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II Domenica del Tempo Ordinario anno A. Riconoscere e rendere testimonianza a Gesù

Non dobbiamo mai pensare di avere una conoscenza, un’immagine di Gesù nostra definitivamente acquisita, ma dobbiamo sempre rinnovarla con l’assiduità al Vangelo. Altrimenti, se prevalgono le nostre proiezioni su di lui, anche Gesù può essere per noi un idolo. Non basta affermare: “Ciò che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Gesù”, occorre che sia il Gesù che è Vangelo e il Vangelo che è Gesù!

Terminato il tempo liturgico delle manifestazioni del Figlio di Dio fattosi uomo e venuto tra di noi, prima di riprendere con la lettura cursiva del vangelo secondo Matteo l’ordo liturgico ci fa sostare ancora su un’epifania di Gesù, una rivelazione a Israele tramite Giovanni il Battista (anno A), una rivelazione ai primi discepoli attraverso la chiamata (anno B), una rivelazione dell’alleanza nuziale tra lo Sposo Messia e la chiesa a Cana (anno C).

Il vangelo di questa domenica ci presenta la rivelazione che Giovanni il Battista riceve da Dio e fedelmente trasmette a quanti vanno da lui per ascoltarlo. Gesù è un discepolo di Giovanni, lo segue (opíso mou: Gv 1,27), stando al vangelo secondo Luca è un cugino nato poco dopo di lui (cf. Lc 1,36). Anche Giovanni è un dono che solo Dio poteva dare (cf. Lc 1,18-20), eppure non conosce l’identità più misteriosa e profonda di Gesù, come confessa: “Io non lo conoscevo”, in parallelo alle parole che aveva rivolto alle folle: “In mezzo a voi sta uno che non conoscete” (Gv 1,26). Solo una rivelazione da parte di Dio può fargli conoscere chi è veramente Gesù, al di là del suo essere “un veniente dietro a me” (Gv 1,26), come il Battista lo definisce.

Prima di essere un profeta, uno che parla a nome Dio, Giovanni è un ascoltatore della sua parola, esercitato a discernere l’azione di Dio, e per questo ha visto lo Spirito santo scendere dal cielo e posarsi su Gesù come colomba per rimanere su di lui. Sì, perché l’ascolto rende possibile la “visione”, l’esperienza dello Spirito santo che alza il velo, rivela e fa conoscere per grazia l’inconoscibile. Dalla non conoscenza alla conoscenza: questa è stata la dinamica della fede di Giovanni, che sempre si è posto domande su Gesù, fino a porle a Gesù stesso (cf. Mt 11,2-3; Lc 7,18-20), e sempre ha ascoltato, facendo obbedienza e rendendo testimonianza alla luce venuta nel mondo (cf. Gv 1,6-9). Due volte confessa: “Io non lo conoscevo”, eppure sa riconoscerlo. Anche la chiesa dovrebbe sempre ricordare e saper vivere questo atteggiamento di Giovanni, perché ancora oggi Gesù Cristo è presente nell’umanità che non lo conosce: come un rabdomante riconosce la presenza dell’acqua, così la chiesa deve riconoscere la presenza di Cristo nell’umanità, nelle culture, nella storia. Si tratta sempre di ascoltare la voce del Signore, di “vedere” l’umanità nel suo oggi, di discernere il Cristo sempre presente nell’umanità plasmata secondo la sua immagine di Figlio di Dio (cf. Col 1,15-17).

Quando Giovanni “vede” Gesù venire verso di lui, confessa ad alta voce: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”. L’“ecco” iniziale indica frequentemente una rivelazione (cf. Is 7,14; 42,1, ecc.). Gesù appare innanzitutto come un agnello, titolo presente solo nella letteratura giovannea (quarto vangelo e Apocalisse), ma non come un agnello guerriero che assume la difesa del gregge trionfando sui nemici, secondo l’immaginario diffuso nell’apocalittica giudaica di quel tempo, bensì come un mite agnello che porta e toglie il peccato del mondo. Le due parole “agnello” e “peccato” non sono molto presenti nel nostro linguaggio, anche se le cantiamo in ogni liturgia eucaristica. Sono parole ricche di significato, che vanno conosciute. L’agnello è segno della mitezza, della non aggressività, dell’essere vittima piuttosto che carnefice. Agli ebrei ricordava l’agnello pasquale, segno della liberazione, e l’agnello immolato ogni giorno al tempio, per ottenere l’assoluzione e il perdono del peccato del popolo. Poteva anche ricordare il Servo del Signore descritto da Isaia e Geremia come animale innocente, perseguitato e ucciso (cf. Is 53,7; Ger 11,19). Nella letteratura giovannea “agnello di Dio” è un titolo relativo a Gesù, che nell’innocenza di chi non ha peccato, nella mitezza di chi non ha mai commesso violenza, prende su di sé e quindi toglie da noi il peso del nostro cattivo operare, l’ingiustizia di cui tutti siamo responsabili. Questa la liberazione radicale che ci ha portato Gesù, l’Agnello della Pasqua unica e definitiva, l’Agnello che ci riconcilia con Dio per sempre.

Giovanni gli rende dunque testimonianza perché questa è la sua missione. Perciò proclama la propria esperienza: “Ho contemplato lo Spirito discendere e rimanere su di lui”. Questa esperienza corrisponde a una parola ricevuta in anticipo da Dio: “L’uomo sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito santo”. Egli aveva solo immerso nell’acqua per preparare la venuta del Signore: anche il Signore immergerà, ma nel fuoco dello Spirito santo (cf. Mc 1,8 e par.). E la testimonianza risuona con forza: “Sì, io visto e ho rendo testimonianza che questi è il Figlio di Dio, l’Eletto di Dio”. Questa la vera conoscenza di Gesù da parte di Giovanni, conoscenza non acquisita una volta per tutte ma sempre da rinnovare, come ricordano gli altri vangeli (cf. Mt 11,2-6; Lc 7,18-23).

E ciò vale anche per noi: non dobbiamo mai pensare di avere una conoscenza, un’immagine di Gesù nostra definitivamente acquisita, ma dobbiamo sempre rinnovarla con l’assiduità al Vangelo. Altrimenti, se prevalgono le nostre proiezioni su di lui, anche Gesù può essere per noi un idolo. Non basta affermare: “Ciò che abbiamo di più caro nel cristianesimo è Gesù”, occorre che sia il Gesù che è Vangelo e il Vangelo che è Gesù! Il rischio è confessare un Gesù nostro idolo, manufatto da noi. Solo la confessione che non conosciamo pienamente Gesù ci spinge a conoscerlo invocando la sua rivelazione da parte di Dio.

 Enzo Bianchi

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