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IV Domenica di Pasqua anno A. Gesù, il pastore bello e buono

La manifestazione della venuta “pastorale” di Gesù non consiste nelle idee, nella dottrina, nel solo insegnamento, ma nel suo deporre e spendere la vita per le pecore. Se nei vangeli sinottici il pastore della parabola è pieno di amore, fino ad andare a cercare la pecora smarrita, qui Gesù è il pastore che dà la sua vita sia per la pecora smarrita sia per quella che resta nel recinto. Viene così individuato il rapporto tra il pastore e le pecore: una conoscenza reciproca che diventa amore. Esperienza indicibile, eppure autentica, nella quale si ascolta la voce del pastore, si giunge a discernere la sua presenza elusiva, ma soprattutto ci si sente amati, compresi, perdonati da un amore che è sempre anche misericordia

Al tempo di Gesù i pastori erano presenti ovunque in Palestina e li si incontrava nelle campagne e nelle città, nelle pianure e sui monti. La figura del pastore era nota e si conoscevano i luoghi nei quali di giorno o di notte stava con le pecore, che fornivano latte, carne e formaggio. Nella Bibbia la figura del pastore è molto presente non solo come protagonista della narrazione, ma anche come parabola e tipologia. Sicché Dio, il Signore, è chiamato e riconosciuto come “Pastore d’Israele” (Sal 80,2), il suo popolo è detto “suo gregge” (cf. Sal 78,52; 95,7; 100,3), pecore che sono la sua proprietà. Le diverse situazioni in cui possono venire a trovarsi il pastore e il gregge servono pertanto a descrivere concrete condizioni storiche, quale lettura dei rapporti tra Dio e il suo popolo.

Dio è il Pastore, ma affinché questa sua qualità sia riconosciuta dai credenti, egli invia al suo gregge dei pastori, scelti “perché la comunità del Signore non sia un gregge senza pastore” (Nm 27,17). Ma questi pastori a volte diventano infedeli alla loro missione, diventano “cattivi pastori”; nello stesso tempo, altri che non sono stati inviati da Dio “si fanno pastori”, assumendo una funzione di servizio finalizzata in realtà al perseguimento dei propri fini. I profeti hanno più volte denunciato queste situazioni, nelle quali il popolo del Signore geme e soffre, ma hanno anche annunciato la venuta di Dio o del suo Messia quale pastore delle sue pecore (cf. Ger 23,1-6; 31,10; Ez 34,1-31).

Nel quarto vangelo, mentre Gesù si trova a Gerusalemme per celebrare la festa della Dedicazione del tempio, viene descritto uno scontro tra Gesù stesso e alcuni farisei, dopo la guarigione da parte sua in giorno di sabato di un cieco nato (cf. Gv 9). Grazie alla fede in Gesù, il cieco giunge a vedere, mentre le guide religiose appaiono cieche, incapaci di riconoscere in lui la missione di Dio. Gesù afferma dunque di essere venuto ad aprire un processo che manifesterà chi è cieco e chi invece vede, chi resta nell’incredulità e chi invece giunge alla luce (cf. Gv 9,40-41).

Questo però costituisce un esodo, un’uscita dal sistema religioso giudaico verso la comunità che aderisce a Gesù. La pretesa di Gesù è lampante e scandalosa, come ci viene presentata dalle espressioni che la comunità giovannea ha forgiato a partire dalle sue parole e azioni, contemplate, meditate e interpretate. Il discorso di Gesù è organizzato attorno alla formulazione di una paroimía (Gv 10,6), ossia di un enigma costruito per immagini (cf. Gv 10,1-6), cui segue la spiegazione che lo risolve in mistero di fede (cf. Gv 10,7-18) e infine una conclusione (cf. Gv 10,19-21).

