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Eusebi: «Programmare vite di riserva, la disumanità che abbiamo fermato»

C’è un problema di fondo, nella sentenza di Strasburgo. Un’incoerenza – questa sì – con i principi cardine dell’ordinamento costituzionale che non sfugge a Luciano Eusebi, ordinario di diritto penale nell’Università Cattolica del Sacro Cuore e membro della Commissione chiamata a preparare le Linee guida della legge 40 emanate nel 2004 dall’allora ministro Sirchia.

73453599_10-770x513.jpgProfessore, a cosa si riferisce?
Si sente spesso dire che il ricorso alla diagnosi pre-impianto sia finalizzato a non trasmettere ai figli malattie, e in sé questo fine è più che comprensibile. Il problema, però, è che con questa tecnica il fattore genetico da cui la malattia dipende viene pur sempre trasmesso e gli embrioni a cui viene trasmesso vengono selezionati.

Questo cosa significa?
Che nel ricorso alla diagnosi pre-impianto si prevede a priori la generazione di vite umane (e tra queste di vite umane malate) cui verrà negato il diritto all’esistenza. La logica della selezione prevale su quella della cura: secondo una ben nota espressione di Jürgen Habermas, si generano embrioni “con riserva”, cioè embrioni dei quali si sa che in gran parte verranno selezionati in quanto portatori di un fattore genetico negativo. Ora, tutti vorremmo non trasferire fattori di questo tipo ai nostri figli, ma dobbiamo chiederci: davvero la strada giusta è quella di agire, mediante la selezione, su vite già iniziate?

Questo partendo dal presupposto che gli embrioni sono vite...
Una certezza, non un presupposto. La vita sussiste da quando è in atto una sequenza esistenziale che procede senza bisogno di ulteriori impulsi esterni, come per esempio ha nitidamente rimarcato, riconducendo il sussistere dell’embrione al momento fecondativo, la sentenza 18-10-2011 della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

Non solo la sentenza di Strasburgo avvalla la pratica della diagnosi pre-impianto, ma critica la legislazione italiana rilevando una «incongruenza» tra la legge 194 sull’aborto e la 40 sulla fecondazione assistita. Che idea si è fatto di questi rilievo?
In realtà il passaggio argomentativo fondamentale della sentenza – la quale motiva in rapporto all’asserita praticabilità dell’aborto su feti portatori di gravi anomalie – trascura il fatto che la legge n. 194/1978 non consente in alcun modo l’interruzione volontaria della gravidanza per il solo sussistere di una patologia del concepito, ma richiede a quel fine il sussistere di un pericolo, serio o grave, per la salute fisica o psichica della donna. La pura discrezionalità dell’aborto o il venir meno della tutela della vita umana (ancorché prima della nascita) per considerazioni relative allo stato di salute di quest’ultima sono state sempre ritenuti inaccettabili dalla giurisprudenza costituzionale italiana.

Secondo la nostra legislazione, insomma, la malattia in se stessa non fa decadere il diritto fondamentale alla vita del concepito.
Esatto. Con la diagnosi pre-impianto, d’altra parte, non ci si ritrova – malauguratamente – in presenza di una malattia, ma si mette in conto la generazione di vite umane portatrici di patologie. E la programmata selezione di vite umane sulla base di riscontri genetici resta pur sempre, quale sia la loro natura, “eugenetica”.

La legge 40 è di nuovo sotto attacco. È una norma “scomoda” per molti, anche fuori dall’Italia. Perché?
Con questa legge il nostro Paese ha fatto una scelta importante: quella di privilegiare il livello qualitativo della fecondazione assistita. Si è cercato, cioè, di ottenere un’alta qualità nelle tecniche evitando una produzione incontrollata di embrioni: così da permettere a tutti gli embrioni in gioco di avere una chance di sviluppo e così da escludere, inoltre, forme pericolose per la donna di iperstimolazione ovarica. La legge ha favorito altresì la consapevolezza relativa al problema concernente i criteri umanamente accettabili della generazione umana: riflessione che non dipende affatto da considerazioni di carattere confessionale. Sarebbe accettabile, per esempio, una totale sostituzione tecnica della gravidanza, e dunque del ruolo, in essa, della donna? O una generazione senza l’apporto genetico di due individui di sesso diverso? O il coinvolgimento di gameti al di fuori di qualsiasi relazionalità tra i soggetti generanti. O, per l’appunto, l’apertura alla logica selettiva? Sono temi di grande spessore, sui quali è necessario che la nostra società torni a discutere con pacatezza.

Viviana Daloiso
 
© Avvenire, 30 agosto 2012
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