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Dossier. Aborto, nuovi attacchi alla vita

Tra crisi economica, paura dell’handicap e viaggi organizzati, l'interruzione volontaria di gravidanza è una piaga attualissima. Che tende ad assumere tratti raccapriccianti.

1. Oltre l'indifferenza

 

100929550_2855551.jpgSiamo agli sgoccioli di un’estate calda. Non solo per le temperature che hanno superato le medie stagionali degli ultimi vent’anni o per gli anticicloni africani che pare abbiano fatto a gara per accaparrarsi il titolo del più “temibile e spossante”. Senza fare i conti, ovviamente, con la più mite “Beatrice” o la più fresca “Poppea”. 
L’estate calda ha offerto anche altre sorprese. Forse più subdole. Magari nascoste dalle urgenze di natura economica e perciò passate in seconda linea. Ma non per questo svilite nella loro triste e inequivocabile gravità. Proviamo a portarne a galla almeno una, strappandola da quella generale indifferenza in cui pare essere ingiustamente scivolata e risucchiata.
Si tratta di tutto ciò che ruota attorno al tema dell’aborto. Un problema ormai archiviato, potrebbero affermare i più. E invece no! È sempre più scottante e non accenna a placarsi. Anzi! Tende oggi ad assumere tratti a dir poco raccapriccianti

42-20770316_2855560.jpgIn primissimo luogo, la recente la bocciatura, espressa dalla Corte Europea, della Legge 40/2004 (sulla procreazione medicalmente assistita). «Il contenzioso è più profondo di quanto appare», spiega il teologo Luigi Lorenzetti, in un commento sul n. 37 di Famiglia Cristiana (in uscita giovedì 6 settembre). «Alla radice, c’è una sostanziale divergenza su chi è l’embrione umano: alla base della Legge 40, c’è il riconoscimento dell’embrione umano come soggetto fin dalla fecondazione; mentre nella sentenza della Corte europea, l’embrione è destinato a essere soggetto individuale in tempo successivo (14° giorno). È questa una posizione arbitraria giuridicamente».
Infatti, i dati più recenti forniti dalla scienza genetica pongono in evidenza il fatto che l'embrione, sin dall'inizio, si sviluppa gradualmente, progressivamente e autonomamente: in altre parole, è un essere umano già dalla fecondazione e non, quindi, in tempi successivi. 
Secondo il teologo, pertanto, «la sentenza della Corte europea è da rivedere, soprattutto per il contenuto». E, con molta probabilità, anche per aver denunciato l'incoerenza della stessa Legge 40: l'Organismo giudiziario europeo fa notare, infatti, che proprio un'altra legge dello Stato italiano (Legge 194/78) non tutela il concepito in tutte le situazioni. «La contraddizione tra le due leggi (Legge 40 e Legge 194) è palese», conclude, infine, Luigi Lorenzetti, «ma questo non vuol dire che la legge 40 deve adeguarsi, nella tutela del concepito, alla Legge 194. Può essere sostenibile il contrario».

L'Italia, tuttavia, non è l'unica protagonista di questa vicenda. Uno studio realizzato dal Guttmacher Institute di New York, per esempio, e appena pubblicato dal Journal of Family Planning and Reproductive Heath Care, rivela che alla base della scelta di abortire ci sarebbero, in circa il 30% dei casi, seri motivi economici. L’indagine ha preso in esame i dati clinici di circa 9.500 donne che negli Stati Uniti hanno portato a termine un’interruzione di gravidanza, durante il corso del 2008. Tra queste, 49 sono state contattate e intervistate dal vivo. Dalla rielaborazione dei questionari, è emerso che nel 57% dei casi, nell’anno che aveva preceduto la scelta dell’aborto, le donne erano andate incontro a eventi altamente stressanti. All’interno di questa percentuale, circa la metà dei problemi riguardava direttamente la sfera economica: la perdita del lavoro o la difficoltà a pagare il mutuo della casa, solo per fare qualche esempio. Oltre a queste ragioni, a influenzare la scelta vi sarebbero stati anche, nel 10% dei casi, la scomparsa improvvisa di una persona cara, in un altro 10% l’aver messo al mondo un bambino nell’anno appena passato, e, in circa il 7%, l’essere stata vittima di abusi familiari.

