III Domenica di Quaresima anno C. Se non vi convertirete...
Perirete tutti allo stesso modo
1. Mentre Gesù sta parlando, qualcuno lo mette al corrente di una notizia sconvolgente: un gruppo di Galilei, probabilmente rivoluzionari, sono stati massacrati dal sanguinario procuratore romano Ponzio Pilato, mentre stavano compiendo un sacrificio di culto. Alla mente dei presenti si affaccia il ricordo ancora vivo di un'altra disgrazia: diciotto operai che lavoravano per il tempio, furono seppelliti sotto il crollo di una torre. Fatti di sangue, racconti di morte, grandi domande: dov'era Dio? È Dio che ha guidato la spada di Pilato? È Dio che aveva fatto franare il terreno sotto la torre templare?
Seguendo la concezione corrente della retribuzione temporale, gli ascoltatori di Gesù hanno metabolizzato quei tragici avvenimenti inquadrandoli nelle mappe securizzanti di una ragione comandata dalla superstizione: se quegli uomini sono morti così crudelmente, è segno che Dio li ha castigati; se sono stati castigati, è segno che erano peccatori. E il fatto di essere stati risparmiati personalmente rassicura quegli ascoltatori sulla loro giustizia. Gesù rifiuta questa visione semplicistica e prende le difese sia di Dio sia degli uccisi: non è Dio che arma la mano di Pilato; non è Dio che aggiunge sangue a sangue, che abbatte torri e grattacieli; non ci sono colpe segrete da punire. Quegli uomini non erano peggiori degli altri. Quelle disgrazie sono un avvertimento indirizzato a tutti: tutti sono peccatori; il giudizio di Dio non è per alcuni, ma per tutti; non è per gli altri, ma per noi. O ci convertiamo o ci pervertiamo.
2. Andiamo da Gesù a porre problemi e veniamo provocati a guardarci dentro. Abbiamo visto due torri crollare l'11 settembre del 2001, ma vi abbiamo letto solo un evento storico, riguardante altri come responsabili o complici o vittime. Noi abbiamo posto solo le domande: dov'era Dio quel giorno? Dov'erano i mandanti? Senza rubare il mestiere né al ministro degli esteri né a quello degli interni, il Signore Gesù ci pone davanti alla domanda radicale: dov'eravamo noi? Dove siamo noi? Se non vi convertirete, perirete tutti... Se il nostro cuore non cambia, se non facciamo una radicale inversione ad u, se io, tu, noi non imbocchiamo la strada del vangelo, insomma se l'uomo non si converte, l'ecatombe sarà la conclusione inevitabile di questa folle corsa verso l'autodistruzione universale. Se non vi convertirete, perirete tutti... Forse non nel fragore delle torri gemelle, ma nel dramma oscuro della sterilità, della noia, della depressione.
Ma insomma, da che cosa dovremmo convertirci? Non siamo forse della brava gente, non siamo forse cattolici credenti e praticanti? Ci soccorre ancora una volta D. Bonhoeffer: "Il contrario della fede non è l'incredulità; è l'idolatria". Già s. Paolo parlava della conversione dei pagani come un "allontanarsi dagli idoli per servire il Dio vivo e vero" (1Ts 1,9). Ecco: ma che cos'è l'idolatria? Nell'opinione comune, mentre la vera fede adora un solo Dio, l'idolatria adora molti dèi. Ma nella Bibbia l'idolatria è qualcosa di più sottile e di più subdolo: non è tanto piegare il ginocchio davanti a una statuetta d‘oro o di legno; non è neanche adorare il vitello d'oro; è piuttosto ergere il proprio Io al posto di Dio. Al fondo di ogni idolatria, c'è l'autolatria, "l'amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio" (s. Agostino). Poi questa idolatria si concretizzerà nel mettere al posto di Dio - o affianco a Dio - il Dio danaro, il Dio piacere, la dea immagine, la dea efficienza, il Dio successo... Di qui il "correre, competere, confliggere".
