Il labirinto del silenzio: fare i conti con l’abisso della Shoah
Il labirinto del silenzio non somiglia a nessuno dei molti film sulla Shoah che abbiamo visto, anche perché, pur avendo la tragedia dei lager nazisti al centro, non è esattamente un film sulla Shoah.
Diretto dall’italo-tedesco Giulio Ricciarelli, candidato all’Oscar come miglior film straniero 2016, racconta la storia del processo di Francoforte, quello in cui un tribunale tedesco chiama a rispondere penalmente i responsabili dei crimini commessi nei lager.
Nel dialogo tra il giovane procuratore protagonista (Alexander Fehling, che sintetizza in sé i tre procuratori veri che istruirono il processo nel 1958), il procuratore generale Fritz Bauer (Gert Voss) che crede nell’indagine e il procuratore capo che la guarda con scetticismo, ricorre la precisazione che un processo ha lo scopo di perseguire reati: scrivere la storia è compito d’altri. Poche volte, però, come nel processo di Francoforte, è accaduto che la ricerca della verità processuale fosse occasione per un popolo intero di fare i conti con un passato ingombrante.
Il regista ammette di aver avvertito l’urgenza del film prendendo atto che la generazione dell’immediato dopoguerra di quel passato sapeva poco. Anche Se questo è un uomo di Primo Levi, pubblicato nel 1947, non ebbe fortuna: troppa voglia di dimenticare. Ci volle l’edizione Einaudi del 1958 per farne un caposaldo della letteratura mondiale. Non a caso le date coincidono: c’era bisogno delle domande inevase della generazione successiva, del silenzio innaturale in cui era stata lasciata, per tornare a scavare.
Nel film quella generazione vive nel giovane procuratore: c’è bisogno di lui per dare ascolto alla denuncia del giornalista Thomas Gnielka (André Szymanski), c’è bisogno di uno sguardo non implicato. Lo capisce il procuratore generale, che crede nella causa, ma che non potrebbe assumerla in prima persona perché troppo implicato. Lo lascia capire anche il procuratore capo, non convinto del processo, che diverrà però figura chiave per cogliere le sfumature. Ricciarelli affronta il nodo del film senza retorica, evocando l’orrore senza mai esibirlo. È proprio l’asciuttezza dei toni, della recitazione, dei colori che rende Il labirinto del silenzio potente e intenso, capace di portare, attraverso i turbamenti del protagonista, lo spettatore fin dentro l’abisso con cui anche chi non era nato ha dovuto fare i conti.
IL LABIRINTO DEL SILENZIO
di G. Ricciarelli, con A. Fehling, drammatico, 124’
Elisa Chiari
© www.famiglicristiana.it, sabato 27 gennaio 2018