«Nelle donne povere», spiegano gli autori della ricerca, «c’è la possibilità che si abbia più di uno di questi eventi avversi, forse perché la mancanza di risorse finanziarie impedisce di affrontare adeguatamente il primo, e dà il via a una reazione a catena». Come, dunque, intervenire e arginare il problema? Abbastanza fredde, superficiali e sbrigative le conclusioni a cui sono giunti gli stessi studiosi: una maggiore disponibilità di contraccettivi potrebbe evitare molte di queste gravidanze indesiderate. Nessun accenno, quindi, a strade alternative e rispettose della vita.

 

2. La paura dell'handicap

 

Ad Ottawa, invece, la Canadian Medical Association (la più autorevole associazione dei medici canadesi che riunisce al suo interno ben 76.000 membri), ha approvato, all’incirca tre settimane fa, un provvedimento che mira a sostenere esplicitamente l’attuale posizione contenuta nel Codice penale, secondo il quale si diventa esseri umani solo dopo la nascita. Questa definizione, dunque, non riterrebbe “umana” la vita che si sviluppa e cresce nel calore del grembo materno. Una vera assurdità. L’approvazione con voto è stata il frutto del Consiglio annuale generale dell’associazione, il cui scopo dichiarato mirava proprio a prevenire la riapertura del dibattito sull’aborto, consentito in Canada, dal 1988, per tutto il decorso della gravidanza. Il punto cruciale, e senza dubbio più discusso e controverso, riguarda la spiacevole ambiguità della definizione, secondo cui per la legge, “l’essere umano è una persona nata viva”.

Questo provvedimento è stato aspramente criticato dai Canadian Physicians for life che hanno cercato di far notare la base di ipocrisia su cui si muove, dato che “ogni medico sa che il nascituro è un essere umano vivente”. Tuttavia lo scorso aprile, Stephen Woodworth, deputato conservatore, ha presentato una mozione alla Camera dei Comuni del Parlamento federale di Ottawa per domandare che venga stabilito per legge che “l’embrione umano è un essere vivente”, e così tutelare la vita di chi è ancora in grembo!  

Non meno allarmante è ciò che si sta verificando in Germania. Qui, dallo scorso 20 agosto, è stato messo in commercio un particolare “test del sangue” costruito appositamente con l’obiettivo di diagnosticare, durante la gravidanza, la presenza di un’eventuale sindrome di Down nel nascituro. L’ingresso di questo test nel mercato tedesco è stato accompagnato da una violenta polemica che ha finito per coinvolgere il mondo dell’associazionismo, quello religioso e anche il Governo. Esempio ne è, innanzitutto, l’intervento di Hubert Hueppe, delegato alla tutela dei disabili del Bundesregierung, che ha richiesto il “divieto” assoluto del test, il cui utilizzo violerebbe senz’altro i diritti umani. All’estremo opposto, la casa farmaceutica produttrice del test (sulla creazione del quale ha lavorato dal 2009 al 2012, avvalendosi della collaborazione dei centri di diagnostica prenatale di cliniche tedesche e svizzere) non ha fatto misteri nell’annunciare, dalla città di Costanza, che lo strumento risulta essere già a disposizione di 70 sedi sanitarie, suddivise tra studi medici e cliniche dislocate in Germania, Austria, Liechtenstein e Svizzera. All’esame clinico potranno chiedere di essere sottoposte «esclusivamente le donne che si trovano alla dodicesima settimana di gravidanza e oltre, laddove si ritiene che vi sia un alto rischio di Trisomia del 21 (“sindrome di Down”) per il nascituro».

