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C’è anche un Umberto Saba prosatore che è necessario riscoprire e che è sempre stato, per i lettori comuni, un po’ a latere, rispetto al Saba poeta. È quello di Scorciatoie e raccontini, che raccoglie una serie di prose scritte a Roma e pubblicate nel 1946 da Mondadori. Il poeta sapeva che quello era un libro che si sarebbe prestato a molte interpretazioni e non ne sarebbe stata così immediata la comprensione da parte dei contemporanei. Nel settembre 1946, rispondendo a Giuseppe De Robertis, scriveva: «So che oggi nessuno, o quasi, ha capito una sola parola di quel libro. Ma lo si capirà un giorno, quando il tempo avrà, per una o un’altra via, abbattuto le resistenze "inevitabili e assurde" che si oppongono oggi alla sua comprensione… Scrivendo Scorciatoie e raccontini non mi accompagnò nessuna illusione: sapevo benissimo di non scrivere per i contemporanei. E questo pensiero non toglieva nulla alla serenità del mio pensiero, una serenità che oggi mi sembra miracolosa».
Ora possiamo riprenderlo in mano, questo capolavoro tra i più attuali del Novecento italiano, nella bella edizione curata da Silvio Perrella, che ha pubblicato Einaudi nella collana "Letture" (pagine 200, euro 19,00), per scoprire quanto si celi dietro queste narrazioni brevi o brevissime, accostate a riflessioni e ad aforismi, con un ritmo stilistico che sottolinea il tempo del silenzio, ma anche «quello stile parlato ch’è il segreto del Saba prosatore», come aveva sottolineato Montale.

Il rinnovato interesse verso il libro è dimostrato anche dal saggio innovativo, Il poeta, il cane e la gallina (Le lettere, pagine 164, euro 18,00) di Paola Frandini, che mette al centro l’analisi testuale dei brani, interpretati secondo i modi del pensiero ebraico a cui Saba, volontariamente o meno, era legato per vincoli familiari. In particolare due elementi caratterizzano il testo. Da una parte troviamo l’uso e la ripetizione di parole, la scelta di un ritmo e di una scansione delle frasi che risulta in forte sintonia con la prosodia e la cantillazione ebraiche. Dall’altra c’è l’umorismo, spesso e volentieri un umorismo al nero, che l’autrice, citazioni alla mano, riporta alle analisi di Freud e alle battute dell’umorismo yiddish, nonché alle espressioni spesso appositamente divaganti dell’insegnamento rabbinico. Un aspetto questo che non è nuovo, ma che finalmente ora trova un’analisi dettagliata, visto che già nel 1912, a proposito dei Nuovi versi alla Lina, uno scrittore del calibro di Riccardo Bacchelli, scrive: «Bisogna intendersi, non è l’ironia che sfoga nell’umorismo. Direi che è lo spirito satirico, il senso ebraico del grottesco».

E così scopriamo che Saba non è molto distante dal mondo di Martin Buber, anzi queste "scorciatoie" vivono nella sua "aura", anche se le disparità tematiche e di collocazione geografico-temporale sono evidenti, per l’autrice è l’umorismo ad unire lo scrittore triestino e il mondo rabbinico. Infatti la Frandini parla di umorismo come di «una modalità espressiva innegabile sia in Saba sia nelle storie chassidiche. Quel particolare umorismo ebraico così sfumato, imprevedibile e spesso assurdo, intenzionalmente spiazzante: arma di chi non possiede armi, protezione a esperienze di dolore, conseguenza dell’essere costretti a saperla più lunga sui propri simili».


 
Enzo Bianchi
 
© Avvenire, 4 agosto 2012

 

 

 

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