Il grido dei poveri è il grido di speranza della Chiesa
Sembrano fatte apposta per rispondere ad alcune delle critiche dei sedicenti cristiani che in questi giorni hanno ripetutamente attaccato i lavori del Sinodo dei vescovi convocato dal 6 al 27 ottobre sul tema Amazzonia: Nuovi Cammini per la Chiesa e per una Ecologia Integrale. Le parole del Vangelo di Luca, spiegate da papa Francesco nella messa conclusiva dell’assise dei vescovi, ricordano la preghiera del fariseo che comincia con il ringraziamento a Dio. «È un ottimo inizio», sottolinea Bergoglio, «perché la preghiera migliore è quella di gratitudine e di lode. Ma subito vediamo il motivo per cui ringrazia: “perché non sono come gli altri uomini”». Il fariseo si vanta dei suoi meriti, di riuscire ad adempiere al meglio alcuni precetti particolari, ma dimentica il comandamento più grande: «amare Dio e il prossimo». E così, «traboccante della propria sicurezza, della propria capacità di osservare i comandamenti, dei propri meriti e delle proprie virtù, è centrato solo su di sé. Il dramma di questo uomo è che è senza amore», sottolinea Francesco, «Ma anche le cose migliori, senza amore, non giovano a nulla, come dice San Paolo. E senza amore, qual è il risultato? Che alla fine, anziché pregare, elogia se stesso. Infatti al Signore non chiede nulla, perché non si sente nel bisogno o in debito, ma si sente in credito. Sta nel tempio di Dio, ma pratica un’altra religione, la religione dell’io. Tanti gruppi cristiani, cattolici vanno su questa strada».
Il Papa mette a raffronto la preghiera del fariseo con quella del pubblicano e con quella del povero. Il fariseo, come dice il Vangelo di Luca «oltre a Dio dimentica il prossimo, anzi lo disprezza: per lui, cioè, non ha prezzo, non ha valore. Si ritiene migliore degli altri, che chiama, letteralmente, “i rimanenti, i restanti” i “loipoi”. Sono, cioè, “rimanenze”, scarti da cui prendere le distanze. Quante volte vediamo questa dinamica in atto nella vita e nella storia! Quante volte chi sta davanti, come il fariseo rispetto al pubblicano, innalza muri per aumentare le distanze, rendendo gli altri ancora più scarti. Oppure, ritenendoli arretrati e di poco valore, ne disprezza le tradizioni, ne cancella le storie, ne occupa i territori, ne usurpa i beni». Pensa all’Amazzonia quando ricorda che tante di queste «presunte superiorità si tramutano in oppressioni e sfruttamenti, anche oggi! Lo abbiamo visto nel Sinodo quando parlavamo sullo sfruttamento del creato, della gente, degli abitanti dell’Amazzonia, sulla tratta delle persone, sul commercio delle persone. Gli errori del passato non son bastati per smettere di saccheggiare gli altri e di infliggere ferite ai nostri fratelli e alla nostra sorella terra».
La religione dell’io «ipocrita con i suoi riti e le sue “preghiere”, ma tanti sono cattolici, si confessano cattolici, ma hanno dimenticato di essere cristiani e umani, hanno dimenticato che il vero culto a Dio passa sempre attraverso l’amore del prossimo. Anche cristiani che pregano e vanno a Messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io». Il Papa invita a guardare dentro se stessi per vedere se «per noi qualcuno è inferiore, scartabile, anche solo a parole» e chiede di pregare «per chiedere la grazia di non ritenerci superiori, di non crederci a posto, di non diventare cinici e beffardi». Sono tutte cose «sgradite a Dio». Fa una aggiunta slautata da un applauso per ricordare che «provvidenzialmente oggi ci accompagnano in questa messa non solo gli aborigeni dell’Amazzonia, ma anche i più poveri delle società sviluppate, i fratelli e le sorelle ammalate della comunità dell’arca sono con noi in primo piano».
