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Dossier. Nord Africa, oltre le rivoluzioni

Un dossier per capire le cause e gli sviluppi della primavera araba. Soprattutto là dove (per ora) le rivolte non sono diventate rivoluzioni, oppure sono mutate in guerra civile

Michele Brondino, esperto del Maghreb:

Egitto, un gigante dai piedi d’argilla

 

egittook_1839110.jpg«Le rivolte per diventare rivoluzioni richiedono tempo e sono esposte a ritorni di fiamma spaventosi», con questo commento agrodolce Michele Brondino, direttore dell’Enciclopedia del Mediterraneo, fa il punto della situazione ad alcuni mesi di distanza dallo scoppio delle rivolte che hanno rovesciato due dei regimi più longevi del Nord Africa.

Sei mesi fa ormai abbiamo assistito alle immagini di piazza Tahrir al Cairo per giorni in mano al popolo mentre l’esercito stava a guardare o a stento si interponeva negli scontri tra rivoluzionari e sostenitori del regime. Poi la presa di posizione dei generali. Ben Ali e Mubarak se ne sono andati rispettivamente dopo ventitre e trent’anni al potere, in qualità di presidenti, ma di fatto lasciando due regni. Nessuno si aspettava tali capovolgimenti in questi due Paesi del Nord Africa, nessuno si aspettava che il potente Egitto potesse essere scosso dalle radici alla chioma da un vento nuovo, eppure è successo.

In Egitto la situazione è tutt’altro che stabilizzata, i nostri media non gli danno troppo risalto ma “ci sono stati diversi scontri in piazza Tahrir e l’intervento dell’esercito provoca ogni volta tra i 15 e i 30 morti”, continua Michele Brondino che è autore con Yvonne Brondino di un libro da poco uscito per Jaca Book, Il Nord Africa brucia all’ombra dell’Europa (pp. 120, euro 12), dove viene fatto un bilancio delle rivolte arabe alla luce delle cause culturali, sociali ed economiche che le hanno scatenate.

Qual è il punto d’arrivo della primavera araba, c’è il rischio di una deriva in cui possa prendere il sopravvento l’estremismo islamico?
I Fratelli musulmani sono nati proprio in Egitto, è innegabile che in questo risieda un vero pericolo. Ma c’è da dire che la rivoluzione non è partita da loro, e anche questo è un dato enorme, vuol dire che la società e i giovani egiziani non hanno tirato in ballo la religione nelle loro manifestazioni, né ci sono stati degli slogan antioccidentali. Questo fatto costituisce una svolta e una rottura importantissime.

Quali cause hanno scatenato le rivolte?
I problemi sono sempre gli stessi, terribili: sociali e civili dovuti alla mancata redistribuzione del reddito, sia in Tunisia che in Egitto. Il problema è di pane e dignità, di democrazia e di libertà.

Ma quali condizioni ne hanno favorito lo scoppio proprio nel periodo storico in cui viviamo?
Quello che ha reso i tempi maturi è stato un mezzo che ha fatto circolare le notizie e ha aperto i canali dell’informazione partecipata tra i diversi gruppi sociali: in primo luogo i famosi social network, da Twitter a Facebook, ma anche Anonymous, che hanno reso possibile l’escamotage di aggirare la polizia, la quale non ha capito e non è stata all’altezza di bloccare il tutto. Questa possibilità enorme di circolazione delle informazioni è stata ulteriormente amplificata da un’altra novità del mondo arabo degli ultimi anni: le tivù internazionali, Al Jazeera e Al Arabiya. Mubarak poi ha dato l’ordine di bloccare internet totalmente, e così facendo ha paralizzato anche i mezzi di controllo della polizia.

Qual è il dato politico più rilevante riguardo all’Egitto?
Nel Paese del Nilo il dato di cui bisogna fortemente tener conto è costituito dal ruolo dell’esercito, che rappresenta il nerbo della politica e dell’economia del Paese. L’elite aristocratica militare detiene il potere politico e domina l’economia grazie soprattutto all’aiuto americano. Ora che Mubarak si è dimesso il potere è in mano ad un alto comitato militare.

