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II Domenica del tempo Ordinario anno A. Ecco la Chiesa dell'agnello e della colomba

Fino alla Croce Gesù è l'agnello che si immerge nel fiume del nostro peccato: "noi lasciamo nell'acqua le nostre lordure, uscendone purificati; lui vi si immerge, uscendone carico della nostra immondezza"

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Ecco l'agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo

1. "Erano trascorsi quaranta giorni da quando aveva versato l'acqua del Giordano sul suo capo e l'aspetto di Gesù doveva essere tanto e così completamente mutato che Giovanni, vedendolo, rimase sconvolto. Chi gli stava dinanzi non era più uno sconosciuto ma l'eletto di Dio. In quel corpo provato dal digiuno e dalla tentazione, che camminava lungo la riva del Giordano, Giovanni non vedeva più l'uomo, ma la vittima che si offriva liberamente al sacrificio perché il mondo fosse redento. In quell'istante Giovanni dovette vedere, dinanzi ai suoi occhi, passare insieme la gloria e il macello. Abbagliato da quella visione che non poteva ormai più scacciare, Giovanni non si stancava di ricercare con lo sguardo Gesù mescolato alla piccola folla dei penitenti e, ogni volta, vedendolo passare, lo indicava ai propri discepoli chiamandolo nel solo modo in cui poteva e sapeva chiamarlo: 'Ecco l'Agnello di Dio!'. Ma i discepoli non sapevano che cosa volesse dire Giovanni" (F. Parazzoli).
I discepoli di Giovanni non sapevano e non potevano sapere che cosa volesse dire il loro maestro, perché al tardo giudaismo era ignota l'immagine del redentore come agnello. Noi invece sappiamo che nel Nuovo Testamento agnello ricorre quattro volte (Gv 1,19.36; At 8,32; 1Pt 1,19) e sempre in riferimento a Gesù. Noi sappiamo che fin dagli inizi la comunità cristiana vide Gesù come Gesù vide se stesso, e cioè come il servo di Dio - innocente, sofferente e paziente - raffigurato da Isaia 53,7 come un agnello, condotto al macello. Noi sappiamo che in aramaico talja significa sia "agnello" che "servo". Noi sappiamo pure che secondo Giovanni (19,36) Gesù viene paragonato all'agnello pasquale, come si desume dal fatto che la crocifissione ebbe luogo in coincidenza con la Pasqua ebraica e addirittura con l'ora stessa in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli per il sacrificio pasquale.
Soprattutto una cosa noi sappiamo: che l'agnello immolato è immagine di un amore e di una obbedienza che vanno fino alla Croce: l'agnello è l'immagine del servo di Dio che prende su di sé e toglie il peccato del mondo. Secondo il profeta (Is 53) il servo di Dio è innocente e insieme solidale con i peccatori: innocenza e solidarietà che si ritrovano nel battesimo di Gesù. Con questo gesto il Nazareno non prende le distanze dal popolo peccatore - come facevano i farisei - ma si confonde con esso, pur nella consapevolezza della propria innocenza e della propria provenienza da Dio. Il battesimo è la scelta fondamentale di Gesù, che egli porterà avanti in tutta la sua vita. Fino alla Croce Gesù è l'agnello che si immerge nel fiume del nostro peccato: "noi lasciamo nell'acqua le nostre lordure, uscendone purificati; lui vi si immerge, uscendone carico della nostra immondezza" (Fausti).

2. La visione del Battista è sconvolgente: egli non si vede venire davanti il Messia nelle sembianze del leone di Giuda, che avrebbe stritolato i nemici di Dio. Ma c'è un dato ancora più sorprendente: se il Messia doveva essere l'inviato di Dio e quindi doveva somigliargli in qualche modo, il Dio che Giovanni intravede in Gesù non è neanche il leone che ruggisce da Sion - descritto da Amos, il profeta-pecoraio - e che con il suo ruggito raggelante brucia i pascoli verdeggianti del lontano Carmelo (Am 1,2). Agli occhi sorpresi del Precursore di fuoco, Gesù non appare nemmeno come il capro espiatorio: è indifeso come un agnello mansueto e vulnerabile, ma non è affatto una vittima complessata, inacidita e lamentosa.
E c'è da cogliere un altro particolare nella visione al Giordano da parte del Battezzatore: egli ha visto lo Spirito scendere e posarsi dolcemente sul Figlio di Dio "come una colomba". Una colomba, non un'aquila rapace che piomba su un povero agnellino inerme, ma neanche un vecchio, tranquillo piccione domestico. È la colomba delle origini e di quel grande ricominciamento che c'è stato dopo il diluvio. La colomba dice la freschezza intatta del mattino della creazione e anche l'inesausta capacità, tipicamente divina, di non arrendersi mai al nostro peccato. Se l'agnello è simbolo dell'amore spinto fino all'immolazione di sé, la colomba è indice di cieli nuovi e di terra nuova, e segno di perenne, incessante giovinezza.

