumento raccolto dai pescatori lampedusani. In ogni caso, qualcosa che dica del figlio vivo o che permetta un lutto fin qui impossibile, mentre la tv italiana frettolosamente passa dalla cronaca al “fantastico gioco a premi” e le autorità italiane non degnano le organizzazioni che scrivono chiedendo un contatto, nemmeno di una risposta via mail».

«Emblema della situazione della disattenzione internazionale è la condizione del Campo profughi di Shousha, finanziato anche dal Governo italiano. Dal maggio 2009 molti degli immigrati intercettati nel mar Mediterraneo dalle navi italiane e respinti in Libia, sono finiti a Shousha, un campo profughi in pieno deserto tunisino. La maggioranza di questi erano richiedenti asilo provenienti da paesi in guerra e per questi respingimenti l`Italia ha subito una condanna dalla Corte europea. Gestito dall`Unhcr, e quasi inaccessibile a stampa e organizzazioni indipendenti, il campo ‘di transito’ ha ospitato in tende migliaia di persone, con condizioni di vita precarie».

«Il 30 giugno 2013 il campo dell’ONU è stato ufficialmente chiuso, smantellando le minime strutture e lasciando nel deserto alcune centinaia profughi (pare siano almeno 250) senza acqua, senza elettricità, senza assistenza medica e senza alcun riconoscimento giuridico del loro stato di rifugiati».« Il buon sistema di protezione sociale tunisino, avviato fin dagli anni ’60, è entrato in crisi per il cambiamento del modello economico produttivo. “su 600mila imprese tunisine, 520mila sono autonome con lavorazioni informali che non portano risorse per le prestazioni sociali statali” – ci racconta un economista del FTDES – “e la protezione sociale si è indebolita ed è in continuo peggioramento”».

«Anche in Tunisia vi è una legge inadeguata e controproducente sulle dipendenze da sostanze stupefacenti che si sta tentando di modificare. Non si distingue il grado e il tipo di consumo: ogni arrestato positivo ai test – per il 90% in relazione all’uso di cannabis; raramente sono donne –finisce in carcere per almeno un anno e deve pagare una considerevole multa. Ai minori è riservato un trattamento particolare, con programmi esterni diurni o permanenza, sempre per un anno, in una sorta di centri giovanili di buona qualità. Per quanto ci è stato riferito, a Tunisi operano tre organizzazioni su tossicodipendenza e aids, solo una di queste lavora nelle carceri tunisine10. I test sono volontari, gratuiti, anonimi. Le associazioni si propongono di iniziare a lavorare su reinserimento e prostituzione, presente in forma sia legale sia illegale».

«Tre aspetti possono descrivere la situazione della disabilità in Tunisia. Il primo ne dà la cornice: la Tunisia è stato il primo Paese a recepire la convenzione Onu sui diritti delle persone con handicap e sulla carta tutti i diritti sono riconosciuti. Esiste però una grande discriminazione per la condizione di disabilità mentale rispetto a quella fisica e un grande divario tra il trattamento nelle grandi città e quello nel resto del Paese (zone rurali con maggior povertà, ignoranza della legge…). Infine, il programma di integrazione scolastica del 2003 è fallito per mancanza di supporto e formazione al corpo insegnante».

«In ogni situazione che si incontra come inedita, c’è sempre un sud che non ci si immagina. Così è capitato a noi, nello scoprire l’ingarbugliato e spesso nascosto mondo delle relazioni con i ‘neri’ presenti in Tunisia. Già durante la dittatura, ci dicono, venivano spinti fuori dalla capitale, a sud, verso il deserto. Oggi a preoccupare le organizzazioni più sensibili, sono la condizione dei migranti senza documenti e anche quella – che per decenni ha rappresentato uno dei fiori all’occhiello della moderna Tunisia – degli studenti africani11 a Tunisi».

«Un gran numero di immigrati in Tunisia non ha ricevuto il permesso di soggiorno nel corso dell’anno 2013. Sono avvenuti in più occasioni attacchi e discriminazioni razziste senza che le vittime fossero tutelate dalle forze dell’ordine e senza che potessero denunciare i fatti quando le vittime non avevano un permesso di soggiorno. Il mondo dei “senza documenti” è un mondo senza diritti: vengono compromessi l’accesso al lavoro, all’istruzione, all’alloggio e alla salute. Le leggi sui migranti attuali sono simili a quelle italiane».

«Seppure in maniera alquanto parziale, possiamo raccogliere alcune impressioni e annotazioni sulla situazione complessiva che si vive nella capitale, a due anni e mezzo dal rovesciamento del regime di Ben Ali, il 14 gennaio 2011. Anche da scambi occasionali con gente per strada, al mercato o con un guidatore di taxi viene offerta da tutti l’immagine di un Paese ancora in bilico, tra il filo di delusione per la situazione attuale, la speranza radicata e ancora esuberante, le contraddizioni crescenti rilevate da tutti. Dopo la “rivoluzione dei gelsomini” i tunisini sono più liberi, ma c’è meno ordine nel funzionamento degli organi statali, la povertà emerge con maggior nitidezza e si risente della crisi occidentale. “Come andrà a finire?”, “cosa accadrà oggi nessuno lo sa” sono le frasi che ricorrono».

«Rispetto alla situazione politica, dai dialoghi articolati come dalle valutazioni affrettate inserite in mezzo a conversazioni sulla quotidianità, abbiamo rilevato tre nodi tra loro intrecciati. Le aspettative sulla stesura della nuova Carta costituzionale sono molto alte e, dopo la quarta bozza, i rilievi da parte di varie organizzazioni sono puntuali e per alcuni oggi la nuova costituzione appare inceppata nel tentativo di salvaguardare i difficili equilibri di visioni di società presenti in Tunisia. I principali nodi sono legati alla natura dello Stato, al ruolo che la religione islamica avrà nel nuovo ordinamento e alla (in parte conseguente) formulazione di alcuni diritti e libertà».

