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VI domenica del Tempo ordinario: La Via di Dio

Cosa vuol dire «beato»? Non è certo quella specie di augurio idealista o quell’aspirazione velleitaria che spesse volte risuona sulla bocca dell’uomo comune [...] La beatitudine è quindi qualcosa di molto concreto: dire «beati i poveri» significa che colui che ha raggiunto questa dimensione di vita è approdato a un mondo nuovo, a uno stato di vita diverso da quello ordinario, che implicitamente è detto stato di infelicità, e su cui Gesù fa le sue quattro lamentazioni (Lc 6,24‑26).

 

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1. Il messaggio di Geremia

Il profeta si rifà allo stile della letteratura sapienziale ed esprime il classico tema delle due vie: la via del giusto e la via dell’empio. Questo tema era già proposto dal Deuteronomio (30,15.19), dove la Parola invita in forma energica ad una decisione chiara. Lo stesso Geremia lo riproporrà qualche capitolo più avanti (21,8). La «via» è quel cammino di vita fatto di idealità, di scelte concrete, di scala di valori, di rapporti privilegiati, di passi decisi. Geremia dice che vi possono essere due cammini opposti: il primo è fondato sulla debolezza della carne, sul transitorio, sul contingente; è il di qua; ma esso è apparente e quindi delude. Le immagini di questa delusione sono la steppa, il «non vedere», l’aridità del deserto, la salsedine: tutte espressioni che alludono a una non‑vita; chi confida nell’uomo confida in un’ombra di vita, quindi è «maledetto»: tale parola non esprime malaugurio, ma previsione funesta.

Il secondo cammino si fonda sul Signore, la «roccia che salva». E la prosperità futura di tale cammino è descritta con le immagini dell’albero sempre verde, delle radici a cui non manca mai l’acqua, della pianta che sa far fronte al caldo e non teme la siccità, perché in profondità le sue radici attingono a una sorgente viva. Chi segue questo cammino è «benedetto», cioè ha un futuro sicuro.

La contrapposizione delle due immagini è profondamente suggestiva: l’albero piantato sulla riva del fiume e l’acqua che nella Bibbia è segno di vita esprimono un rigoglio che si contrappone all’immagine del tamerisco che, crescendo nel deserto, senz’acqua, appare come arbusto informe. Il brano profetico non esorta, ma annuncia semplicemente un dato di fatto: chi cammina sulla via del Signore ha già da ora la sicurezza di un possesso; chi invece non cammina sulla via del Signore fin da ora sperimenta l’aridità, il vuoto, il non‑senso della vita. La forza del brano non è nella previsione della conclusione della vita, ma nel descrivere i veri termini dell’attuale stato dell’uomo. La benedizione o la maledizione non si trovano in fondo alla strada che si percorre, ma la stessa strada è di per sé benedizione o maledizione, perché la stessa strada è vita o non‑vita.

2. Cristo è solidale con noi sulla nostra strada

La dottrina del Cristo risorto viene introdotta da Paolo con le stesse parole che l’apostolo premette al racconto dell’istituzione dell’eucaristia: «Vi ho trasmesso quello che ho ricevuto». L’appello di Paolo alla tradizione mostra la difficoltà di catechizzare su questi due argomenti, e nello stesso tempo la fermezza con cui egli non intende venir meno ad un compito tanto importante, lasciando che si smorzi o si contamini una verità di fondo. La risurrezione dai morti era una verità in pericolo: i cristiani di provenienza pagana facevano fatica ad accettarla, influenzati dalla filosofia gnostica. Eppure Paolo sente che qui, su questo preciso fronte, si gioca tutta la qualità del messaggio nuovo. Se non c’è risurrezione, neanche Cristo è risorto, e se Cristo non è risorto, il suo messaggio è come quello di tanti profeti sfortunati e nulla più. Cristo avrebbe tentato di vincere il peccato e la morte, ma sarebbe rimasto sconfitto. La lettera ai Romani è il testo paolino che difende più esplicitamente il rapporto tra la risurrezione di Cristo e la sua vittoria sulla morte. Dice Paolo: credere in Cristo «solo per questa vita», cioè credere in un Cristo che mi dà risposte solo per la vita di qua, non serve a niente; ci sono già stati fin troppi maestri in questo senso. Cristo invece si è fatto solidale con noi nella morte per portare con sé tutti noi nelle regioni della vita. La sopravvivenza dell’uomo non riguarda soltanto la sua anima. Paolo, fedele alla grande tradizione biblica, fa un discorso di vita a tutto l’uomo nell’unità di tutte le sue componenti. La vittoria di Cristo sulla morte ha dato il via a un luminoso cammino: Cristo primizia, risorto dai morti, è il primo atto di questa storia; è la prima cellula di un mondo rinnovato. Dopo di lui verranno «quelli che sono di Cristo», condotti verso la vittoria finale, quando nella parusia del Signore tutti assisteranno alla sconfitta definitiva e alla distruzione completa della morte.

