XVI Domenica del Tempo Ordinario anno B. I verbi del vero pastore
Erano come pecore senza pastore
Quante volte siamo tentati di spegnere radio e televisione, di tapparci occhi e orecchie e per non vedere disastri e disgrazie, per non sentire di mali e malanni che affliggono tanta povera gente. Spesso questa reazione la motiviamo non certo per l’indifferenza alla sorte dei sofferenti, ma perché al vedere tanto strazio - magari anche solo alla TV - ci sentiamo colpiti al cuore e... “ci commuoviamo troppo!”. Del resto, che ci possiamo fare? E ci mettiamo subito l’anima in pace.
Ma Gesù cosa farebbe, lui, al posto nostro? Basta vedere cosa ha effettivamente fatto, quando si è trovato di fronte a situazioni di bisogno e di grande sofferenza. S. Marco ci offre un test interessante. Gli apostoli, dopo l’esperienza della missione - entusiasmante certamente, ma anche assai sfibrante - hanno ora una grande esigenza di riposo. Gesù non è un leader fiscale e incontentabile, sempre lì a richiedere ulteriori sforzi, a pretendere prestazioni sempre più alte, ad imporre fatiche sempre più stressanti. Pieno di benevola comprensione nei confronti dei discepoli, si premura di assicurare loro un po’ di sollievo. Ma è pressato da tanta gente, al punto da non avere più “neanche il tempo di mangiare”.
1. Per garantire ai Dodici un meritato riposo, il Maestro aveva loro proposto un ritiro solitario, in santa pace, ma “molti li videro partire e capirono... e li precedettero”. Ed ecco, a questo punto, un flash improvviso su Gesù che s. Marco ci regala con uno “scatto” di singolare intensità, fotografando i suoi occhi e radiografando il suo cuore: “Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose”.
Riprendiamo i tre verbi di questo luminoso, “magico” fotogramma: vedere, commuoversi, insegnare. Li possiamo chiamare i verbi del Pastore, e si capirà subito perché. Il primo è il verbo vedere. Lo si incontra spessissimo nella Bibbia, ovviamente riferito all’uomo come soggetto, ma si trova riferito anche a Dio o al Signore. È interessante registrarne la fitta ricorrenza nel libro dell’Esodo, quando si riporta la storia della stipulazione della prima alleanza. Gli Israeliti si trovano schiavi in Egitto, umiliati e oppressi sotto il duro giogo del faraone: “alzano grida di lamento”, ma non è scritto che quelle grida le innalzino a Dio; quindi la loro non è di per sé una preghiera, ma di fatto quel grido accorato e straziante “sale a Dio” e lui attentamente lo ascolta, ed ecco l’effetto: “Dio vide la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero”. E quando poi YHWH al Sinai si presenta a Mosè, fuggiasco dall’Egitto, dal roveto ardente gli grida: “Ho visto la miseria del mio popolo in Egitto” (Es 2,25; 3,7). Il Signore non è come gli idoli che “hanno occhi ma non vedono”: lui invece vede e... provvede!
Quando poi Mosè sta per morire, chiede a Dio un capo “perché la comunità del Signore non diventi simile a pecore che non hanno pastore” (Nm 27,17). Non Giosuè - immediato successore di Mosè - ma Gesù sarà il Pastore vero e definitivo. Infatti - racconta Marco - sbarcando, vede quella folla sterminata di gente, come pecore senza pastore. E ne prova una intima, incontenibile compassione.
