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V Domenica di Pasqua anno C. “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”

C’è nell’amore cristiano una forma, uno stile determinato da Gesù e da lui testimoniato nei vangeli. Se Gesù è maestro, lo è soprattutto nell’arte dell’amare. È facile parlare di amore o credere di vivere l’amore, ma viverlo come lo ha vissuto Gesù, a prezzo del dono della vita, è arte, è un capolavoro di amore, quindi è manifestazione della gloria di Dio che è gloria dell’amare. Il discepolo di Gesù, infatti, non si distingue perché prega, perché fa miracoli, o perché ha una sapienza raffinata: no, si distingue perché ama, ama gli altri come Gesù li ha amati, “fino all’estremo”

Nel vangelo secondo Giovanni è sempre il Risorto, il Cristo Signore che parla e agisce, sicché questo testo vuole mostrarci il Cristo in mezzo a noi che, nella sua gloria, continua a consegnarci le parole essenziali per comprendere e partecipare al mistero dell’umanizzazione di Dio. Cosa annuncia alla chiesa il Cristo risorto e vivente? Che è lui il pastore buono e noi le sue pecore (IV domenica di Pasqua), che ci ha lasciato un comandamento ultimo e definitivo (V domenica), che ci dona lo Spirito consolatore (VI domenica), che accanto al Padre intercede per noi (VII domenica).

Sostiamo dunque sul brano liturgico odierno, tratto dai “discorsi di addio” che il quarto vangelo estende per ben quattro capitoli (cf. Gv 13,31-16,33). Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli, per rivelarsi quale Signore e Maestro che si fa servo fino a dare la vita per loro (cf. Gv 13,1-20), poi ha annunciato il tradimento da parte di uno dei Dodici, Giuda (cf. Gv 13,21-30). Perché quest’ultimo è giunto a tanto? Solo Dio conosce l’abisso del cuore umano (cf. Ger 11,20; 12,3; 17,9-10; 20,12), ma noi possiamo supporre che Giuda non abbia agito per sete di denaro, anche se il quarto vangelo lo descrive come ladro e attaccato ai soldi (cf. Gv 12,6): per consegnare il proprio maestro occorreva una ragione più forte di trenta denari… Possiamo invece pensare che Giuda abbia fatto arrestare Gesù perché era cresciuto dentro di lui il rancore nei suoi confronti. Chiamato da Gesù, lo aveva seguito, ma poi si era accorto che il Dio rivelato da Gesù non era conforme alla sua immagine di Dio: ciò che Gesù faceva e diceva, sembrava sempre di più una contraddizione alla fede ricevuta dai padri, dunque egli era giunto a ritenerlo un “eretico” da eliminare, affinché la fede ne traesse giovamento. Non ci può essere altra ragione se non un odio religioso, perché nei vangeli non ci sono segni di relazioni personali ferite né di un “io minimo” da parte di Giuda.

Ormai Gesù, conoscendo la reazione interiore di Giuda ai suoi gesti e alle sue parole, si sentiva inibito ad agire e a parlare, a dire tutto in confidenza e libertà. Quando vi è la presenza di qualcuno che ha “l’occhio cattivo” (Mt 20,15) e nel suo essere tiene vivo il pregiudizio che diventa efficace prima ancora di aver ascoltato; quando qualcuno cova il rancore, allora è meglio tacere, non per blocco psicologico, ma per “sottomissione” (eulábeia: Eb 5,7). Ecco perché sta scritto all’inizio del nostro brano: “Quando (Giuda) fu uscito, Gesù disse…”. Ormai Gesù è libero di parlare con parrhesía, e rivela: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito”.

Ora ha inizio la glorificazione di Gesù e insieme la glorificazione di Dio in Gesù stesso, perché il tradimento nei confronti di Gesù e la sua consegna in mano a quelli che lo uccideranno non è una sconfitta ma un evento di gloria. Sì, è difficile capire questa visione “al contrario” della realtà, ma bisogna esercitarsi ad avere una visione degli eventi che non è la nostra, bensì quella di Dio. E cosa vede Dio? Che nel Figlio consegnato splende più che mai l’amore di Gesù e anche il suo proprio amore, quello di chi lascia che tale consegna avvenga. Allo stesso modo, lo sguardo di Gesù sulla sua passione ormai iniziata con l’uscita di Giuda dal cenacolo non è uno sguardo che venga da carne e sangue (cf. Gv 1,13), cioè dalla capacità umana, ma viene per rivelazione da Dio stesso. Gesù sa che “non c’è amore più grande che dare la vita per gli amici” (cf. Gv 15,13), e allora con l’uscita inarrestabile di Giuda ecco l’epifania dell’amore, la gloria dell’amante che splende e si impone. La croce è gloria non perché sia strumento di dolore, ma perché è il segno della fine inflitta a chi ha amato, a chi è giusto, a chi liberamente e per amore ha deposto la propria vita per gli altri. Presto questa glorificazione si manifesterà mediante l’intervento di Dio, che darà al Figlio la propria gloria risuscitandolo da morte. Così Gesù interpreta per i discepoli gli eventi delle ore successive: non una sconfitta, non un fallimento, ma una manifestazione della gloria di Dio, nel senso che Dio ha “peso” (kavod) nella storia, fino a decidere eventi che danno salvezza.