Ecco dunque l’enigma: “Amen, amen io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante”. Le solenni parole di Gesù mettono in rilievo un’opposizione: vi sono quelli che entrano nel recinto del gregge non attraverso la porta, che è sorvegliata, ma scavalcando il recinto. Questi sono i ladri e i briganti: le pecore non appartengono a loro, ma essi vogliono impossessarsene. Sono ladri perché rubano e sono briganti, che possono entrare nel recinto solo con l’inganno; sono in realtà lupi (cf. At 20,28-30), falsi pastori che non si curano dei bisogni delle pecore ma pensano solo a se stessi.

Invece “il pastore delle pecore entra attraverso la porta” e il guardiano posto all’ingresso del recinto lo riconosce e gli apre; allora “le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori”. Gesù è questo pastore e il Padre è il guardiano che gli apre. È infatti il Padre che gli ha dato le pecore (cf. Gv 17,6-8), che lo ha inviato (cf. Gv 8,16.42), che gli ha messo tutte nelle mani (cf. Gv 3,35; 5,22). Dunque il Padre riconosce Gesù come pastore unico del gregge, e così fanno anche le pecore: esse riconoscono la sua voce, la ascoltano ed esultano, sentendosi da lui chiamate ciascuna con il proprio nome.

Gesù ha un compito preciso: chiamando le pecore per nome, le fa “uscire”, fa compiere loro un esodo dal recinto ai pascoli aperti, alla libertà. Questa azione è più del far uscire di Mosè dall’Egitto verso la terra promessa, perché è un far uscire dalla schiavitù alla libertà, dalla morte alla vita per sempre. In queste poche parole è delineato tutto il cammino del discepolo, pecora del gregge di Gesù: deve ascoltare la voce del pastore, deve riconoscerla come parola per sé, deve dunque conoscere il pastore e quindi seguirlo verso i pascoli della libertà, in vista di una “vita in abbondanza”.

Il pastore si definisce poi anche “porta”. L’enigma viene così spiegato mediante due affermazioni: “io sono la porta ” (Gv 10,7.9) e “io sono il buon pastore” (Gv 10,11.14). Si faccia attenzione: Gesù non dice di essere la porta del recinto, ma la porta delle pecore! Egli non è una porta che fa accedere a un recinto, a un’istituzione, ma una porta a servizio delle pecore. Nell’Antico Testamento l’immagine della porta è rivelativa di un passaggio verso il cielo (cf. Gen 28,17), di un passaggio per accedere alla presenza del Signore, alla sua Shekinah, nel tempio (cf. Is 60,11; Sal 118,19-20); ma qui è Gesù che diventa porta piccola e stretta (cf. Mt 7,13-14; Lc 13,24), unica via di entrata e di uscita verso Dio, il Padre.

Venuta la pienezza dei tempi, quando “si adora Dio in Spirito e Verità” (cf. Gv 4,23-24), Gesù è ormai l’unico accesso a Dio, l’unica via per far parte del gregge del Signore: è una porta aperta su uno spazio senza limiti. Negli ultimi discorsi ai suoi discepoli dirà: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), parole che esplicitano l’affermazione: “Io sono la porta”, che esprimono e sono il cammino che conduce alla conoscenza di Dio e dunque alla vita per sempre (cf. Gv 17,3). Queste parole di Gesù ci possono sorprendere e anche destabilizzare: com’è possibile che un uomo abbia vantato simili pretese? Eppure Giovanni mette in bocca a Gesù tali rivelazioni, perché così vuole la fede in colui che è il Figlio di Dio, il Messia venuto nel mondo.

Ecco allora la richiesta di discernimento su quanti sono venuti prima di Gesù, con la pretesa di essere pastori inviati da Dio: molti sono già venuti, ma erano ladri, briganti, estranei “venuti per rubare e sacrificare” (Gv 10,10), come dice letteralmente il testo (verbo thýo). Gesù non delegittima certo i “pastori” inviati da Dio – da Abramo fino ai profeti –, ma i falsi Messia, come aveva ben inteso già Ignazio di Antiochia: “Cristo è la porta del Padre, attraverso la quale sono entrati Abramo, Isacco, Giacobbe, i profeti, gli apostoli e la chiesa” (Ai filadelfesi 9).