2. Ecco il secondo verbo, fissato da s. Marco: Gesù “vide molta folla e si commosse per loro”. Lo sguardo di Gesù non è lo sguardo neutro di un sociologo o quello freddo e distaccato di un fotoreporter, perché Gesù guarda sempre con “gli occhi del cuore”. Questa coppia di verbi - vedere e commuoversi - si incontra altre volte nei vangeli, soprattutto in Luca. Ricordiamo tre passi. Quando entrando a Nain Gesù si imbatte nel corteo funebre per il figlio unico di una povera vedova, Gesù “la vide e si commosse” (Lc 7,13). E nella parabola del buon samaritano, questi due verbi ricorrono in bocca a Gesù per definire il comportamento del samaritano: mentre il sacerdote e il levita “avendo visto” (il pover’uomo aggredito dai briganti e lasciato mezzo morto sul ciglio della strada) si girarono “dall’altra parte”, solo quell’eretico e scomunicato - tali erano considerati i samaritani - “lo vide e si commosse” (Lc 15,31ss). Questi due verbi configurano il comportamento di Gesù come il vero buon samaritano: non è lui che, nonostante il giudizio malevolo dei sacerdoti e dei capi del popolo che lo considerano eretico e finiranno per scomunicarlo e condannarlo, si china sull’umanità tramortita a causa del peccato?
Ma c’è di più: la coppia di verbi vedere-commuoversi ricorre in bocca a Gesù anche nella parabola del figlio prodigo per esprimere l’atteggiamento di Dio rappresentato nella figura del padre misericordioso che nello scorgere da lontano il figlio scapestrato finalmente sulla via di casa, “lo vide e si commosse” (Lc 15,20). Da ricordare che “commuoversi” traduce un verbo tipicamente femminile, che letteralmente si dovrebbe rendere con “sentirsi smuovere il grembo”: come la mamma, quando vede il suo bambino, soprattutto nei momenti di maggiore tenerezza, si sente smuovere le viscere dalla commozione, così è Dio. E così è fatto Gesù: la sua compassione non è solo un intenso, umanissimo sentimento; è una compassione di timbro messianico perché è la commozione del Messia-Pastore in cui si è fatta carne la tenerezza materna di Dio.
3. Dato che Gesù si è commosso nel vedere tutta quella gente bisognosa di guida e di aiuto, ci aspetteremmo che egli si metta ora ad operare qualche miracolo. In effetti è quanto ci racconta l’evangelista Matteo, nel passo parallelo. Invece s. Marco è l’unico evangelista a sottolineare che Gesù si mise a insegnare loro molte cose. Ecco il primo pane che il Messia offre alla folla affamata e smarrita: il pane della parola. A che serve infatti il pane, se non c’è una “parola”, cioè un senso e un ideale, per cui vale la pena sudarlo e assaporare la gioia di mangiarlo? Infatti “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. Ma che gusto c’è a mangiare il pane senza una comunità con cui condividerlo? E come si può passare da massa a popolo senza una “parola” che faccia diventare una grande folla, divisa e dispersa, una vera assemblea, armoniosa, vivace, unita?
Ci siamo soffermati su una lettura in dettaglio di questo vangelo per renderci conto che quanto abbiamo ascoltato si sta realizzando ora, ancora una volta, sotto i nostri occhi, in questa eucaristia. Noi siamo venuti qui da tante strade diverse, con tante situazioni diverse, con molti desideri nel cuore, con un enorme bisogno di consolazione e di compassione, con una sconfinata fame di vita. Il Signore Gesù è il Pastore “che ha occhi grandi, e il suo sguardo arriva dovunque” (Abercio): egli ci vede e sa quello che c’è nel nostro cuore, anche quello che noi non riusciamo a leggere dentro di noi. Non è insensibile al nostro grido di aiuto, si prende cura di noi perché ha grande compassione per ognuno di noi. Il segno di questa compassione è il pane della parola che ci ha appena donato. Ora prepara per noi una mensa per donarci anche il pane del suo Corpo. Ci chiede solo di condividere la preoccupazione che più gli preme: che non ci chiudiamo in noi stessi, ma ricordiamo che non solo per noi - per la nostra fame di vita e la nostra sete d’amore - sono il pane e il vino della mensa eucaristica, ma “per noi e per tutti, in remissione dei peccati”.
Commento di mons. Francesco Lambiasi
tratto da "Il pane della Domenica. Meditazioni sui vangeli festivi"
Ave, Roma 2008
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