«La tensione politica nei giorni in cui siamo stati a Tunisi aveva come unica evidenza un segno inequivocabile e simbolico: il filo spinato sull’avenue Habib Bourguiba – la principale strada al centro di Tunisi – che circondava alcuni edifici presidiati senza tensione da blindati ed esercito. Ogni giorno, nello scorrere continuo di gente per le vie centrali, ricordavano che comunque esiste una conflittualità sotterranea che ad ogni momento potrebbe esplodere in violenza. Alla radice sta il ruolo che intenderebbero assumere le aree, pur minoritarie, più integraliste dell’islam tunisino, i salafiti, che, dopo la rivoluzione del 2011, sono diventate più presenti e radicali: aperture di scuole coraniche, attività culturali con parole d’ordine semplici e dirette, proposte commerciali che veicolano stili di vita, ecc. Gli scontri recenti a fine ottobre e gli assassinii dei mesi scorsi di esponenti di spicco dell’opposizione lo testimoniano: il sei febbraio scorso è stato ucciso, mentre usciva dalla sua abitazione, Chokri Belaid, politico assai famoso della sinistra, e in luglio Mohammed Brahmi, altro leader dell’opposizione».

«In questo difficile contesto sono nate, o operano a viso aperto dal 2011, molte organizzazioni della “società civile”, una delle espressioni più ricorrenti del nostro viaggio a Tunisi. È cresciuta un’opinione pubblica indipendente ed esistono forme coraggiose di giornalismo civico; il movimento delle donne – in contrasto con le crescenti tendenze salafiste – è forte e quello degli studenti si sta rafforzando. Proprio il ruolo della ‘società civile’ potrebbe diventare decisivo nella Tunisia odierna per evitare il rischio di populismi a matrice religiosa e tenere alto il confronto sulla nascente Carta costituzionale. Come la storia insegna, non basta far cadere dittatori, bisogna attrezzarsi per sostenere il protagonismo della società civile emergente, valorizzando il grande fermento di spinte e proposte di cui è portavoce. Questa “società civile” secondo i nostri interlocutori è di fronte a tre sfide:

• superare l’attuale frammentazione tra le varie associazioni promotrici di diritti e democrazia: ognuno organizza un pezzetto della propria speranza, ma non si “vedono reciprocamente”, manca una piattaforma tra associazioni;

• affrontare la questione del rapporto con le molte organizzazioni che sono il prolungamento di partiti, specie islamisti;

• moltiplicare gli scambi con analoghe organizzazioni internazionali che non siano solo di matrice francese: lo sguardo all’Italia e la ripetuta richiesta di confronto e supporto rivolta allo stesso CNCA lo mostrano».

«Fin dall’inizio la rivoluzione si è espressa in poesia. Il suo slogan più celebre, divenuto la parola d’ordine più diffusa in Egitto, Yemen, Libia e Siria, non è che una reincarnazione delle parole del celebre poeta tunisino Abu al Qasim al-Shabbi (1909- 1934): "Se un giorno il popolo volesse la vita il destino non avrebbe che da rispondere". Come ama ripetere il poeta e fondatore della Maison de la Poésie di Tunisi, Mohammed Sgaier Awlad Ahmad: "La rivoluzione è un lavoro poetico". E allora, che la poesia trabocchi».

Alberto Picci

© Famiglia Cristiana, 16 gennaio 2014

 

L'Ordine di Malta tende la mano a Lampedusa

 

 

Il Cisom - Corpo italiano di soccorso dell'Ordine di Malta si candida a gestire il Centro di prima accoglienza di Lampedusa

È ancora vivida l'immagine dei migranti, in fila nudi e al freddo, che attendono di essere sottoposti a un trattamento antiscabbia dagli operatori del Centro di primo soccorso e accoglienza di Lampedusa. Lo scandalo, diventanto di dominio pubblico in seguito al video trasmesso dal Tg2, ha portato alla rescissione del contratto di gestione del Cpsa da parte del ministero dell'Interno con la cooperativa Lampedusa Accoglienza.

Proprio in seguito all'emersione di questo episodio vergognoso, che ha aperto uno squarcio sui metodi di accoglienza in alcuni centri italiani e ha suscitato reazioni sdegnate anche in Europa, il Cisom - Fondazione Corpo italiano di soccorso dell'Ordine di Malta ha espresso la sua disponibilità ad assumere la gestione del Cpsa di Lampedusa. Impegnati in interventi di protezione civile a seguito di calamità naturali ed emergenze medico-sanitarie, i 35oo volontari del Cisom sono infatti infermieri, medici, psicologi, logisti, cuochi. Un'impegno ben sintetizzato dal motto dell'Ordine: "Tuitio Fidei et Obsequium Pauperum" (Testimoniare la fede e servire i poveri).

"Il Cisom", ha dichiarato il presidente della fondazione Narciso Salvo di Pietraganzili, "dal 2008 collabora con la Guardia Costiera e la Guardia di Finanza nell'ambito delle attività di soccorso in mare nel Canale di Sicilia. Operazione svolta sempre con grande attenzione umanitaria, professionale e spirito di servizio, in virtù della neutralità, dell'imparzialità e dell'internazionalità propria dell'Ordine di Malta. Valori alla base di molteplici attestati di apprezzamento e stima per il lavoro svolto giunti dalle amministrazioni locali e dallo Stato".

Per maggiori informazioni consultare il sito: www.ordinedimaltaitalia.org

Francesco Rosati

© Famiglia Cristiana, 19 gennaio 2014


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