Il denaro non deve governare

1. «L'economia attuale è antiumana»
«Sarebbe auspicabile realizzare una riforma  finanziaria che sia etica e che produca a sua volta una riforma  economica salutare per tutti. Il denaro deve servire e non governare!». Sceglie l’incontro con gli ambasciatori di Kyrgyzstan, Antigua e Barbuda, Lussemburgo e Botswana presso la Santa Sede papa Francesco per il primo intervento del  pontificato sulla crisi economica mondiale e le cause, a cominciare  dalla speculazione finanziaria, che l’hanno innescata con conseguenze  devastanti a livello sociale. 
 
 «La maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo», ha detto  Francesco, «continuano a vivere in una precarietà quotidiana con  conseguenze funeste». E così, ha spiegato, «alcune patologie aumentano,  con le loro conseguenze psicologiche, la paura e la disperazione  prendono i cuori di numerose persone, anche nei paesi cosiddetti ricchi;  la gioia di vivere va diminuendo; l'indecenza e la violenza sono in  aumento; la povertà diventa più evidente. Si deve lottare per vivere, e  spesso per vivere in modo non dignitoso». 
 
 Nel mirino del Papa ci sono gli idoli del nostro tempo: avidità e  sfruttamento, la finanza senza regole, un capitalismo consumistico che  cerca solo il profitto e distrugge ogni rete di solidarietà sociale,  l’uomo ridotto a merce. «Una delle cause di questa situazione, a  mio parere, sta nel rapporto che abbiamo con il denaro, nell’accettare  il suo dominio su di noi e sulle nostre società», ha detto  Bergoglio, «così la crisi finanziaria che stiamo attraversando ci fa  dimenticare la sua prima origine, situata in una profonda crisi  antropologica. Nella negazione del primato dell’uomo! Abbiamo creato  nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr Es  32,15-34) ha trovato una nuova e spietata immagine nel feticismo del  denaro e nella dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente  umano. La crisi mondiale che tocca la finanza e l’economia sembra  mettere in luce le loro deformità e soprattutto la grave carenza della  loro prospettiva antropologica, che riduce l’uomo a una sola delle sue  esigenze: il consumo. E peggio ancora, oggi l’essere umano è considerato  egli stesso come un bene di consumo che si può usare e poi gettare».  
 
 Nel suo discorso il Papa ha tuonato anche contro la corruzione e l’evasione fiscale.  «C'è», ha detto, una corruzione tentacolare e una evasione fiscale  egoista che hanno assunto dimensioni mondiali, la volontà di potenza e  di possesso è diventata senza limiti». Senza solidarietà, ha concluso,  non si esce da questa spirale drammatica dove i ricchi diventano sempre  più ricchi e i poveri sempre più poveri. «Il Papa ama tutti, ricchi e  poveri ma ha il dovere, in nome di Cristo, di ricordare al ricco che  deve aiutare il povero, rispettarlo, promuoverlo», ha detto,  soffermandosi sugli squilibri a livello mondiale: «Mentre il reddito di  una minoranza cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza  si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che promuovono  l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando  così il diritto di controllo agli Stati pur incaricati di provvedere al  bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte  virtuale, che impone unilateralmente e senza rimedio possibile le sue  leggi e le sue regole».   
 
 Alla Chiesa non servono i cristiani da salotto -  Giovedì mattina nella messa celebrata nella Domus Santa Marta Francesco  ha sferrato un duro attacco nei confronti dei cristiani «da salotto»,  «educati», ma senza «fervore apostolico». Per il Papa la testimonianza  dei cristiani, tutti non solo i missionari, deve invece essere incisiva e  forte:  «Se diamo fastidio, benedetto sia il Signore. Avanti, come dice il Signore a Paolo: "Coraggio"». 
 L’esempio secondo il Papa è da ricercare in San Paolo:  «Paolo», ha detto, «dà fastidio: è un uomo che con la sua predica, con  il suo lavoro, con il suo atteggiamento dà fastidio, perché proprio  annunzia Gesù Cristo e l’annunzio di Gesù Cristo alle nostre comodità,  tante volte alle nostre strutture comode – anche cristiane, no? – dà  fastidio. Il Signore sempre vuole che noi andiamo più avanti, più  avanti, più avanti… Che noi non ci rifugiamo in una vita tranquilla o  nelle strutture caduche, queste cose, no? Il Signore… E Paolo,  predicando il Signore, dava fastidio. Ma lui andava avanti, perché lui  aveva in sé quell’atteggiamento tanto cristiano che è lo zelo  apostolico. Aveva proprio il fervore apostolico. Non era un uomo di  compromesso. No! La verità: avanti! L’annunzio di Gesù Cristo: avanti!».
 
