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XV Domenica del Tempo Ordinario anno B. I cristiani: tutti inviati speciali

Si va in missione a due a due, non da soli, né in ordine sparso, né tanto meno da pionieri “sfusi”, ma sempre come cristiani “fusi” in un cuore solo e in un’anima sola, in comunione piena, al cento per cento, legati a Cristo, il primo missionario, e a tutti gli altri

Incominciò a mandarli

Per salvare gli uomini, Dio ha bisogno degli uomini. È una legge fondamentale della storia della salvezza. Per salvarci, Dio deve poter comunicare con noi, ma se lo facesse direttamente, se parlasse una lingua divina o angelica, chi lo capirebbe? Deve quindi comunicare “per mezzo di uomini alla maniera umana” (DV 12), ed è precisamente quello che ha fatto: nei tempi antichi, nell’Antico Testamento, il Signore “ha parlato per mezzo dei profeti”. Poi però, quando è giunta la pienezza dei tempi, “ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Ebr 1,1s). Ma come fa il Figlio di Dio a parlare a tutti gli uomini di tutti i tempi, di ogni latitudine, in ogni situazione? Attraverso i suoi discepoli che manda in tutto il mondo a fare altri discepoli da tutte le nazioni: è la storia della missione.

1. Il vangelo di oggi ci racconta quello che si potrebbe considerare una sorta di tirocinio o “noviziato” missionario per i primi discepoli. Finora Gesù se li è scelti uno ad uno, li ha poi chiamati tutti insieme e ha fondato la comunità dei “Dodici”. Ora li convoca di nuovo, ma per realizzare il secondo dei due obiettivi per cui li aveva radunati attorno a sé: il primo era “perché stessero con lui” - ci aveva informato Marco - e il secondo, “per mandarli ad annunciare” (il vangelo) (Mc 3,14s). È arrivato ora il tempo per i discepoli di raggiungere questo secondo obiettivo della loro chiamata: diventare missionari, come Gesù, e andare a fare quello che finora hanno visto fare al Maestro, in modo paradigmatico ed esemplare. Egli finora è andato in giro ad annunciare il Regno di Dio e a guarire i malati. Pertanto essi dovranno svolgere una duplice attività: una prima, legata al servizio della parola, e l’altra connessa al ministero della liberazione dai vari tipi di male che essi incontreranno lungo la strada.

Ma più che sugli obiettivi della missione, il vangelo di s. Marco si sofferma sullo stile del missionario. Proviamo a descriverlo seguendo il filo del suo racconto.

Innanzitutto il missionario è un chiamato. Una chiamata-tipo l’abbiamo sentita raccontare nella 1ª lettura, tratta dal profeta Amos. Siamo nell’VIII secolo, al tempo del re Geroboamo II, nel regno del Nord, il regno di Israele. Sono tempi di grande prosperità materiale. Ma come avviene in tali circostanze, alla sfacciata ricchezza di alcuni, fa riscontro la penosa povertà di molti, con gravi squilibri sociali. Anche la religione ufficiale è in onore, ma lo sfoggio delle fastose cerimonie nasconde il vuoto di una fede autentica, maschera l’avidità più sfrenata e la più violenta ingiustizia. Lo scontro tra il profeta pastore-contadino venuto dal regno fratello-nemico di Giuda, e Amasia, il sacerdote di corte, è inevitabile e si conclude drammaticamente con la cacciata di Amos. Al sacerdote che gli rimprovera di non avere alcun mandato e di turbare l’ordine, Amos oppone la sua storia: era un mandriano e incideva i sicomori, per foraggiare il bestiame: in questa situazione fu “afferrato” da Dio. Il verbo ebraico laqah, che viene qui utilizzato, mostra come il profeta non si appartenga, perché è stato preso/afferrato da Dio, senza poter opporre alcuna resistenza. Non si è profeti per professione, ma per vocazione. La missione non è un’autodestinazione, e il missionario non è un turista né un vagabondo; è un mandato, un inviato speciale. Non si va in missione per iniziativa propria, ma perché si è stati inviati.