In fondo è stato proprio l’esercito ad abbandonare Mubarak...
Diciamo che l’esercito è stato molto accorto, ‘sul chi va là’, ma soprattutto c’è stata una forte influenza degli Stati Uniti e di Obama. La pressione degli Usa è stata decisiva in Egitto, la spinta principale per orientare le gerarchie militari, e poi certo, dopo è venuta la pressione della popolazione. Teniamo presente che l’esercito riceveva ogni anno un miliardo e mezzo di dollari dagli Stati Uniti, più un altro miliardo e mezzo di aiuti alla popolazione, per cui si dice che in Egitto una pagnotta su tre fosse americana. E poi non dimentichiamo il famoso discorso di Obama del 4 giugno 2009 al Cairo, in cui ha pronunciato diverse volte la parola ‘democrazia’.

L’Egitto sembrava inespugnabile, sotto il tacco del Faraone (Hosni Mubarak), si è invece rivelato un gigante dai piedi d’argilla mentre la Tunisia, piccolo Davide, ne ha innescato il crollo?
Sul piano geopolitico c’è una grossa differenza, così com’è grande la differenza nelle proporzioni dei due Paesi: la Tunisia è uno Stato di 169mila chilometri quadrati, l’Egitto supera i due milioni ed è il Paese leader del mondo Arabo. Quando Nasser fa la rivoluzione nel 1952, con il gruppo dei liberi ufficiali, lancia per primo l’idea del panarabismo. Vuole riscattare il Mondo Arabo dal colonialismo di allora e scrive un piccolo libro che si chiama La filosofia della rivoluzione, nel quale parla di una grande civiltà araba, recuperando i valori, le visioni e le possibilità storiche della civiltà passata.

Qual è un dato saliente della società egiziana di oggi?
La prima cosa da dire è che il tasso di analfabetismo supera il 30 per cento e c’è una povertà molto forte, caratterizzata da una grossa spaccatura della società: grandi ricchezze e grandi redditi concentrati nelle mani di pochi contro la miseria di milioni di egiziani, accompagnata da un tasso di crescita demografica elevatissimo. Nell’arco di 30, 35 anni la popolazione è triplicata, oggi siamo arrivati tra gli 83 e gli 85 milioni di abitanti, a seconda delle stime.

Ma esiste una classe media e soprattutto era presente in piazza Tahrir? Chi ha fatto la rivoluzione, tutto il Paese o solo una parte minoritaria?
Non esageriamo, tutto l’Egitto forse no. Su 85 milioni si dice che in piazza Tahrir ce ne fossero un milione, ma l’Egitto profondo no, dove si vedono i bambini di quattro o cinque anni lavorare nei campi. È necessario però tenere conto delle proporzioni: i numeri sono molto maggiori che in altri Paesi, coma la Tunisia, quindi anche se la classe media è percentualmente minima rispetto al resto della popolazione, non è irrilevante.

 

Tunisia, l’alfiere del mondo arabo

 

tunisiaok_1839119.jpg«In Tunisia i miei colleghi dell’università mi raccontano che ora, saltato il brutale ordine che era imposto dalla dittatura, tutti si credono padroni, tutti vogliono essere rivoluzionari, e rimettere ordine è difficile». Con queste parole Michele Brondino descrive la situazione attuale nel Paese che per primo ha dato vita a una rivoluzione in Nord Africa.

L’hanno chiamata ‘Rivoluzione dei gelsomini’, la Tunisia è un piccolo Paese, almeno nel territorio, ma guai a sottovalutarlo: “Le forti differenze tra Egitto e Tunisia in termini di potenza militare e grandezza del territorio vanno ridimensionate se le si guarda nella prospettiva dei fatti che sono appena successi: la Tunisia è un piccolo Stato, ma a ben vedere si può scoprire qualcosa di interessante”, spiega Michele Brondino, autore di Il Nord Africa brucia all’ombra dell’Europa (pp. 120, euro 12) appena uscito per Jaca Book sui recenti fatti avvenuti in Nord Africa.