Antonio Sanfrancesco
2. Denaro, finanza e sviluppo secondo il cardinale Bergoglio
«La concezione magica dello Stato, la dilapidazione del  denaro del popolo, il liberalismo estremo mediante la tirannia del  mercato, l’evasione fiscale, la mancanza di rispetto della legge tanto  nella sua osservanza quanto nel modo di dettarla e applicarla, la  perdita del senso del lavoro». E soprattutto «una corruzione  generalizzata che mina la coesione della nazione e ci toglie prestigio  davanti al mondo. Questa è la diagnosi». Nel libro intervista di Gianni  Valente (Francesco, un papa dalla fine del mondo, Emi) il  futuro papa Jorge Mario Bergoglio elenca i mali morali che hanno portato  alla bancarotta dell’Argentina, la cui fase parossistica si verificò  soprattutto tra il 1999 e finì il 2002 con il ritorno alla crescita del  Pil.  
 
 Bergoglio adoperò l’immagine dei genitori delle Villas Miseria che di  notte attendevano che i figli dormissero per piangere sulle proprie  sciagure. Avvenne nei giorni della bancarotta. Perché il default dello  Stato argentino rappresentò uno dei momenti peggiori della sua storia.  Le sue onde sismiche temporali di quel terremoto finanziario risalgono a  epicentri storici molto più antichi, dalle dittature militari ai  debolissimi governi democratici, vere e proprie Repubbliche di Weimer  sudamericane, a cominciare da quello del presidente Raùl Alfonsin. Le  politiche dittatoriali o fragili e corrotte portarono alla crescita del  debito pubblico, accumulato soprattutto dopo la guerra delle Falkland. Furono  questi i prodromi di una crisi economica devastante. Quando il governo  si rivelò incapace di remunerare il debito, l’inflazione si impennò e  andò fuori controllo, raggiungendo il tasso mensile del 200 per cento,  fino al 5 mila per cento del luglio 1989. In molte città del grande Paese scoppiarono numerose rivolte popolari. 
 