E se la preghiera del fariseo resta a terra, aggravata dal peso dell’egoismo, arriva a Dio invece quella del pubblicano. «Egli non comincia dai suoi meriti, ma dalle sue mancanze; non dalla sua ricchezza, ma dalla sua povertà: non una povertà economica – i pubblicani erano ricchi e guadagnavano pure iniquamente, a spese dei loro connazionali – ma sente una povertà di vita, perché nel peccato non si vive mai bene. Quell’uomo che sfrutta gli altri si riconosce povero davanti a Dio e il Signore ascolta la sua preghiera, fatta di sole sette parole ma di atteggiamenti veri. Infatti, mentre il fariseo stava davanti in piedi, il pubblicano sta a distanza e “non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo”, perché crede che il Cielo c’è ed è grande, mentre lui si sente piccolo. E “si batte il petto”, perché nel petto c’è il cuore. La sua preghiera nasce proprio dal cuore, è trasparente: è davanti a Dio il cuore, non le apparenze. Pregare è lasciarsi guardare dentro da Dio, è Dio che guarda dentro quando prego, pregare è lasciarsi guardare dentro da Dio senza finzioni, senza scuse, senza giustificazioni». Il Papa racconta quanto sia ridicolo sentire persone che si pentono, ma intanto sono pieni di giustificazione per i loro peccati, quasi che stessero facendo una «auto causa di beatificazione». Il pentimento, invece, deve essere sincero. E non occorrono tante parole, il pubblicano ne usa soltanto sette, ma fatto con atteggiamenti e disposizione del cuore, «mettendo davanti a Dio e ai fratelli fatiche e speranze. Oggi, guardando al pubblicano, riscopriamo da dove ripartire: dal crederci bisognosi di salvezza, tutti. È il primo passo della religione di Dio, che è misericordia verso chi si riconosce misero. Invece, la radice di ogni sbaglio spirituale, come insegnavano i monaci antichi, è credersi giusti. Ritenersi giusti è lasciare Dio, l’unico giusto, fuori di casa. È tanto importante questo atteggiamento di partenza che Gesù ce lo mostra con un confronto paradossale, mettendo insieme nella parabola la persona più pia e devota del tempo, il fariseo, e il peccatore pubblico per eccellenza, il pubblicano. E il giudizio si capovolge: chi è bravo ma presuntuoso fallisce; chi è disastroso ma umile viene esaltato da Dio».
In realtà noi tutti siamo pubblicani e farisei. «Siamo un po’ pubblicani, perché peccatori, e un po’ farisei, perché presuntuosi, capaci di giustificare noi stessi, campioni nel giustificarci ad arte! Con gli altri spesso funziona, ma con Dio no, con Dio il trucco non funziona». Allora non resta che chiedere «la grazia di sentirci bisognosi di misericordia, bisognosi di misericordia, poveri dentro. Anche per questo ci fa bene frequentare i poveri, per ricordarci di essere poveri, per ricordarci che solo in un clima di povertà interiore agisce la salvezza di Dio».
E per capire che è, come spiega la prima lettura di oggi, la preghiera del povero quella più gradita a Dio, quella che, dice il Siracide, «attraversa le nubi». Bergoglio sottolinea che «mentre la preghiera di chi si presume giusto rimane a terra, schiacciata dalla forza di gravità dell’egoismo, quella del povero sale dritta a Dio. Il senso della fede del Popolo di Dio ha visto nei poveri “i portinai del Cielo”, quel sensus fidei che mancava nella dichiarazione finale: sono loro che ci spalancheranno o meno le porte della vita eterna, loro che non si sono considerati padroni in questa vita, che non hanno messo se stessi prima degli altri, che hanno avuto solo in Dio la propria ricchezza. Essi sono icone vive della profezia cristiana. In questo Sinodo abbiamo avuto la grazia di ascoltare le voci dei poveri e di riflettere sulla precarietà delle loro vite, minacciate da modelli di sviluppo predatori. Eppure, proprio in questa situazione, molti ci hanno testimoniato che è possibile guardare la realtà in modo diverso, accogliendola a mani aperte come un dono, abitando il creato non come mezzo da sfruttare, ma come casa da custodire, confidando in Dio». Un Dio che «”ascolta la preghiera dell’oppresso”. E quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non sono ascoltate e magari vengono derise o messe a tacere perché scomode. Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa», ripete due volte Francesco. Che conclude: «Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera, siamo sicuri, attraverserà le nubi».
Annachiara Valle
© www.famigliacristiana.it, domenica 27 ottobre 2019