Secondo lei è realmente possibile avviare un processo verso una democratizzazione sul modello occidentale, con elezioni e un sistema partitico, specialmente in un momento in cui non c’è un governo la cui autorità deriva dall’investitura popolare?
La Tunisia ci sta provando. C’è il tentativo di escludere dal governo tutti gli uomini della precedente dittatura ed è stato creato un Alto Consiglio per la difesa della Rivoluzione per arrivare fino a ottobre, quando ci saranno le elezioni per la costituente. Tra i Paesi del Nord Africa che sono in transizione verso una possibile democrazia la Tunisia è senz’altro la favorita perché ha delle strutture istituzionali che hanno anche un secolo e mezzo di storia, e sono lì, già collaudate. È vero che poi sono state deviate, ma se riflettiamo anche noi italiani abbiamo avuto venti anni di dittatura, con il fascismo.

Perché tutto è cominciato dalla piccola Tunisia?
La Tunisia è il primo Paese ad aver avuto la costituzione all’interno del mondo arabo, nel 1861. Era già allora uno Stato evoluto e istituzionalmente sviluppato, e lo è rimasto per tradizione. Lo si può vedere oggi anche sul piano giuridico: la parità totale tra donna e uomo, ad esempio, non esiste altrove in tutto il mondo arabo. Queste caratteristiche rispecchiano sul piano socio politico un’evoluzione che deve molto al Padre della Patria, Habib Bourguiba. Grazie a lui il Paese si trova ad essere ‘ante litteram’ nel campo delle istituzioni democratiche, civili e sociali rispetto agli altri Paesi del Nord Africa. Pensi che la Tunisia diventa indipendente il 20 marzo del 1956 e l’anno successivo viene promulgato lo Statuto di famiglia che equipara e mette sullo stesso piano l’uomo e la donna.

Una questione di avanzamento sociale dunque, nel panorama delle società arabe?
Se vogliamo la spiegazione del fatto che proprio la Tunisia sia stata la prima a sollevarsi risiede nella sua situazione ‘avanzata’, nel salto di qualità sul piano culturale. Con Bourguiba si ha una diffusione dell’istruzione a livello generale. Nella scuola primaria il tasso di alfabetizzazione è del 97 per cento. Pensiamo all’Italia dove assistiamo al fenomeno di un analfabetismo di ritorno. Immaginiamo poi che il tasso demografico tunisino è lo stesso della realtà europea, sotto il due per cento. Questi sono segnali di evoluzione fortissimi. Inoltre circa il 60 per cento degli studenti universitari sono donne, nella scuola secondaria oltre il 50, quindi la presenza della donna è un dato reale enorme nella società di quel Paese all’interno del mondo arabo islamico.

Siamo di fronte quindi a una classe media fuori dagli standard arabi, che ha assegnato al Paese dei gelsomini il ruolo di alfiere della ‘primavera’?
Esatto, proprio questa condizione ha permesso la rivoluzione, ma attenzione, quello che all’inizio ha fatto da detonatore sono stati i giovani: giovani istruiti, che hanno tutti la scuola secondaria, fino ai 17, 18 anni, molti dei quali accedono all’università. Di loro oltre il 50 per cento va su internet, e infatti è la preparazione informatica e tecnologica che ha fatto di questo momento il tempo maturo per il cambiamento.

Durante le rivolte c’è stato il tentativo da parte del governo di intralciare l’informazione?

Si, soprattutto Al Jazeera, che è un libero network, era stata proibita da Ben Ali. Ma arrivava ugualmente nelle case dei tunisini grazie al satellite.

Nessun segno, nessuno scricchiolio nei mesi precedenti?
Al contrario, c’erano già stati innumerevoli segnali di quello che si preparava: molti suicidi dimostrativi e di protesta, l’ultimo dei quali, quello del giovane Bouazizi, si è consumato nel dicembre del 2010. Sono oltre un centinaio i casi che si sono verificati andando indietro nel tempo e che risalgono fino alla fine del secolo scorso. La Tunisia profonda era stata abbandonata mentre c’era un relativo benessere sulla costa, ogni anno oltre mezzo milione di italiani e un milione di francesi andava in vacanza e portava ricchezza sulla costa, mentre all’interno non arrivava nulla.

Ma allora la primavera araba è un effetto della globalizzazione, la stessa che da un lato ha portato alla spoliazione economica del Nord Africa e dall’altra ha reso possibile la diffusione di internet e della comunicazione di massa?
"Oggi il mondo è diventato un piccolo villaggio", diceva McLuhan. "Il mezzo è già il messaggio". Ed è questo il punto. I nuovi social network portano il messaggio di una libertà che prima non c’era. Una possibilità di informazione che non è più passiva ma diventa attiva e passa all’azione.