 Nel 1989 il liberista filo americano Carlos Menem, succeduto ad  Alfonsin, dichiarò guerra  all’inflazione e stabilizzò la moneta  nazionale agganciando l’austral, la moneta che aveva sostituito il peso  al dollaro, con un cambio fisso. Tutto ciò ebbe effetti positivi per gli  argentini, che poterono di nuovo viaggiare all’estero, acquistare beni  d’importazione e chiedere crediti in dollari a tassi agevolati. 
 Ma la montagna del debito pubblico continuava a incombere. Solo i  prestiti concessi dal Fondo Monetario Internazionale impediva che  esplodesse. Nel 1999, il neo eletto presidente Fernando de la Rúa  (liberista come Menem e accusato di aver venduto per quattro soldi le  imprese agli americani) prese in mano un Paese dove la disoccupazione  era ormai a livelli critici e gli effetti negativi del tasso di cambio  fisso erano ben evidenti. L’Argentina entrò in una recessione che  divenne ben presto stagnazione. Al posto del peso, si utilizzavano  valute complementari; la più forte di esse era il Patacón, emesso dalla  provincia di Buenos Aires. 
 La fuga di capitali aumentò. Nel 2001 la gente iniziò a temere il peggio  e a ritirare grosse somme di denaro dai propri conti correnti  convertendo pesos in dollari e mandandoli all'estero.  Il governo adottò  una serie di misure (note come corralito) che congelarono  effettivamente tutti i conti bancari per dodici mesi, permettendo  unicamente prelievi di piccole somme di denaro. 
 Il corralito esasperò il popolo argentino che si riversò nelle strade di  Buenos Aires. Si svilupparono proteste popolari, come il cacerolazo,  che consistevano nel percuotere rumorosamente pentole e padelle. Queste  proteste andarono avanti fino al 2002 e finirono per diventare “espropri  proletari”. Gli scontri fra i locali e la polizia divennero una  consuetudine, così come gli incendi appiccati nelle strade di Buenos  Aires, messa a ferro e fuoco. De la Rúa abbandonò la Casa Rosada in  elicottero il 21 dicembre 2001 portandosi dietro una sorta di “damnatio  memoriae” per la sua inconsistenza e incapacità. 
 Durante l’ultima settimana del 2001, il governo ad interim guidato da  Rodríguez Saá, di fronte all’impossibilità di ripagare il debito,  completamente incapace di affrontare la crisi, dichiarò lo stato di  default sulla maggior parte del debito pubblico. Al suo posto arrivò  alla Casa Rosada Eduardo Duhalde, un senatore molto noto di Buenos  Aires, che aveva la fama di risanatore negli incarichi che aveva  ricoperto. 
 Duhalde lasciò fluttuare il cambio con il peso spingendo in su  l’inflazione fino all’80 per cento. Molte imprese chiusero o fallirono,  molti prodotti importati divennero praticamente inaccessibili ed i  salari furono congelati. I conti correnti in dollari furono convertiti  in pesos a meno della metà del loro valore. Fu quella l’epoca dei  cartoneros, i raccoglitori di cartone che vagavano per le strade di  Buenos Aires per raggranellare qualche peso. uno dei tanti metodi che si  utilizzavano in Argentina per far fronte ad un tasso di disoccupazione  che era salito fino al 25 per cento. Ma la cura da cavallo cominciò a  funzionare. 
 Eduardo Duhalde, dopo essere riuscito a stabilizzare la situazione,  chiamò il popolo alle urne, vinte da Néstor Kirchner, che continuò a  tenere quello che era considerato l’artefice della ripresa,  Roberto  Lavagna, il ministro dell'economia nominato da Duhalde.  Il Paese  cominciava a respirare.  Anche perché la prospettiva economica era del  tutto differente da quella degli anni novanta; il peso debole aveva reso  le esportazioni argentine economiche e competitive all'estero ed aveva  scoraggiato le importazioni. Inoltre, l’alto prezzo della soia sui  mercati internazionali causò un grande afflusso di valuta estera. 
 Il governo incoraggiò la produzione locale e prestiti accessibili per le  imprese, organizzò un piano ambizioso per aumentare il gettito fiscale e  destinò una grande quantità di finanziamenti ai servizi sociali  controllando la spesa in altri campi. Il peso, intanto, si rivalutò  lentamente e l’industria a poco a poco trovò nuovi spazi anche  attraverso le cooperative dei lavoratori che erano stati licenziati. 
 L’Argentina riuscì a tornare alla crescita economica con grande forza;  il Pil aumentò a ritmi superiori dell’8 per cento, fino a toccare il 15  per cento nel 2007.  Ma rimase sul campo tanta miseria, e soprattutto  una diseguaglianza di fondo nella distribuzione dei redditi: il 10 per  cento più ricco della popolazione argentina dispone di un reddito 31  volte superiore a quello più povero. Il nuovo presidente Cristina  Kirchner, che aveva preso il posto dello scomparso marito Nestor,  candidandosi alla testa del partito peronista fondato dal marito,  annunciò un piano di pagamento ai creditori, basato su forti sconti,  molto criticato dal Fondo Monetario Internazionale. Poi annunciò che il  suo Paese avrebbe saldato, come il Brasile, il debito con l’Fmi. Ma la  terapia funzionò e l’Argentina si sentì in quegli anni fuori  dall’incubo. 
 
