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«Il Mediterraneo ci salva dallo scontro di inciviltà»

Zuppi alla «Gazzetta»: guerra e pace, il Sud, la Chiesa dopo il Covid

«Tra guerra e pace: la sfida della fratellanza». Una sfida ardua, complessa, sottile, ma non rinviabile rispetto a quanto sta accadendo in Ucraina, nel cuore dell’Europa. Ne ha parlato ieri al Kursaal Santalucia di Bari il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo metropolita di Bologna e neo-presidente della Conferenza episcopale italiana, introdotto dal vaticanista Marco Politi, in apertura di «Lector Incontri» della Fondazione Di Vagno. Prima della sua lectio magistralis Zuppi ha concesso un’intervista alla «Gazzetta».

Eminenza, il Mediterraneo appariva quasi «dimenticato» nel discorso pubblico. Paradossalmente il conflitto russo-ucraino, pur spostando il baricentro dell’interesse a Oriente, ne ha invece rilanciato il ruolo cruciale.

«Fa testo l’espressione di “guerra mondiale a pezzi” usata più volte da papa Francesco. È una guerra in corso e i pezzi sono collegati fra loro. Il Mediterraneo è il mare nostro, ma anche loro, degli altri. Un bacino fondamentale nell’aiutare la possibile soluzione di questa guerra mondiale. D’altro canto, il Mediterraneo è sempre stato vivificato dalle migrazioni, pensiamo solo alle comunità albanesi che da secoli ci sono in Calabria e in Puglia. L’emigrazione, lo scambio, l’incontro portano arricchimento; il problema sta piuttosto nelle paure che suscitano da una parte e nell’incapacità di gestirle dall’altra. La fame e le guerre spingono chiunque può ad attraversare tutti i deserti e tutti i mari possibili per salvarsi. La cultura o, meglio, l’umanesimo del Mediterraneo accoglie, è attento all’altro che da straniero diventa prossimo».

Taluni, a cominciare da una espressione del patriarca di Mosca Kirill, parlano di uno «scontro delle civiltà» in atto, Oriente contro Occidente, evocando il titolo di un famoso libro. Lei che ne pensa?

«In questo caso, direi piuttosto “scontro di inciviltà”, caso mai vi fosse davvero. La storia del Mediterraneo dimostra esattamente il contrario: le civiltà si sono incontrate anche per interessi economici e politici. La civiltà stessa nasce perché c’è l’incontro, non lo scontro. Pensare in quei termini rischia di essere pericoloso perché sono incivili coloro che vogliono costruire i muri, invece che avere i volti in primo piano. Quando siamo incivili costruiamo i muri, del resto è facile farlo».

Grazie al suo afflato nicolaiano rimarcato anche dalle visite del Papa negli ultimi anni, Bari può giocare un ruolo nella ricerca della pace?

«Se dovessimo pensare che dipende da noi rischieremmo un Tso, un Trattamento sanitario obbligatorio, ma non è vero il contrario: noi dobbiamo fare tutto quello che è possibile per costruire la pace. Lo sapete voi, lo sa bene monsignor Franco Cacucci che si è dedicato negli anni scorsi a questo compito con grande sensibilità, e lo sanno anche in Russia: San Nicola è una nota comune nel concerto della pace, che è sempre frutto di una sinfonia. Certo, qualche assolo serve, ma bisogna rimparare a suonare insieme».

Cardinale Zuppi, lei viene dall’esperienza della Comunità di Sant’Egidio da sempre impegnata nel soccorso dei più deboli nella società italiana e nelle relazioni internazionali. Nei giorni scorsi ha scritto una «lettera a chi lavora nelle istituzioni della nostra casa comune» in cui ha messo in luce il valore della nostra Costituzione. Il presidente dei vescovi italiani elogia la Carta fondamentale della Repubblica. Per dirla con un’espressione d’altri tempi, le due sponde del Tevere mai così vicine.

«La Chiesa vive sempre in un perimetro e poi lo supera. Vive in una casa, ma poi ha una casa sempre più grande perché alla fine è a casa ovunque, deve essere a casa ovunque. Vive in una nazione ma non è mai nazionalista. La Costituzione italiana è frutto delle sofferenze di una generazione che ci ha donato tanto valore e tanta consapevolezza che devono restare vivi, non certo diventare un museo o alimentare una retorica. Oggi viviamo un momento di ricostruzione e siamo costretti - se volete - a guardare l’orizzonte, a proiettarci nel futuro. La Costituzione è una grammatica comune, ricca di riferimenti all’etica del Cristianesimo. E oggi dire che le istituzioni devono aiutare a costruire con parsimonia e oculatezza quella che chiamiamo “Next Generation” corrisponde all’immagine bellissima della mistica francese Madeleine Delbrêl quando parla del “filo che tiene insieme il vestito”: la capacità del sarto è giusto quella di rendere invisibile il filo».

Lei nella sua «lettera» parla anche di Pnrr. Talora appare quasi alla stregua di un nuovo totem, ma è forse l’ultima occasione per provare a colmare il ritardo del Mezzogiorno rispetto al resto d’Italia. Molti però non vogliono più sentire parlare di «questione meridionale», ne appaiono addirittura infastiditi.

«Guardi, basterebbe dire che nel Sud la speranza di vita è di tre, quattro anni inferiore. Non va mica bene. Per non parlare della fuga dei giovani meridionali, a Bologna ne vedo tanti che vengono a studiare e poi restano: lasciano qualcosa nelle città e nei paesi del Mezzogiorno e per certi versi tolgono qualcosa alle città e ai paesi del Meridione. I vescovi siciliani hanno di recente dedicato una lettera pastorale a questo tema. Una questione meridionale esiste, eccome, non si può ignorare».

Torniamo alla guerra e alla pace. Una speranza concreta c’è, secondo lei?

«Dobbiamo pregare. E la Chiesa, come dice papa Francesco, è impegnata a fare tutto ciò che può per cercare di realizzare la scultura della pace dentro qualcosa di molto rozzo come un blocco di marmo: sembra inconcepibile, ma alla fine la bellezza della pace è possibile. La pace è l’aspirazione di tutti. Il vero problema è il prezzo della pace che nasce da una vittoria e da una sconfitta, invece ogni vittoria è una sconfitta, come sosteneva don Primo Mazzolari».

Qual è lo stato di salute della Chiesa italiana dopo il Covid?

«Il Covid ha rivelato tante fragilità, ma anche mostrato tanta forza, tanta temperanza, che è una delle nostre virtù cardinali, e oggi si chiamerebbe “resilienza”. Certamente la pandemia ha rivelato l’isolamento, la solitudine, il distanziamento, e soprattutto il limite che le minacce pongono all’uomo con la sua presunzione di onnipotenza, l’uomo che fa ancora più fatica a misurarsi con la propria debolezza. Ed è sempre un incontro non facile quello con la propria debolezza. La Chiesa, direi, è un grande punto di incontro e di comunità, di consapevolezza e di cambiamento, nel tentativo di essere ancora più vicina alle persone».

Oscar Iarussi

© La Gazzetta del Mezzogiorno, sabato 11 giugno 2022, pag. 4