 

Marocco: chi tocca il re tocca il Corano

 

“In Marocco il re è al contempo il capo dello Stato e la guida religiosa e questo gli dà un carattere divino” dice Michele Brondino, studioso premiato dall’Accademia dei Lincei per i suoi lavori sulle società maghrebine. Uno dei motivi per cui qui, anche se le manifestazioni di protesta non sono mancate, non c’è stata una rivoluzione come in Tunisia e in Egitto risiede nel fatto che “la dimensione storica costituisce un blocco unico insieme a quella religiosa”.

“Le sommosse ci sono state - continua Brondino - e pure il fondamentalismo islamico è presente, ma c’è un esercito e una struttura statale che tengono. Il re è e rimane il punto di riferimento essenziale per la nazione”. L’attuale sovrano del Marocco infatti, Mohammed VI, è ritenuto un riformatore, salito al trono nel 1999 appartiene alla dinastia alawita. “La casa regnante alawita ha oltre mille anni di storia e siede sul trono dal XVII secolo - spiega l’autore de Il Nord Africa brucia all’ombra dell’Europa, appena uscito per Jaca Book (pp. 120, euro 12) - il re Mohammed V per esempio ha dato la libertà al Marocco dopo la colonizzazione francese. Se l’attuale sovrano dovesse cadere, e con lui finire questa dinastia, sarebbe un fatto epocale”.

Può sembrare in effetti che nel Paese più occidentale del Maghreb non sussistano gli stessi elementi di scontento che hanno portato alla sollevazione popolare di Tunisia ed Egitto, ma per Brondino “i segni sono gli stessi: il Marocco è un Paese in evoluzione, con differenze di ceto terribili: c’è un’aristocrazia elitaria ricchissima e masse poverissime. Questo spiega, tra l’altro, la fortissima emigrazione. La situazione istituzionale è quella di un’aristocrazia che domina tutto l’apparato economico e politico e il re ne è a capo. Tuttavia al momento giusto riesce a fare una serie di elargizioni, che comportano una sorta di redistribuzione di parte delle ricchezze ed evitano il raggiungimento del punto di non ritorno. Si tratta di tatticismi che per lo più funzionano”.

Dal punto di vista sociale il Marocco, che diventa indipendente il 20 marzo 1956 nella stessa data della Tunisia, non ha lo stesso livello di sviluppo di quet’ultima. “Solo cinque anni fa è stata approvata la legge della Moudawana, una riforma del codice della famiglia, con la quale si è cercato di dare una specie di parità tra uomo e donna, ma di fatti non vi si è ancora riusciti. La donna ad esempio non eredita come l’uomo”. Non bisogna pensare però che una rivoluzione anche in Marocco sia impossibile. “L’impossibilità nella storia non c’è - conclude Brondino - siamo però di fronte a una situazione assolutamente più problematica, in cui lo Stato, l’amministrazione, con i ceti dell’aristocrazia statale, e la figura centrale del re tengono saldamente in pugno, insieme all’esercito, il Paese”.

 

Libia, una guerra civile

a uso e consumo occidentale

 

Alla domanda se quella in corso è una rivoluzione della primavera araba la risposta è che “in Libia siamo di fronte a una guerra civile in cui noi europei accampiamo ragioni umanitarie a nostro uso e consumo” senza mezzi termini Michele Brondino, che per Jaca Book ha scritto Il Nord Africa brucia all’ombra dell’Europa (pp. 120, euro 12), definisce guerra civile il conflitto che si sta protraendo ormai da mesi. “Nel quadro nordafricano la Libia è un Paese a parte per la sua storia. Due aspetti vanno tenuti presenti: la realtà tribale e la mancanza di assetti costituzionali”.