 L’Argentina ripagò il debito con le riserve di valuta estera della banca  centrale. Anche se il Fondo Monetario di madame Christine Lagarde  continua ad accusarla di truccare i dati macroeconomici, come avvenne  oltre dieci anni fa. Ma la pasionaria peronista amica di Fidel Castro e  Chavez ha risposto dando degli usurai ai vertici del Fondo. In questi  ultimi mesi però anche gli argentini cominciano a sentire puzza  d’imbroglio. I rincari hanno ripreso a galoppare. La disoccupazione  aumenta. E così da settembre sono tornati in piazza con pentole e  cucchiai.
 
Francesco Anfossi
3. Il fondatore della moderna finanza? San Francesco
E’ ancora presto per un’enciclica sociale del nuovo  Papa. Ma i primi segnali già ci sono. Giorno dopo giorno, papa Francesco  aggiunge una tessera del mosaico della dottrina della Chiesa legata  alla nuova epoca della globalizzazione. Lo fa con molta  coerenza rispetto alla sua esperienza di vescovo e cardinale. Quando  l’arcivescovo di Buenos Aires Jorge Mario Bergoglio ha scelto il nome  del santo di Assisi per il suo pontificato, pensava a “una Chiesa povera  per i poveri”, ma, da fine intellettuale e da buon gesuita, la sua  scelta si riferiva anche ad una visione teologica, filosofica e sociale.  
 
 Non tutti sanno che i francescani, nel medioevo, fondarono le basi della finanza moderna. Con  i francescani è praticamente nata l’economia di mercato, frutto maturo  della scuola di pensiero di Bonaventura di Bagnoregio e altri filosofi.  Pensiamo ai Monti di Pietà, da loro fondati nell’ambito della lotta  all’usura. Ma anche i principali strumenti contabili nascono in ambito  francescano. La partita doppia è stata perfezionata da Luca Pacioni,  collaboratore di Leonardo da Vinci. La povertà dei francescani era  libertà e distacco dalle cose materiali, ma significava anche lotta alla  miseria che è la mancanza di sostentamento e dignità.  “Quando San  Francesco, di fronte al vescovo attonito si spoglia e rimane nudo lo fa  perché si sente finalmente libero. Ma ai suoi confratelli raccomanda di  tenere sempre nella madia pane e formaggio per i poveri che bussano alla  porta del convento”. Chi conosce il nuovo pontefice fin dai tempi in  cui era arcivescovo di Buenos Aires è l’economista Stefano Zamagni,  padre degli studi sul Terzo Settore e studioso di economia francescana,  che ha svolto lunghi soggiorni presso l’Università Cattolica della  capitale argentina. “Il Papa dovrà scegliere il modello di economia di  mercato più consono alla Chiesa e alla redistribuzione equa delle  risorse economiche” afferma l’economista bolognese. “Benedetto XVI aveva  già scelto chiaramente nella Caritas in Veritate la terza via:  l’economia civile di mercato”.  Il dilemma, per Zamagni, è tutt’altro  che semplice: “Si tratta di stabilire se si ritiene che la dottrina  sociale della Chiesa debba limitarsi ai problemi della giustizia  - e  quindi alla sfera della distribuzione del reddito e della ricchezza -   oppure se si pensa che ci si debba occupare anche della ricchezza e del  reddito. Noi sappiamo che, a partire da Leone XIII fino a Giovanni Paolo  II, la prevalenza è stata sul primo momento, il momento della  distruibuzione: la giusta mercede all’operaio, ai più deboli, la lotta  alle disegueglianze. Il papa tedesco aveva inaugurato un’altra stagione  per il pensiero cristiano: la sfera della produzione. Perché è durante  la produzione che si possono commettere le ingiustizie più grandi. Se  l’acqua è inquinata, bisogna intervenire sulla sorgente. Per troppo  tempo la dottrina sociale della Chiesa si è occupata di distribuzione  (con la sacrosanta attenzione ai poveri, a chi meno ha) dimenticando le  fasi della produzione della ricchezza. Ma se io mi occupo della  condizioni di vita e non delle capacità di vita non rendo giustizia alla  dignità dell’uomo e giungo a rendere sterile il pensiero economico”. 
 
 
Francesco Anfossi
© Famiglia Cristiana, 16 maggio 2013
            