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XXIV Domenica del Tempo Ordinario anno C. “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!”

Con il suo agire e il suo parlare Gesù ci rivela che Dio è sempre alla ricerca del peccatore, non è un Dio dei giusti, dei puri, che ama solo quelli che gli rispondono coerentemente. Dio sa che in verità tutti gli esseri umani sono peccatori, in un modo o nell’altro, e allora cerca di far sentire a tutti e a ciascuno il suo amore fedele e mai meritato. Ci porge questo amore, ce lo offre, ma se noi non sentiamo il bisogno di un Dio che ci renda giusti, se non sappiamo, o non vogliamo sapere di essere peccatori, allora impediamo a Dio di venirci a cercare

Il brano evangelico di questa domenica è molto lungo: contiene infatti le tre parabole della misericordia che Luca raggruppa al capitolo quindicesimo del suo vangelo. Avendo già commentato nel tempo quaresimale (IV domenica) la parabola dei due figli (Lc 15,11-32), riflettiamo oggi sulle due parabole gemelle pronunciate da Gesù per giustificare il suo comportamento criticato da scribi e farisei. Sì, perché Gesù durante il suo viaggio verso Gerusalemme continua a insegnare, registrando però reazioni, contestazioni e più spesso mormorazioni da parte di quelli che, professandosi religiosi e volendosi custodi della Legge, non riescono ad accettare il suo stile e sentono il dovere di recriminare contro di lui.

Anche noi, che ci diciamo discepoli e discepole di Gesù, possiamo però non accogliere la buona notizia contenuta in queste parabole. Magari non contestiamo il suo comportamento verso i peccatori, ma pensiamo che figlio perduto e pecora smarrita siano gli altri, i peccatori: non noi, che ci riteniamo fragili sì, ma peccatori proprio no! Ma la buona notizia – come attesta Paolo – è che “Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io” (1Tm 1,15). Siamo forse come quei farisei che vedevano il peccato grave solo negli altri?

Il contesto di questo insegnamento di Gesù in parabole è costituito dai comportamenti nei suoi confronti, di fronte al suo agire e al suo predicare. Pubblicani e peccatori si sentono attirati da Gesù e vengono a lui per ascoltarlo, mentre i pretesi giusti, gli osservanti scrupolosi della Legge, denunciano con un certo disprezzo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro!”. Il tema di questa contestazione è significativo: la comunione che si instaura a tavola, mangiando insieme, condividendo lo stesso cibo . Su tale argomento – non lo si dimentichi – la chiesa nascente ha giocato la sua fedeltà a Gesù, ha dovuto scegliere tra ciò che lui aveva insegnato e ciò che veniva dalla venerabile tradizione: si doveva scegliere se accettare di accostare persone impure e lasciarsi accostare da loro fino ad andare alla loro tavola e ad accoglierli alla propria, oppure rifiutare la comunione della tavola con uomini e donne segnati dal peccato o dall’impurità dovuta all’appartenenza alle genti (gojim; cf. At 10). A maggior ragione erano da evitare peccatori manifesti, pubblicamente dichiarati tali e noti a tutti, perché non era lecito instaurare la comunione tra puri e impuri, tra giusti e peccatori, tra figli di Israele e pagani.

Nei vangeli Gesù è sovente a tavola, invitato da amici o anche da farisei e da peccatori, e nessuno è mai stato escluso dalla sua tavola. Mangiare insieme a tavola era per Gesù un evento carico di significato, una possibilità feconda di comunione, di conversione, di riconciliazione: lo mostra anche solo la moltiplicazione dei pani nel deserto (cf. Lc 9,10-17 e par.), segno profetico di un banchetto nuziale a cui tutti saranno chiamati e nessuno escluso. Gesù vuole raggiungere i peccatori là dove sono e farsi raggiungere dai peccatori dove lui è, perché era consapevole che la sua santità, venendo a contatto con il peccato, lo annientava e operava il perdono di ogni colpa.

A tavola può infatti accadere qualcosa: attraverso la comunione del cibo e una comunione non solo di parole, ma di pensieri e di sentimenti, può operare lo Spirito di conversione e lo Spirito di rinnovamento. Proprio per questo Gesù non è restato nel deserto come il suo maestro Giovanni il Battista, ma ha scelto di entrare nelle città e nei villaggi, nelle case della gente, per sedersi a tavola con gli uomini e le donne, giusti e peccatori, che incontrava sul suo cammino di annunciatore del Regno. La sua libertà, il suo stringere le mani di gente “perduta” secondo la Legge, il suo mettersi accanto a gente smarrita, scartata e condannata dall’opinione pubblica, scandalizzava! Sì, la misericordia infinita di Dio scandalizza gli umani più che la sua giustizia! Gli uomini religiosi non riuscivano a tollerare il comportamento e le parole di Gesù, che mai giudicavano chi era in condizioni di peccato e, pur condannando il male e il peccato stesso, annunciavano anche il perdono e la riconciliazione gratuita con Dio

Gesù dunque deve rispondere alla mormorazione: “Così è troppo!”, e per spiegare e rivelare la vera intenzione sottesa al suo vivere seduto alla tavola dei peccatori, consegna alcune parabole. La prima si apre con una domanda: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?”. Accade a volte che una pecora che, insieme alle altre, forma il gregge e pascola guidata dal pastore, si smarrisca, resti sola, cada in un dirupo, senza poter più raggiungere le altre. È una pecora perduta che può solo conoscere la morte ad opera di bestie selvagge, o delle ferite, o della fame. Allora il pastore lascia le altre novantanove nel deserto e va a cercarla con grande cura, finché non l’ha trovata.