Parlando dei regimi nordafricani Brondino aggiunge: “Diciamocelo pure, a noi occidentali, all’Italia e alla Francia, questi Stati dittatoriali facevano comodo. Facevano da diga all’immigrazione illegale e soprattutto al terrorismo fondamentalista. La Libia poi è stata una nostra colonia”. Nel ribadirlo c’è l’intenzione di sottolineare come gli interessi commerciali in quel Paese non siano mai venuti meno: “Prima Sarkozy nel 2007, poi nel 2008 Berlusconi, lo spettacolo di Gheddafi che impone la sua tenda a Parigi e poi a Roma è sempre lo stesso. Ma dietro ci sono interessi economici, di Francia, Italia e Inghilterra. La Francia è partita per prima per i forti interessi ad avere per sé una parte di quell’economia petrolifera”.

Indubbiamente la primavera araba il suo soffio lo deve aver portato anche in Libia, deserto immenso tra Egitto da una parte e Tunisia e Algeria dall’altra, ma per Brondino in un “Paese costituito da oltre 140 tribù dove il raìs ha eliminato dalla distribuzione di beni che sarebbero di loro proprietà le tribù della Cirenaica, per dare tutto o quasi a quelle a lui fedeli, per lo più in Tripolitania, le prime, sulla spinta della rivoluzione del gelsomino in Tunisia, hanno impugnato le armi. Inoltre a mio avviso c’è stato un ritorno di fiamma dall’Egitto, molti erano infatti gli esiliati libici in quel Paese. E infine dietro c’eravamo anche noi, che abbiamo soffiato sul fuoco”.

L’altro aspetto caratteristico è la mancanza di un assetto costituzionale: nel 1969 Gheddafi fa la rivoluzione verde con i giovani ufficiali, “seguendo all’inizio il movimento del socialismo arabo di Nasser e poi trasformandolo secondo le esigenze della Libia tribale – precisa Brondino – e nel suo libro verde spiega la teoria dello Stato delle masse in cui non ci sono istituzioni politiche e partiti ma è il popolo che gestisce sé stesso. In sintesi però chi decide è sempre Gheddafi, il quale ha studiato molto bene il suo Paese e ha cercato di equilibrare la presenza delle varie realtà tribali nella gestione diretta di quello che chiama Stato delle masse”.

Il signore della Libia negli anni ha variato più volte il suo atteggiamento verso la comunità internazionale...
Prima Gheddafi aiuta il grande terrorismo internazionale, Lockerbie ne è un esempio. Poi, dopo le sanzioni dell’Onu, il blocco totale verso la produzione del petrolio, il blocco delle tecnologie, della vendita di armi, capisce che questo lo avrebbe indebolito enormemente e si trasforma in alleato del mondo occidentale. Rinuncia al terrorismo, lo dichiara a Stati Uniti e Europa e viene accolto a pieno titolo come membro del consesso internazionale.

Come si spiega il fatto che a Tripoli non sembra esserci nessuna sollevazione popolare contro il regime?
Gheddafi è popolare tra le sue tribù, soprattutto la Ghadafa, dalla quale proviene. Per lo stesso motivo per cui è tanto odiato a Bengasi, perché lui ha sempre estromesso dal potere le tribù della Cirenaica.

In Libia c’era molta più ricchezza che negli altri Paesi del Nord Africa...
Il reddito pro capite medio, teorico, era sui dieci, undicimila dollari all’anno. E la Libia, anche se non si sa esattamente, si aggirava intorno ai cinque milioni e mezzo, sei milioni di abitanti, compresi gli stranieri che vi lavoravano, oltre un milione.

Mancava però un esercito forte e politicamente potente come in Egitto?
Gheddafi ha costruito le sue forze militari dosando la presenza delle varie tribù, e importando inoltre anche forze mercenarie dall’Africa subsahariana. È vero che in Libia ci sono forze mercenarie.

Siamo quindi intervenuti in una guerra civile?
Ci siamo dentro. È inutile dire che facciamo un’azione umanitaria, non è possibile partire in nome di un’azione umanitaria per commettere una violenza.

Non era giusto fermare un bagno di sangue, a Bengasi?
È vero, un bagno di sangue ci sarebbe stato, questo è certo. Ma non si può fare un’altra violenza per fermare una violenza.