Non si fa fatica a intuire come con questo test si rischia di intraprendere una nuova via che “autorizza” le penalizzazione dei disabili: «le persone affette da sindrome di Down», precisa Hueppe, «vengono esposte a una forma molto grave di discriminazione nel loro diritto alla vita». E come dargli torto. A oggi, infatti, ben il 90% dei genitori a cui viene comunicata una diagnosi di questo tipo durante la gravidanza, opta per l’aborto. Non osiamo immaginare, dunque, l’ulteriore e distruttiva semplificazione che verrà messa in campo dalla diffusione capillare di un test di questo genere.

 

3. Tra drammi e speranze

 

Più “creativi” degli scienziati tedeschi, si sono forse mostrati alcuni agenti di viaggio di Instanbul, in Turchia. Davvero difficile a credersi, questi “imprenditori delle vacanze” hanno lanciato sul mercato un nuovo e straziante “pacchetto turistico” con il quale offrono alle donne turche, oltre alla consueta possibilità di visitare le bellezze paesaggistiche, architettoniche e storico culturali della città di Sarajevo, anche l’opportunità di usufruire di un intervento medico per abortire. Si faccia attenzione: non si tratta assolutamente di uno scherzo. L’idea è stata costruita appositamente per rispondere alle esigenze di un certo tipo di clientela. L’aborto, infatti, non è illegale in Turchia, ma le giovani donne autoctone, che con molta probabilità portano in grembo un “peso indesiderato”, scelgono di sottoporsi ad un intervento di questo tipo migrando temporaneamente in un’altro Stato. Così si sottraggono dai pregiudizi e dagli stereotipi, ancora ben radicati e diffusi nella società turca, e possono agire indisturbate. «Vanno ad abortire all’estero perché non vogliono essere giudicate da familiari e amici», ha riferito al giornale bosniaco Nezavisne Novine, Cem Polatoglu, il proprietario dell’agenzia turistica Barracuda Tour Company.

In sostanza, al prezzo cumulativo di 600 dollari, l’agenzia propone a tutte le donne interessate un viaggio della durata di 4 giorni a Sarajevo, garantendo 3 pernottamenti e l’intervento abortivo presso una clinica privata. Nelle ultime settimane, già 16 donne hanno approfittato dell’”allettante” offerta acquistando lo squallido pacchetto turistico. Un tour dell’orrore che prevede anche altre possibili varianti: per Cipro, Crimea e Gran Bretagna. Le cliniche che prestano il servizio medico per l’intervento non richiedono una documentazione speciale, tranne che un certificato rilasciato da un medico turco.         

Tuttavia, episodi che viaggiano in senso contrario a quello appena considerato capitano ancora. Meno male! È il caso della piccola, nata i primi di agosto, la cui mamma desiderava abortire. A farle cambiare idea ci ha pensato l’intera e tenace comunità parrocchiale di Santa Rosa, a Livorno, e Padre Maurizio De Sanctis, parroco e religioso passionista, che non hanno esitato, tutti insieme, nell’adottarla. E così sul portale della Chiesa ha fatto la sua comparsa un grande fiocco rosa.

Una storia davvero unica che inizia, come una fiaba, a dicembre dell’anno scorso. Una coppia residente nel quartiere che fa capo alla parrocchia “Santa Rosa”, contatta con urgenza il parroco. È affranta. Basta poco per spiegargli la difficoltà che sta vivendo in quel momento: il quarto figlio (anzi figlia) non può nascere. Il particolare momento di crisi economica impedisce a tutta la famiglia di occuparsene in modo degno.
Padre De Sanctis ascolta, riflette e, alla fine, propone loro un’alternativa: la nascitura sarebbe stata adottata dalla parrocchia e tutti avrebbero assicurato alla piccola il necessario per crescere serena. Durante la veglia di Natale, questa speciale iniziativa viene comunicata a tutta la comunità. Gioia piena: si costituisce un conto corrente e tutti i membri della parrocchia contribuiscono alle spese di cura e sostentamento della piccola. Che ora sta benissimo! Scoppia di salute, pesa tre chili e presto verrà battezzata in parrocchia! Con l’aiuto e la collaborazione di tutti, nessuno escluso.

 

 

Simone Bruno
 
© Famiglia Cristiana, 4 ottobre 2012
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