L’inviato ad evangelizzare non è più padrone di se stesso. Scrivendo ai cristiani di Roma, Paolo si qualifica come “schiavo di Cristo Gesù”, e nella lettera ai cristiani di Filippi si autodefinisce come “afferrato da Gesù Cristo” (3,12). Il missionario non ha un suo progetto da realizzare, né una parola propria da dire. Non si è apostoli per decisione personale, ma per chiamata. E la chiamata chiede un grande amore: non si va in missione per interesse o per bisogno, ma per amore, e non primariamente per amore degli uomini, ma di Gesù Cristo. “Noi siamo vostri servitori per amore di Gesù Cristo”: è sempre Paolo che parla (2Cor 4,5).

2. Inoltre si va in missione a due a due, non da soli, né in ordine sparso, né tanto meno da pionieri “sfusi”, ma sempre come cristiani “fusi” in un cuore solo e in un’anima sola, in comunione piena, al cento per cento, legati a Cristo, il primo missionario, e a tutti gli altri. Il messaggio fondamentale dei cristiani “apostoli” sarà necessariamente la loro stessa vita, un segno di unità, un seme di comunione. Si narra che un giorno s. Francesco d’Assisi disse ad un fraticello di prepararsi per andare insieme con lui a predicare in paese. E uscirono tutt’e due, passarono in una piazzetta dove si faceva il mercato, ma Francesco non predicò; entrarono nelle due, tre chiese incontrate lungo il percorso, ma neanche lì Francesco predicò, né disse al frate di farlo. Finalmente tornarono in convento, e il fraticello deluso domandò al santo: “E la predica?”, e Francesco di rimando: “Ma non l’abbiamo fatta?!”. Quasi a dire: la prima missione avviene attraverso la nostra relazione di fraternità vissuta e testimoniata. Una relazione autentica, improntata a vera carità, è di per sé un “fatto di vangelo”, che, molto più e meglio di tante parole, annuncia la parola di Gesù: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20).

Un’altra caratteristica dei missionari cristiani è la povertà: non devono “portare niente per strada... né pane, né bisaccia, né denaro nella cintura”. Il Maestro li vuole liberi e leggeri, senza appoggi e senza favori, sicuri solo dell’amore di lui che li invia, forti solo della sua parola che devono annunciare. Vengono permessi solo il bastone e i sandali, l’equipaggiamento dei pellegrini, perché tali sono i messaggeri del Regno di Dio, non managers superoccupati e ultragarantiti, non funzionari inamovibili, non divi in tournées. Ma forse nell’eccezione del bastone e dei sandali, è da vedere una sottile allusione all’equipaggiamento degli ebrei che dovevano mangiare l’agnello pasquale con “il bastone in mano e i sandali ai piedi” (Es 12,11). Quasi a dire: i discepoli del Signore devono andare ad annunciare la sua Pasqua, il suo passaggio dalla morte alla vita, il suo peregrinare da Risorto per le strade del mondo.

A queste condizioni la missione è grazia, “la grazia dell’apostolato” (Rm 1,5), un dono gratuito, prima che un dovere sfibrante. Certo sarà anche sacrificio, sarà anche rischio e forse martirio, ma è innanzitutto un segno di “misericordia che ci è stata usata” per “far risplendere la conoscenza della gloria divina che risplende sul volto di Cristo” (2Cor 4,1.8). Di qui la perfetta letizia, l’umile e luminosa gioia del missionario: l’apostolo non potrà non vivere in una esultanza limpida e radiosa, oltre ogni tribolazione, anche quando gli sbattessero la porta in faccia, come esplicitamente previsto da Gesù. Anche quando il nostro annuncio venisse respinto, noi facciamo memoria del Signore risorto, nella santa eucaristia. Riviviamo ora quella prodigiosa storia d’amore, e preghiamo perché essa nutra la nostra vita e si esprima nell’espansione del vangelo nel mondo.

 

Commento di mons. Francesco Lambiasi

tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2008

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