 

Algeria, una guerra civile senza fine

 

“Il passato pesante di una guerra civile permanente impedisce una piena primavera come quelle che abbiamo visto in Tunisia ed Egitto” queste sono le parole che Michele Brondino, storico del Mediterraneo usa per fotografare un Paese che conosce bene, dove ha vissuto per diversi anni, “l’Algeria negli anni di Boumédienne era considerata la locomotiva del terzo mondo. Era l’esempio di un Paese che stava per decollare e dimostrare che ce l’aveva fatta”.

Tuttavia la storia si è pronunciata diversamente e “dieci anni di guerra civile spietata, con oltre duecentomila morti, hanno spaccato e intaccato la società algerina”. Per questo nonostante gli scontri e gli accenni di rivolta di gennaio l’Algeria non ha conosciuto i giorni del Cairo. Per Brondino, autore per Jaca Book de Il Nord Africa brucia all’ombra dell’Europa (pp. 120, euro 12), “oggi la paura è grande, e si esprime come un blocco psicologico nazionale verso tutto quello che è stata, e che in maniera velata è ancora, la lunga guerra civile”.

I gruppi fondamentalisti integralisti islamici sono sempre presenti, malgrado l’atto di pace e perdono formale fatto dall’attuale presidente Bouteflika, ”trovano rifugio sulle montagne e di tanto in tanto fanno incursioni. I nostri media parlano poco di quello che succede in Algeria, se non quando si tratta di qualcosa di eclatante, ma se guardiamo i media francesi scopriamo che avvengono episodi di guerra in continuazione, sia da parte dell’esercito, che da quella che è oggi l’Al Qaeda maghrebina”. Ed in effetti quella di cui parla Brondino è l’organizzazione terroristica a tutti nota e che in Nord Africa trova la sua roccaforte proprio in Algeria.

“Nel 1974 Boumédienne – continua Brondino - ha pronunciato un famoso discorso all’Onu nel quale affermava che anche i Paesi arabi islamici non volevano andare in paradiso con la pancia vuota. Diceva Boumédienne di aver imparato il Corano da piccolo, di saperlo a memoria e di rispettarlo, ma di avere anche una pancia e di doversi nutrire. Con quelle parole dava l’avvio a una stagione di nazionalizzazioni dei beni francesi, di petrolio e gas, in una terra, l’Algeria, ricchissima di risorse”. Purtroppo però anche in Algeria come nel resto del Nord Africa, la questione è di redistribuzione della ricchezza: “C’è un’elite al potere ricchissima e una miseria nelle periferie delle grandi città che è terribile. Il reddito derivante dal petrolio e dal gas viene in larga parte assorbito dalle caste dominanti”.

Cosa succede in Algeria dopo la scomparsa di Boumédienne?

Morto Boumédienne, nel 1978, rimaneva l’esercito, che tra l’altro aveva in larga parte fatto la rivoluzione contro la Francia,dal ‘54 al ‘62. Forte e politicamente decisivo come in molti altri Paesi nordafricani, ancora oggi è l’esercito che detiene il potere. E poi il partito unico, l’Fln, il Fronte di liberazione nazionale, che aveva guidato la guerra d’indipendenza.

Perché quindi a un certo punto la locomotiva algerina si ferma?
Dobbiamo arrivare agli anni novanta, l’Algeria è un Paese ricchissimo ma dalla popolazione poverissima, l’economia non va più, l’ordine salta. Avviene una rivoluzione dall’interno, i giovani si ribellano, chiedono libertà, siamo alla fine del 1988 e e si arriva alle elezioni del ‘90, ‘91 in cui emerge il Fis, Fronte islamico di salvezza, che vince le primarie. L’esercito non vuole permettere che il potere cada in mano a un gruppo islamista e subito reagisce: annulla le elezioni e instaura di nuovo la dittatura. È il gennaio 1992 quando avviene il colpo di Stato. Inizia una guerra civile terribile che dura dieci anni, quasi duecentomila morti, oltre ventimila scomparsi di cui non si è mai saputo dove siano finiti.

Il Fis era davvero così pericoloso, avrebbe portato l’Algeria al fondamentalismo?
Molto probabile. Tenga presente che pochi anni prima, era il 1979, c’è la rivoluzione iraniana, che porta con sé tutta una tendenza ad applicare la legge islamica, la shari’a. L’esercito, instaurando la dittatura, ha bloccato il processo di trasformazione, che tuttavia era un processo democratico. Certo, c’era un grosso punto interrogativo, e cioè che il Fis sarebbe andato verso uno Stato fondamentalista, ma la democrazia corre anche questi rischi.

