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IV Domenica di Quaresima anno C

Questa è la conversione: credere all’amore di Dio per noi e accogliere con un cuore libero la sua inesauribile misericordia. Solo così potremo usare a nostra volta misericordia verso gli altri

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Nel brano evangelico odierno Gesù annuncia la misericordia gratuita e preveniente di Dio, forza capace di convertire le nostre vite. E lo fa con una delle parabole più note, che i padri della chiesa definivano «il Vangelo nel Vangelo»: la cosiddetta parabola del «figlio prodigo», meglio definibile come parabola del «Padre prodigo d’amore»

Il brano evangelico che la contiene si apre così: «Si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori. I farisei e gli scribi mormoravano: “Costui riceve i peccatori e mangia con loro”. Allora Gesù disse loro questa parabola…». Gesù spiega la sua preferenza per la compagnia dei peccatori manifesti, quella che aveva portato gli «uomini religiosi» ad accusarlo di essere «amico dei pubblicani e dei peccatori» (Lc 7,34). Essi, così ciechi da non riconoscersi peccatori, non capivano che Gesù era «venuto a cercare e a salvare ciò che è perduto» (cf. Lc 19,10): chi più di un peccatore pubblicamente riconosciuto, additato come «perduto», può desiderare di cambiare? Egli è il segno manifesto della condizione di ciascuno di noi: Dio attende solo che ci riconosciamo peccatori e accettiamo che egli ricopra le nostre cadute con la sua inesauribile misericordia. È quanto Gesù afferma a conclusione delle due piccole parabole che precedono la nostra: «Vi è più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7; cf. 15,10).

«Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: “Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta”. E il padre divise tra loro le sostanze». Chiedendo al padre la propria parte di eredità è come se il figlio lo dichiarasse morto; ma il padre acconsente, lascia che il figlio calpesti il suo amore. E così il figlio «parte per un paese lontano, dove sperpera le sue sostanze vivendo in modo insensato». La via imboccata si rivela mortifera, e ben presto, trovandosi nel bisogno, egli si vede costretto a pascolare i porci (animali impuri per eccellenza, per gli ebrei). «Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava»: potrebbe prenderne da solo, ma ciò che gli manca è qualcuno che condivida il cibo con lui, che glielo doni in una relazione d’amore… Allora «rientra in se stesso»: non si tratta di un moto di conversione, ma della presa di coscienza della sua condizione penosa. Il giovane pensa: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: “Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni”». Nessun pentimento lo muove, ma solo una valutazione opportunistica di ciò che è più conveniente. Egli continua a ragionare in una logica di giustizia retributiva: davvero non conosce il cuore del padre.

E qui la parabola arriva al suo apice: «Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano, il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò». Poi il padre ordina ai servi di rivestirlo con l’abito più bello, di mettergli l’anello al dito, i calzari ai piedi e di ammazzare il vitello grasso: deve cominciare una grande festa, perché – egli dice - «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». Travolto da questa misericordia sovrabbondante, il figlio riesce solo a dire poche delle parole che si era preparato: è in questo momento che egli comprende che il padre non solo l’ha sempre atteso, ma lo ha amato mentre egli lo odiava, «quando era ancora lontano». Ecco la rivelazione sconvolgente, sintetizzata in quell’abbraccio pieno di amore che lo converte: Dio non ama il peccato degli uomini, ma ci ama nel nostro peccato, ci ama mentre noi siamo suoi nemici (cf. Rm 5,6-10).

La parabola potrebbe finire qui, ma Gesù vuole rivelarci anche la reazione del fratello maggiore, il quale si dimostra incapace quanto l’altro di comprendere l’amore del padre. Egli è rimasto a casa, vivendo da schiavo, non da figlio (cf. Gv 8,35); solo per paura non ha mai trasgredito un comando del padre. Ora è adirato, non si capacita che il padre possa fare festa per suo fratello: e così esce allo scoperto, rivelando la vera immagine del padre-padrone che abita il suo cuore nonché il disprezzo verso il fratello («questo tuo figlio»). Pure a lui il padre esce incontro, pregandolo di entrare alla festa: «bisogna fare festa, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»…

Sì, l’atteggiamento dei due fratelli è un invito a verificare la nostra risposta alla misericordia del Padre, rivelatasi definitivamente in Gesù Cristo, l’unica forza realmente in grado di convertirci. Questa infatti è la conversione: credere all’amore di Dio per noi e accogliere con un cuore libero la sua inesauribile misericordia. Solo così potremo usare a nostra volta misericordia verso gli altri uomini, tutti nostri fratelli.

 

Enzo Bianchi

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