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V Domenica del Tempo Ordinario - Prendi il largo!

Nel mistero della barca splende il mistero stesso di Cristo: in essa egli opera con la parola (annuncia ‑ lancia inviti) e con la potenza della sua persona (compie il miracolo); e ciò che ne risulta è una nuova dimensione della storia.

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La chiamata

 

Per Luca, la circostanza esterna della vocazione dei primi discepoli è data da una «predica sul lago», fatta dalla barca di Pietro. Questa barca è certamente un elemento centrale nella scena. Da essa viene fatto un annuncio da Cristo stesso alla folla ammassata sulla riva. Da essa Gesù ordina perentoriamente a Pietro di gettare le reti. Da essa viene l’obbedienza cordiale dei tre uomini che la governano, che possono essere visti come la primizia di un’umanità che si dona con fiducia alla parola del Maestro: il loro agire, infatti, non si basa sulle apparenze e sulla logica razionale (non si pesca di giorno, e per di più dove poco prima non si era preso niente), ma si fonda sulla fiducia nella parola di colui che è riconosciuto come unico maestro.

Con questa barca si realizza una pesca straordinaria, il cui risultato va oltre le possibilità della barca stessa tanto che bisogna chiamarne un’altra in aiuto. In essa si esplica l’atto di fede in Gesù. Da essa viene un preciso appello a un modo totalmente nuovo di essere «pescatori».

Andando un po’ al di là dei fatti esterni, si può dire che in questa barca si vive un quotidiano che oscilla tra i fatti e l’evento che si cela dietro di essi, tra il mistero e i suoi segni di manifestazione: ciò che avviene in questa barca è più profondo di ciò che si vede con gli occhi del corpo. Nel mistero della barca splende il mistero stesso di Cristo: in essa egli opera con la parola (annuncia ‑ lancia inviti) e con la potenza della sua persona (compie il miracolo); e ciò che ne risulta è una nuova dimensione della storia. Gli uomini si qualificano e ricevono un’identità nuova: Simone (v. 3) diventa Simon Pietro (v. 8); egli e i suoi amici diventano «pescatori di uomini», scoprendo un’identità precisa: seguire Cristo svolgendo un compito ben definito nei confronti degli altri uomini.

La vocazione del cristiano può specificarsi su mille strade diverse, ma il fondamento è sempre lo stesso: la sequela di Cristo in un compito per l’uomo. Dal missionario al contemplativo non vi può essere radice vocazionale diversa, pena lo scadere in un misticismo disincarnato o in un impegno sociale tutto orizzontale.

 

L’esperienza mistica

 

Isaia sembra prendere il discorso a questo punto per condurlo avanti: ogni chiamato ha da percorrere un suo cammino di iniziazione, acquistando una profonda familiarità con Dio attraverso un dialogo appassionato. La descrizione della vocazione del profeta ci aiuta a capire tale cammino.

Mentre sta vivendo in maniera estatica una funzione religiosa nel tempio, Isaia percepisce in modo del tutto particolare la presenza di Dio: i canti, l’incenso, le vesti dei sacerdoti, la maestosità del rito, tutto concorre a rapire il suo cuore verso una sfera mistica in cui ciò che percepisce si trasforma in visione interiore: è come se egli fosse introdotto alla corte celeste, che acclama il Signore tre volte santo. Al profeta si aprono i sensi della contemplazione e il suo cuore si sente conquistato e rapito da Dio, che gli si svela come santo e glorioso. E d’improvviso questa percezione immediata della trascendenza, della santità, della gloria di Dio gli fa toccare con mano quale sia l’impurità sua e del popolo: l’esperienza di Dio apre gli occhi sulla vera situazione dell’uomo. E il profeta ha paura: si sente inadeguato al compito profetico. L’idea di fare da tramite tra la santità di Dio e l’impurità del popolo con i suoi mezzi impuri lo sgomenta. Ma colui che si rivela è anche colui che rende simili a sé e purifica col suo fuoco inestinguibile. Dopo di che Isaia dice: «Eccomi, manda me!».

In questi passaggi dell’esperienza del profeta c’è tutto il maturarsi di una vocazione: la prima percezione ed esperienza estatica di Dio, colorata di molta poesia; la crisi successiva che sopravviene quando l’uomo entra sempre più nel mistero di comunione con Dio, che gli si rivela come santità, e nel mistero dell’uomo che gli si rivela come storia di peccato e di abiezione. La crisi è proprio nel dubbio che possa esserci una mediazione possibile tra questi due mondi. Ma Dio ritorna alla carica e riprende in mano l’iniziativa: il fuoco sacro passa attraverso le labbra e giunge al cuore dell’uomo; pian piano questi entra in sintonia con Dio: ora l’uomo sente meno il peso del peccato e sente di più il fuoco di Dio, per cui si sente adeguato al compito non per una sua preparazione umana, ma per quanto Dio gli ha comunicato. Le parole «eccomi, manda me» non sono il segno della presunzione di un uomo ma della sovrabbondanza del dono di Dio. Ora il profeta ha trovato il giusto posto per collocarsi tra Dio e l’uomo; gli manca una sola cosa: il contenuto dell’annuncio.

 

L’Annuncio missionario

 

L’annuncio profetico dell’apostolo è una parola ricevuta gelosamente in custodia ed altrettanto gelosamente trasmessa. E quanto dice Paolo nella seconda lettura: «Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto» (v. 3). L’apostolo è legato a una fonte alla quale prima di tutti egli stesso si è dissetato, e trasmette quanto ha ricevuto. Tra l’accogliere e il trasmettere c’è la sua vita, che è frutto e sintesi di questi due verbi: coniugando con la vita il ricevere e il trasmettere, il cristiano matura e si costituisce anello di congiunzione in quella catena misteriosa che è il cammino di discepolato.

Il mistero di Cristo costituisce il contenuto di questa «traditio»: Cristo ‑morto per i nostri peccati ‑ risorto ‑ apparso ai dodici. E’ lo stesso contenuto del discorso di Pietro dopo la guarigione dello storpio: «Voi avete ucciso l’autore della vita. Ma Dio l’ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni» (At 3,15). E’ una formula tanto sintetica quanto densa e completa nel contenuto; in essa c’è tutto il mistero di Gesù, della sua identità personale e della sua storia, e c’è tutta l’implicanza ecclesiale.

Ciò che rende vera la vocazione di ognuno, ciò che dà ad ogni cristiano la fisionomia di un chiamato (al di là delle innumerevoli specificazioni vocazionali) è la capacità di testimoniare il «risorto». Infatti il messaggio di Cristo risorto fa presa sull’uomo non tanto per via di convinzione, ma per via di conversione: l’uomo crederà alla risurrezione non per le nostre parole, ma per la nostra vita. Se siamo capaci di mostrare che egli ci rende vivi, l’uomo crederà ad un futuro di vita; il corpo risorto di Cristo oggi è nelle membra dei suoi discepoli; se queste membra vivono la vivacità dell’amore, renderanno credibile il messaggio di vita di Cristo. E sarà questo il compito più alto che si possa assolvere nella fedeltà a Dio e all’uomo.

 

Dio di infinita grandezza, che affidi alle nostre labbra impure e alle nostre fragili mani il compito di portare agli uomini l’annunzio del vangelo, sostienici con il tuo Spirito, perché la tua parola, accolta da cuori aperti e generosi, fruttifichi in ogni parte della terra.

 

 

Fonte: www.dehoniane.it

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