Il tessuto quotidiano dell’esistenza si compone della perenne lotta tra la vita e la morte: ogni primavera vede la vita esplodere su tutti i fronti dell’esistere, ed ogni autunno sperimenta il passaggio della morte. Nuovi germogli e foglie secche, sole e gelo, ricchezza di sentimenti e aridità interiore: sono i cicli quotidiani dell’esperienza umana; tutto si rinnova e rifiorisce e niente si salva da un costante divenire, dove qualcosa sempre marcisce. Ma tutto ciò assume un senso nuovo alla luce della risurrezione di Cristo. L’evento della morte e risurrezione di Cristo si rivela come l’inizio di un cammino ascensionale ritmato da un imperativo creativo che ci impone di accettare la nostra vita e la nostra morte come esperienze positive, e ci fa capire come questo cammino di prova è la normale via per l’integrazione e la sublimazione di ogni energia; in essa si intensifica la vita della coscienza, che farà passare l’uomo e tutto il suo mondo nella pienezza della luce della risurrezione.

3. Il cammino delle beatitudini

Tra la risurrezione del Cristo, primizia dei viventi, e la vittoria finale sulla morte, «quelli che sono di Cristo» hanno un cammino ben preciso da fare: il cammino delle beatitudini, che porterà il mondo dell’uomo alla trasfigurazione.

Cosa vuol dire «beato»? Non è certo quella specie di augurio idealista o quell’aspirazione velleitaria che spesse volte risuona sulla bocca dell’uomo comune. Nel greco classico il termine «makarios» era usato per descrivere lo stato degli dèi, perché erano completamente esenti e liberi dalle fatiche e dalle preoccupazioni quotidiane. Nell’antica tradizione sapienziale ebraica erano detti beati quelli che si lasciavano guidare dalla sapienza di Jahvé (Sal 94,12; 119,2). Gesù, secondo il racconto di Luca, indica la strada di questa sapienza, dietro cui vi è un ben preciso ideale di uomo. La beatitudine è quindi qualcosa di molto concreto: dire «beati i poveri» significa che colui che ha raggiunto questa dimensione di vita è approdato a un mondo nuovo, a uno stato di vita diverso da quello ordinario, che implicitamente è detto stato di infelicità, e su cui Gesù fa le sue quattro lamentazioni (Lc 6,24‑26). A questo ideale di uomo diverso corrisponde la promessa di una felicità concreta: ognuna delle quattro beatitudini (poveri, affamati, piangenti, perseguitati) riceve puntualmente la sua motivazione; l’uomo nuovo, povero e perseguitato, è colui che ha incontrato Cristo, il quale rivaluta in lui ogni esperienza di vita e rigenera in espressione di vita tutto ciò che apparentemente si presenta come esperienza di morte.

Le caratteristiche dell’uomo nuovo formano i paradossi di una logica diversa da quella dell’uomo comune: la logica della fede. Queste caratteristiche per Luca sono quattro: povertà, fame, pianto, persecuzione. Come è possibile che esse fondino la felicità dell’uomo? E’ possibile, perché la logica dell’uomo nuovo è quella che ricerca la ricchezza, la sazietà, la consolazione e l’appagamento al di là della dimensione immediata delle cose e del vivere, nella consapevolezza che chi vuole ricevere tutto deve anche dare tutto. E veramente ricco colui che può ripetere ciò che diceva Diogene ad Alessandro Magno: «Io sono più nobile di te perché disprezzo più cose di quelle che tu possiedi». Il possesso è una dipendenza, il distacco è una libertà in più. E l’uomo libero interiormente è maturo per il regno di Dio. I beati di tale sorta allora non potranno che avere fame e piangere, perché essi si affliggono della situazione del mondo presente, sottoposto al dominio del male, della sofferenza e della morte. I veri beati soffrono per l’incompiutezza attuale della storia e attendono che Dio la faccia maturare verso la vera consolazione, e nell’attesa si consumano in una fedeltà che li porta a vivere rotture e persecuzioni. Ecco allora che non è il perseguitato in sé che viene detto beato, ma è colui che soffre la persecuzione per la giustizia del Regno, essendosi impegnato a vivere la giustizia nuova insegnata e richiesta da Gesù.

In contrapposizione alle beatitudini, ci sono in Luca altrettante lamentazioni. Per quattro volte Gesù pronuncia il suo lamento (Guai!, da: Ouai, che vuol dire «ahimé») sullo stato dell’uomo che si ferma alle apparenze, si riempie e si sazia d’immediato, ricerca la consolazione nella fugacità del tempo e trova appagamento nel plauso della piazza. Sono gli opportunisti del momento, dalla vista non più lunga di una spanna, che si disperdono nella vacuità delle cose e nell’inconsistenza della vita immediata. Costoro non parteciperanno al trionfo del popolo di Dio sulla morte, all’ultimo giorno, perché saranno stati preda della morte lungo la via.

O Dio, che respingi i superbi e doni la tua grazia agli umili, ascolta il grido dei poveri e degli oppressi che si leva a te da ogni parte della terra: spezza il giogo della violenza e dell’egoismo che ci rende estranei gli uni agli altri, e fa’ che accogliendoci a vicenda come fratelli diventiamo segno dell’umanità rinnovata nel tuo amore.

 

Fonte: www.dehoniane.it

 

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