Una volta indicata quell’“ora” che giungerà presto, mancando ormai poco tempo al suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1), Gesù esprime le sue ultime volontà, rivela il suo testamento, dà il comando riassuntivo di tutta la Legge; un “comandamento nuovo” (entolè kainé) non perché sia una parola nuova rivolta da Dio ai credenti, ma nel senso che è ultimo e definitivo, dopo il quale non ve ne saranno altri: “Amatevi gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri (cf. anche Gv 15,12). Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri”. Con tenerezza, chiamandoli “piccoli figli” (teknía), Gesù rivela ai discepoli l’essenziale: “Amatevi gli uni gli altri”. Ci attenderemmo: “Amatemi”, e invece no: “Amatevi”! Perché amandoci reciprocamente in verità amiamo proprio lui, il Cristo Gesù. Chi ama Gesù, infatti, realizza innanzitutto la sua volontà, il suo comandamento. Lo dirà in modo esplicito il discepolo amato nella sua Prima lettera: “Se ci amiamo gli uni gli altri, Dio dimora in noi e l’amore di lui è compiuto in noi” (1Gv 4,12); ovvero, Dio è presente in coloro che si amano reciprocamente e grazie all’amore reciproco si sente veramente amato, perché vede che la sua volontà è realizzata e pienamente compiuta (cf. 1Gv 5,3).

Quanta perdita di tempo in discorsi che distinguono tra amore “verticale” e amore “orizzontale”, quante accuse reciproche tra fratelli cosiddetti “mondani” e fratelli cosiddetti “spiritualisti”: ragionamenti di persone tarde di orecchi e di cuore! Perché l’amore, quando è veramente tale, non può non essere amore di Dio e amore per i fratelli e le sorelle, ossia amore di Dio che in noi – lo sappiamo o non lo sappiamo – si fa amore per gli altri. Se ci si ama a vicenda, allora si sta insieme, allora c’è comunione; e quando si sta insieme, allora Gesù, il Vivente, è presente (cf. Mt 18,20), il Risorto è in mezzo a noi (cf. Mt 28,20), quale fonte e sigillo della comunione. E quando amiamo l’altro dandogli da mangiare, da bere, vestendolo, visitandolo in carcere o nella malattia, allora amiamo Cristo che è realmente presente, presente più che mai davanti a noi. Dunque l’amore deve innanzitutto essere reciproco, amore verso l’altro, che se è fratello o sorella nella fede dovrebbe rispondere con amore: amore reciproco, amore dell’uno verso l’altro! In ogni caso, il discepolo o la discepola di Gesù deve amare l’altro sempre, che risponda o no, perché questo è l’amore di Gesù Cristo, sempre gratuito. Finché c’è un frammento di amore vissuto tra gli umani, Dio è presente, è vivo, e Cristo è tra di noi! La salvezza, ossia la vita di ciascuno di noi, dipende dall’osservanza di questo comandamento: “Amatevi gli uni gli altri”.

Ma Gesù dà anche la forma, la misura, lo stile di questo amore: “Amatevi come (kathós) io ho amato voi”. Si tratta di amare l’altro come lo ama Gesù, cioè accogliendolo così com’è, perdonandolo e rimettendogli i peccati, prendendosi fedelmente cura di lui, rendendolo fratello o sorella fino alla morte, fino a deporre la vita per lui/lei. C’è nell’amore cristiano una forma, uno stile determinato da Gesù e da lui testimoniato nei vangeli. Se Gesù è maestro, lo è soprattutto nell’arte dell’amare. È facile parlare di amore o credere di vivere l’amore, ma viverlo come lo ha vissuto Gesù, a prezzo del dono della vita, è arte, è un capolavoro di amore, quindi è manifestazione della gloria di Dio che è gloria dell’amare. Così questo amore diventa “segno”, cioè un segnale che dove vi è tale amore, là vi è vita cristiana, vita del discepolo di Gesù. Il cristiano, infatti, non si distingue perché prega (pregano tutti gli uomini religiosi e anche i non religiosi quando sono nell’angoscia!); non si distingue perché fa miracoli (in tutte le religioni ci sono taumaturghi); non si distingue perché ha una sapienza raffinata (l’oriente ha elaborato una sapienza che rivaleggia con la nostra occidentale): no, si distingue perché ama, ama come Gesù, “fino all’estremo” (eis télos: Gv 13,1)!

Dunque nel testamento di Gesù vi sono

il comandamento nuovo,
lo stile e la forma,
il segno (o significatività).

Poveri uomini e povere donne che nel mondo tentano ogni giorno di amare come Gesù, con il suo stile, e sentono questo come l’impegno più grande e significativo del loro essere cristiani: questi sono i discepoli e le discepole di Gesù. Tutto il resto è scena, scena religiosa che passa con questo mondo (cf. 1Cor 7,31). Il giudizio che ci attende tutti avverrà solo sull’amore, per ogni uomo o donna che abbia o non abbia conosciuto e creduto in Gesù Cristo, il Vivente, il Signore: egli ci ha chiesto di amarci tra noi umani, perché solo così si sente amato da noi!

Enzo Bianchi

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