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Il Papa: torniamo al Concilio «reale»

La scelta di Benedetto

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Concilio raccontato da un testimone. Un testimone, prima ancora che attento e qualificato, appassionato. Innamorato di quella Chiesa che nel Concilio riponeva «aspettative incredibili», anche se poi ha faticato, e fatica, a realizzarsi, perché il «Concilio dei giornalisti» è stato «più forte del Concilio reale». Ma «la forma reale era presente, e sempre più si realizza come vero rinnovamento della Chiesa». Di qui, allora, l’invito a «lavorare perché il vero Concilio, con la forza dello Spirito Santo, agisca e sia rinnovata la Chiesa. Speriamo che questo Concilio vinca».

Benedetto XVI ha salutato così il clero di Roma, il "suo" clero. Con un lungo – oltre 45 minuti – discorso a braccio sulla sua esperienza del Concilio Vaticano II, denso di ricordi, aneddoti, considerazioni. In un’Aula Paolo VI dove l’emozione, la commozione, l’affetto li si poteva letteralmente toccare, papa Ratzinger s’è congedato, in qualche modo, dai preti della sua diocesi lasciando loro un mandato indimenticabile. «Io, ritirato nella preghiera, sarò sempre con voi, nella certezza che vince il Signore», ha detto loro, alla fine, accennando alla sua prossima rinuncia al ministero petrino: «Anche se mi ritiro in preghiera – ha ribadito – sono sempre vicino a tutti voi, e sono sicuro che anche voi siete vicini a me. Anche se per il mondo rimango nascosto».

Salutato al suo ingresso in aula da un lunghissimo applauso, che si sarebbe ripetuto al termine dell’udienza, e ricevuto l’indirizzo di saluto del cardinale vicario di Roma Agostino Vallini, rimasto al suo fianco per tutto il tempo, Benedetto XVI ha iniziato a raccontare del Concilio a partire da «un aneddoto», ossia del come egli stesso arrivò al Concilio, prima come assistente personale del cardinale Josef Frings di Colonia, e poi come perito di quelle assise. A lui, nel 1961 il più giovane professore di teologia dell’Università di Bonn, Frings aveva chiesto di proporgli una traccia per una conferenza su Il Concilio e il mondo nel pensiero moderno, che avrebbe dovuto tenere a Genova, su invito del cardinale Siri. Un intervento probabilmente molto "innovativo" – «Io ero pieno di timore...» – che Frings volle leggere così com’era. Poi, ha proseguito, Giovanni XXIII mandò a chiamare il cardinale, e Frings, salutando il giovane professore prima di presentarsi dal Papa vestito della porpora, scherzò: «Forse quando torno non sarò più cardinale, è l’ultima volta che porto addosso questa roba». «Poi in realtà – ha proseguito – papa Giovanni entrò e disse “Grazie eminenza, lei ha detto le cose che volevo dire e non ho trovato le parole”. Vuol dire che erano le parole giuste».

Di qui, nell’aula delle udienze, s’è dipanato il racconto di un Concilio spesso accusato «di non aver parlato di Dio» quando, invece, l’ha fatto, e proprio a partire dal suo «primo atto», che è stato di «aprire tutto il popolo santo» alla liturgia, attraverso la riforma liturgica, portando a compimento un processo cominciato già da Pio XII. E, ha sottolineato papa Ratzinger, è stato «molto bene» che sia stato questo il primo tema affrontato, perché in questo modo il Concilio ha affermato «il primato di Dio, il primato della rivelazione». Il mistero pasquale, in questo modo, diventa il paradigma dello stile del cristiano e del «tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e domenicale, giorno della Risurrezione del Signore». «Peccato che oggi – ha osservato il Pontefice – la domenica si sia trasformata nel fine settimana, mentre è l’inizio della creazione e dell’incontro con Cristo Risorto».

Quindi ha sottolineato le «grandi aspettative» che c’erano attorno a quel fatto di Chiesa, in quegli anni «pieni di speranza, di entusiasmo, di volontà di fare nostro il progresso» della Chiesa, di contribuire alla «forza del domani, e dell’oggi» della Chiesa, alle prese con il pensiero «contrastante» del modo moderno. I vescovi «volevano essere il soggetto», da «responsabili, non rivoluzionari», tant’è vero che prima di preparare le liste per le Commissioni «volevano conoscersi un po’». Così è cominciata una «forte attività» fatta di «piccoli incontri trasversali», durante i quali «ho conosciuto grandi figure come i padri De Lubac, Danielou, Congar. E questa è già un’esperienza dell’universalità della Chiesa, che non sempre viene da imperativi dall’alto, ma insieme cresce, sotto la guida del successore di Pietro».

Un modo di dire, e di vivere, il «noi siamo Chiesa – ha aggiunto – ma non nel senso di un gruppo separato». Anche in quel momento, ha ricordato, il tema della collegialità dei vescovi in rapporto al popolo di Dio «appariva a molti come una lotta di potere, e forse qualcuno ha pensato al suo potere. Ma non era questo: era essere un’unica Chiesa che cammina insieme». Al Concilio, ha osservato, questa tematica, «è stata al centro di discussioni molto accanite, direi un po’ esagerate». In realtà, «serviva per esprimere che i vescovi insieme sono un "corpo", continuazione del "corpo" dei 12 Apostoli, e solo uno è il successore di Pietro, mentre gli altri lo sono di tutti gli apostoli insieme». Tutto questo quando il concetto di popolo di Dio, «elemento di continuità con l’Antico Testamento», era fino ad allora «un po’ nascosto», «Ancora più conflittuale – ha rivelato – era il problema della Rivelazione: gli esegeti cattolici si sentivano in situazione di negatività nei confronti dei protestanti che facevano le "grandi scoperte"». Questa, secondo il Papa, «è stata una battaglia pluridimensionale nella quale fu decisivo Paolo VI, che con tutta la delicatezza e il rispetto propose 14 formule per ribadire che la fede è basata sulla Parola e sulla Tradizione in quanto la certezza della Chiesa sulla fede non nasce solo da un libro isolato, ma ha bisogno del soggetto Chiesa. Potevamo scegliere tra 14 formule, ma una dovevamo sceglierla».

Benedetto XVI ha quindi ricordato la genesi dei principali documenti conciliari, dalla Gaudium et spes alla Nostra aetate (sottolineando, riguardo a quest’ultima, la raccomandazione dei vescovi dei Paesi arabi a parlare anche di islam: «Al tempo non lo abbiamo molto capito – ha ammesso – oggi sappiamo che era necessario»), e ha concluso la sua testimonianza parlando di quello che ha definito «il Concilio dei giornalisti», che si svolgeva «fuori» dalla Chiesa. Per i media, ha detto, «il Concilio era una lotta politica, di potere tra i diversi poteri della Chiesa». Di qui la «banalizzazione dell’idea del Concilio», per di più «accessibile a tutti». Tutto ciò, per il Papa, «ha creato tante calamità, problemi, miserie. Seminari chiusi, conventi chiusi, liturgia banalizzata. Il vero Concilio ha avuto difficoltà a realizzarsi. Il Concilio virtuale è stato più forte del Concilio reale. Ma la forma reale era presente, e sempre più si realizza come vero rinnovamento della Chiesa».

Salvatore Mazza
 
© Avvenire, 15 febbraio 2013
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