3. Forse può bastare con l'analisi dei due simboli così carichi di significato - la colomba e l'agnello - che muovono l'odierna scena evangelica, affrescata dal quarto evangelista. È tempo ora di porci la domanda ineludibile: cosa significa per noi oggi essere i discepoli del Cristo-Agnello e dello Spirito-Colomba? Non è il caso di attardarsi in risposte teoriche e astratte; forse è più opportuno dar voce a una testimone del nostro tempo, l'ebrea olandese Etty Hillesum, morta a soli 29 anni ad Auschwitz, il 30 novembre 1943. Aveva respinto ogni nascondiglio sicuro per "sposare" il destino del suo popolo, ed ecco come descrive la deportazione nel lager: "I vagoni merci erano 35, completamente chiusi, ma qua e là mancavano delle assi, e dalle aperture spuntavano mani a salutare, proprio come le mani di chi affoga. Il cielo è pieno di uccelli, i lupini violetti stanno lì così principeschi e così pacifici, il sole splende sulla mia faccia e sotto i nostri occhi accade una strage: è tutto così incomprensibile". Etty potrebbe essere divorata da un odio implacabile, e invece, grazie a un continuo, intenso lavorio sulla propria anima, diventa testimone della possibilità di trasformare la storia accettando di trasformare profondamente e radicalmente la propria vita. Scrive sul suo Diario: "Non sono gli avvenimenti che contano nella vita, conta solo ciò che grazie agli avvenimenti si diventa".
Etty sa bene di doversi continuamente sottrarre alla duplice tentazione della disperazione e dell'odio vendicativo, per essere sempre pronta a "spezzare il suo corpo come fosse pane e distribuirlo agli uomini": questo farsi mangiare da coloro che incontra sul suo cammino è stata per Etty una conquista pagata a caro prezzo, in cui la sua naturale tendenza alla seduzione si è trasformata in capacità di condivisione e di intercessione. Nelle prime pagine del suo Diario confessa ampiamente la sua ingordigia che la induce a voler possedere tutto ciò che le piace o l'aggrada: "Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo; la cosa era più difficile quando si trattava di un paesaggio intero". E di seguito aggiunge con un certo incanto: "Ora, d'un tratto, non è più così, anche se non so dire per quale processo interiore".
Forse il passo che meglio riassume questa singolare - e obiettivamente cristiana - "storia di un'anima" è quanto lei stessa scrive il 3 luglio 1943, a pochi mesi dalla morte: "Joopie, Klaas, cari amici, la miseria che c'è qui è veramente terribile - eppure la sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce - non ci posso fare niente, è così, è di una forza elementare - e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo nuovo. A ogni nuovo crimine e orrore dovremo opporre un pezzetto d'amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire, ma non dobbiamo soccombere".
Forse questo ultimo messaggio potrebbe essere il suo testamento spirituale: "Ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo, lo rende ancora più inospitale".
Ecco la Chiesa della Colomba e dell'Agnello: anziché vivere la sindrome della "cittadella assediata", si accredita come la città posta sul monte, aperta, invitante e ospitale. Anziché chiudersi nel silenzio o assumere atteggiamenti di crociata, sa entrare in dialogo con gli uomini del nostro tempo per mostrare con fatti di vangelo che il vangelo rende gli "umani" più umani; una Chiesa disposta anche a rinunciare ai suoi legittimi diritti, quando l'avanzarli offuscasse la sincerità della sua predicazione, come insegna autorevolmente il Vaticano II (cfr. GS 76). Essere discepoli della Colomba e dell'Agnello significa mettere al posto della furbizia l'innocenza, al posto della forza l'amore, al posto del prestigio la trasparenza.


Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2007

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