4. E non c'è anche il "contemplare"? No, fratello, sorella: prima della contemplazione, viene la conversione. Perché se contemplare è vedere Dio, dobbiamo ricordare che solo i puri di cuore vedranno Dio. "Ma voi che ci vedete, cosa ne avete fatto della luce?", dice la protagonista cieca di un dramma di Paul Claudel. Noi vediamo o diciamo di vedere; noi crediamo o crediamo di credere. Che cosa ne stiamo facendo del dono della fede?
Stanno venendo tempi - e sono già venuti - in cui essere cristiani è sinonimo di missionari, tanto diventa poco concepibile un cristiano che non è in stato di missione. O missionari - scriveva Madeleine Delbrel - o... dimissionari!
Non si è cristiani per soddisfare i propri bisogni religiosi, per trovare un senso alla propria vita, per dare una direzione alla propria esistenza. Si è cristiani perché si è stati scelti per essere "luce delle genti", per "annunciare le grandezze di Dio", per dire agli uomini le meraviglie che Dio continua ad operare in mezzo a noi, per portare agli altri l'amore di cui si è amati, per farli godere della propria sorte, per amarli "come se stessi", per donarsi a loro. La missione non è solo l'annuncio di un dono, ma un dono che si fa annuncio.
5. Oggi Gesù insiste: Se non vi convertirete, tutti allo stesso modo perirete. Quando noi sentiamo dire "conversione", pensiamo subito a cose da fare, a impegni da assumere, a rinunce da praticare. Tutto questo è vero, ma è successivo e derivato: se conversione è letteralmente "voltarsi verso", all'origine della conversione c'è l'esperienza di un incontro e la contemplazione di un volto: l'incontro con Dio, la contemplazione del suo volto.
Così è avvenuto per Mosè (1ª lettura): era fuggito dall'Egitto, braccato dagli aguzzini del faraone e deluso dei suoi connazionali, perché in precedenza si era illuso che avrebbero finalmente capito che "Dio dava loro salvezza per mezzo suo" (At 7,25). Nel deserto di Madian Mosè si era ridotto a vita privata, adattandosi al ritmo tranquillo di un pastore agiato e soddisfatto, con tanto di moglie e figli. Adesso, a quarant'anni suonati, sta per scoccare l'ora x della sua missione: dovrà lasciare il deserto e tornare nuovamente in Egitto proprio lui, "quel Mosè che i suoi connazionali avevano rinnegato dicendo: Chi ti ha nominato capo e giudice?" (At 7,35). Questa è la conversione di Mosè: una vera "inversione a U", dal deserto di Madian all'Egitto, dove pendeva una condanna sul suo capo. Ma prima ancora Mosè deve "convertirsi" al Dio unico, vivo e vero.
6. Cosa aggiunge il Nuovo Testamento alla rivelazione di Dio, già presente nell'Antico? Aggiunge un massimo vertiginoso, del tutto inimmaginabile: un volto d'uomo e un cuore di carne, il volto e il cuore di Gesù. Nessun ebreo prima di Gesù, neanche l'ardente Osea o il dolcissimo Deutero-Isaia, poteva sospettare fino a che punto Dio avrebbe spinto il suo amore per il mondo: "Dio ha tanto amato il mondo fino al punto da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3,16) e questo Figlio "dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine" (Gv 13,1).
A questo volto santo di Dio-Amore - amore gratuito, fedele, misericordioso - siamo chiamati a prestare i lineamenti del nostro volto. Altrimenti facciamo bestemmiare il suo santo Nome (cfr. Rm 2,24), quando con il nostro comportamento finiamo per "velare più che svelare il genuino volto di Dio" (GS 19).
Noi finiamo per velare il volto del Dio fedele e affidabile quando non ci fidiamo di lui e siamo come i pagani, sempre in affanno per il nostro domani. Deformiamo il volto dell'Amore gratuito quando mettiamo al di sopra di tutti e di tutto i nostri interessi meschini e il nostro effimero successo. Nascondiamo il volto del Dio misericordioso dietro una maschera repellente, quando con il pretesto che perdonare si deve ma dimenticare non si può, dimentichiamo il bene ricevuto e coltiviamo rancore e rabbia per il male ubito. Gli altri allora potrebbero dirci: "Dov'è il vostro Dio? Se non ce lo fate vedere in voi, non ci crediamo e non ci crederemo mai!".
Commento di Mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2009
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