Perché il pastore fa questo, perché si affatica per una sola pecora, quando ne ha altre novantanove? Il vangelo apocrifo di Tommaso riporta questa parabola con una significativa aggiunta: “la pecora più grossa si perse” (detto 107), quasi a giustificare la ricerca da parte del pastore di una pecora più preziosa, dunque più amata. Secondo Luca, invece, questa è la buona notizia: il pastore non fa preferenze, ma piuttosto ama tutte le pecore personalmente, perché di ognuna conosce la voce e il nome (cf. Gv 10,3-4.14) e ai suoi occhi ogni pecora ha un valore unico, inestimabile! Questa pecora, dunque, è semplicemente una pecora appartenente al pastore che si è perduta e va verso la morte: ciò spinge il pastore a cercarla! Quando si ama, non si seguono i calcoli dell’aritmetica! Il pastore non si accontenta di aspettare che la pecora torni, ma va alla sua ricerca, perché ogni pecora, se è amata, va cercata. Come non pensare qui alla strofa del Dies irae: “Quaerens me sedisti lassus”; “Signore, a forza di cercarmi ti sei seduto stanco”? Sì, il pastore della parabola è Dio, che continua a pensare a chi si è perduto, a chi l’ha abbandonato per scelta o per errore, e non si dà pace finché la pecora amata non ritorni nella sua intimità. E così Dio “abbandona” le altre pecore per salvare quella perduta…

Noi conosciamo invece pastori che non hanno questo stile indicato da Gesù. Hanno anche loro cento pecore, ma quando una di loro si perde, assaliti dalla paura ammoniscono le altre: “State attente, restate nel recinto, perché fuori ci sono i lupi, i nemici del gregge. Io vi proteggo stando qui con voi, ma voi non ripetete l’errore della pecora che si è perduta!”. E così il giorno successivo un’altra pecora si smarrisce, ma loro ripetono gli stessi ammonimenti e restano a guardia del recinto. Poi un’altra se ne va, poi un’altra ancora… ma il pastore che vuole proteggere le pecore non va a cercarle. Così resta pastore di una sola pecora, mentre le altre novantanove se ne sono andate, perdute perché il pastore aveva paura, perché era geloso del suo gregge, perché non aveva coraggio né audacia.

Il pastore della parabola di Gesù, invece, cerca, cerca e non si arrende finché non trova la pecora perduta. Allora, caricatala sulle spalle, per evitarle la stanchezza e placare la sua angoscia per la solitudine sofferta, la porta a casa e convoca gli amici e i vicini per fare festa: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Questa festa è profezia, segno della festa che avviene in cielo, perché anche Dio si rallegra quando un perduto è trovato, un morto torna in vita, un peccatore si converte. E attenzione: si converte perché Dio lo cerca, lo trova, se lo carica sulle spalle e lo porta a casa. La pecora resta passiva, è l’azione di salvezza di Dio, sempre gratuita e preveniente, a salvarla!

Segue poi una parabola parallela, in cui Gesù narra di una donna che ha dieci monete e ne perde una. Allora cosa fa? Si dà da fare, accende la lampada, spazza la casa e cerca con cura, finché non trova la moneta che pensava fosse perduta per sempre. Poi chiama le amiche e le vicine e fa festa insieme a loro. Qui non c’è un animale, che con il pastore ha relazioni, ma solo una piccola moneta. Per capire bene la parabola bisogna però cogliere dove cade il suo accento, ovvero sulla gioia del ritrovamento da parte della donna, evento in cui è inscritta la dinamica pasquale: il perduto è ritrovato, il morto è risuscitato.

Insomma, Dio è sempre alla ricerca del peccatore, non è un Dio dei giusti, dei puri, che ama solo quelli che gli rispondono coerentemente. Dio sa che in verità tutti gli esseri umani sono peccatori, in un modo o nell’altro, e allora cerca di far sentire a tutti e a ciascuno il suo amore fedele e mai meritato. Ci porge questo amore, ce lo offre, ma se noi non sentiamo il bisogno di un Dio che ci renda giusti, se non sappiamo, o non vogliamo sapere di essere peccatori, allora impediamo a Dio di venirci a cercare. L’apostolo Giovanni ci rivela: “L’amore consiste in questo: non siamo noi che abbiamo amato Dio, ma è lui che ci ha amati per primo” (cf. 1Gv 4,10.19). Preghiamo dunque di discernere colui che “cercandoci, si è seduto stanco”, e non pensiamoci nell’ovile, perché tutti prima o poi nella vita siamo pecore perdute!

Enzo Bianchi

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