Perché il Fis vince le elezioni in maniera così netta?
Il Fis aveva lavorato bene negli anni settanta e ottanta, ma sopratutto durante gli ottanta, anni della crisi economica, a fianco della popolazione. Opere di carità, assistenza su vasta scala. Soprattutto nelle scuole e nelle periferie povere e miserabili di Algeri. Da qui il successo alle elezioni.

E dopo, perché falliscono i tentativi di riconciliazione?
Quando è stato eletto l’attuale presidente, Bouteflika, ha cercato di fare giustizia ma l’esercito, che detiene il vero potere in Algeria, non ha voluto. Se lei ci fa caso negli anni novanta i presidenti sono tutti generali dell’esercito. A dire il vero Bouteflika ci riprova alla seconda elezione, e tenta la pacificazione o il perdono generale, tranne che per coloro che si fossero macchiati di delitti o atti cruenti. Resta un tentativo, però, non ancora del tutto riuscito.

Chi è Abdelaziz Bouteflika?
Negli anni settanta era un giovane ministro degli esteri di Boumédienne. Dopo Boumédienne è scomparso, viene estromesso e va in esilio all’estero. Poi viene richiamato a presentarsi alle elezioni dall’esercito stesso che voleva uscire da questa terribile guerra civile con un ritorno apparente alla democrazia. È proclamato presidente nel 1999.

Che cosa ne è adesso della rabbia mostrata anche ad Algeri in quei giorni di gennaio?
C’è un dato importante che spiega quella rabbia, e che riguarda tutto il Nord Africa: il 50 per cento della popolazione è composta da giovani tra i quindici e i trent’anni. A tutti questi giovani è mancata la speranza per il futuro. Ma mentre in Tunisia ed Egitto avevano internet, in Algeria meno. Anche se c’è stata alfabetizzazione, il grado di sviluppo è minore. Anche la donna partecipa alla vita civile, ma meno che in altri Paesi. L’Algeria ha uno statuto della famiglia del 1984, che è retrogrado. La donna pur avendo partecipato alla guerra contro la potenza coloniale non è pari all’uomo. Se vuole andare all’estero, per esempio, deve avere il beneplacito del marito, se non c’è il marito del fratello, se non c’è il fratello del figlio, e così via. Pur essendo la donna algerina oggi sempre più presente nella società, alcune trasformazioni sono ancora lontane.

 

Siria, Assad gioca la carta della fede

 

Nel 1982 il presidente Afez al Assad, padre dell’attuale presidente Bashar, mandò l’esercito ad Hama per stroncare la rivolta dei Fratelli Musulmani. Ci furono migliaia di morti e la città fu quasi rasa al suolo. Comandava le truppe Rifaat, fratello del Presidente. Oggi la storia si ripete: Bashar al Assad ha mandato il fratello Maher, comandante della Quarta Divisione (uno dei reparti d’élite dell’esercito siriano) a massacrare i cittadini di Hama che da mesi protestano contro il regime.

 

     Pochi giorni prima lo stesso trattamento (carri armati e mitragliatrici per le strade, cecchini sui tetti a sparare ai civili) era toccato a un’altra città, Homs, con altre decine di morti. Il conto dei caduti nella repressione sta ormai rapidamente salendo verso le 2 mila vittime (con oltre 15 arresti e circa 3 mila persone scomparse). Ma la differenza tra le manifestazioni del 1982 e queste del 2011 è abissale. Come in tutto il resto del Medio Oriente, la sollevazione in Siria non ha radici religiose, né moderate né estreme. Dopo le violenze sulla popolazione di Homs, al contrario, si sono svolti cortei al grido di “Musulmani, cristiani e alawiti uniti”. E molti autorevoli esponenti alawiti (gli alawiti, un ramo dello sciismo, fanno risalire le loro origini all’undicesimo imam sciita, Hasan al Askari; è alawita tutto il clan degli Assad, n.d.r) hanno condannato gli attacchi e i saccheggi contro i negozi dei sunniti.

Dossier a cura di Alessandro Micci

© Famiglia Cristiana, 2 agosto 2011

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