In ogni tempo appaiono nel mondo e anche nella chiesa pretesi “unti”, falsi inviati, che Dio non ha mandato, uomini e donne che imputano al Signore le loro elucubrazioni, ma sono sempre riconoscibili da chi è credente attento in Gesù: non stanno in mezzo al gregge, ma al di sopra; non conoscono le pecore per nome, ma vogliono solo comandarle; non proteggono la pecora debole, ma la abbandonano; non vanno alla ricerca della pecora perduta, ma preferiscono stare con le altre dentro al recinto.

Gesù è dunque la porta da attraversare in libertà per andare e venire, per spingersi verso i pascoli del cielo e rientrare al riparo quando sopraggiunge la minaccia. È una porta di salvezza, che dona una salvezza non transitoria, come quella che talvolta gli umani si danno nella storia. Di conseguenza, è anche il pastore che desidera per le pecore una cosa sola: “la vita in abbondanza”. Per questo le fa uscire in libertà, su cammini di esodo nei quali si aprono orizzonti nuovi e si conoscono nuovi pascoli. Ecco la libertà dei figli di Dio, nella quale c’è anche protezione, perché – dice Gesù – “nessuno può rapire le mie pecore dalla mia mano” (Gv 10,28).

L’altra spiegazione dell’enigma consiste nell’autorivelazione di Gesù quale “pastore bello e buono”: “Io sono il pastore bello e buono (kalós), che depone la propria vita per le pecore” (Gv 10,11). La manifestazione della venuta “pastorale” di Gesù non consiste nelle idee, nella dottrina, nel solo insegnamento, ma nel deporre e spendere la vita per le pecore. Se Dio era cantato nel salmo quale Pastore del credente al quale nulla manca (cf. Sal 23,1), Gesù dice di sé che egli stesso dà la sua vita per le pecore. E se nei vangeli sinottici il pastore della parabola era pieno di amore, fino ad andare a cercare la pecora smarrita per riportarla a casa (cf. Mt 18,12-14; Lc 15,4-7), qui il pastore dà la sua vita sia per la pecora smarrita sia per quella che resta nel recinto.

Viene così individuato il rapporto tra il pastore e le pecore: una conoscenza reciproca che diventa amore, una conoscenza penetrativa attraverso la quale il pastore conosce le pecore in profondità nelle quali esse stesse non giungono a conoscersi; e le pecore giungono a riconoscere il pastore come colui che ha cura di loro perché le ama. Esperienza indicibile, eppure autentica, nella quale si ascolta la voce del pastore, si giunge a discernere la sua presenza elusiva, ma soprattutto ci si sente amati, compresi, perdonati da un amore che è sempre anche misericordia.

Ma accanto al buon pastore appare anche “il pastore salariato” (Gv 10,12), che svolge il suo compito e realizza il suo lavoro solo per il salario. Molti erano i pastori di questo tipo al tempo di Gesù e molti sono ancora oggi: non sono cattivi, non fanno del male, non rubano al popolo di Dio né lo maltrattano, ma sono meri funzionari! Se la chiesa fosse una macchina, potrebbe anche andare avanti così; ma la chiesa è il gregge del Signore, è una realtà viva, un corpo nel quale, se non c’è l’amore gratuito, avviene un triste sfiguramento. Il pastore salariato adempie il suo mestiere per quanto è pagato; per questo, se vede arrivare il lupo, pensa a salvare se stesso, non le pecore (cf. Gv 10,12-13). Gesù invece no! La sua missione di pastore è motivata solo dall’amore, e il Padre lo ama proprio per questo: perché sa donare la vita per le pecore, per poi riceverla di nuovo da lui (cf. Gv 10,14-15.17-18). La sua missione di dare e spendere la vita è indirizzata a tutti gli esseri umani, anche a quelli che appartengono ad altri ovili, non solo a quello di Israele. Verrà il giorno in cui anche queste pecore provenienti dalle genti potranno ascoltare la voce di Cristo e così divenire pecore del gregge che è il suo (cf. Gv 10,16): di lui, il solo pastore dell’umanità, di tutta la creazione.

 Enzo Bianchi

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