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Il pastore dell’Esodo. Mosè e Miriam: guida pastorale e profezia

Meditazione di Sr. Elena Bosetti sjbp, suora di Gesù buon Pastore, della Famiglia Paolina, al Ritiro Spirituale per il Clero diocesano. Oasi S. Maria, Cassano Murge, venerdì 16 novembre 2012

379px-Maryam_and_Moses_painting.jpgIl Pastore di Israele non è solo il compagno di viaggio. È anche e soprattutto il Dio che ascolta il gemito degli oppressi e scende per strapparli dalla mano del Faraone. È Lui che fa per primo l’esodo (dall’alto al basso) e apre il cammino di liberazione.
In questo ritiro ci soffermeremo sulle figure di Mosè e Miriam. Chi fa uscire Israele dall’Egitto è indubbiamente Dio, ma ciò non si realizza senza mediazione umana. Recita il Salmo 77 (78): “Guidasti come gregge il tuo popolo, per mano di Mosè e di Aronne (v. 21). L’affermazione non sorprende poiché già nelle tradizioni dell’esodo i nomi di Mosè e di Aronne sono costantemente associati. Suona invece audace il passo del profeta Michea che insieme ai due fratelli ricorda anche Miriam:
 

Popolo mio, che cosa ti ho fatto?
In che cosa ti ho stancato? Rispondimi.
Forse perché ti ho fatto uscire dall’Egitto,
ti ho riscattato dalla casa di schiavitù
e ho mandato davanti a te
Mosè, Aronne e Miriam? (Mi 6,3-4).

 

Le domande sono poste in bocca a Dio stesso (il lamento “Popolo mio che cosa ti ho fatto, in che cosa ti ho contristato? Rispondimi!” è stato ripreso nella liturgia del Venerdì santo, durante il bacio alla croce). Ora è davvero sorprendente che Dio ricordi (per bocca del profeta) che tra i beni da lui concessi al popolo dell’esodo c’è anche la guida pastorale di Miriam. In effetti l’espressione “ho mandato davanti a te” che descrive l’opera dei tre fratelli rinvia all’azione di guida del Pastore che cammina davanti al suo gregge. Anche Gesù in Gv 10 dice che il pastore “dopo aver condotto fuori dal recinto tutte le sue pecore, cammina innanzi a loro” (Gv 10,4). Notiamo il linguaggio esodale (“condurre fuori”) e quello di guida, di archegos che cammina innanzi e apre la strada. Ora questa funzione, nel passo di Michea che abbiamo citato, è attribuita non solo a Mosè e ad Aronne, ma anche a Maria/Miriam.
Anche le antiche fonti giudaiche riconoscono a Miriam un ruolo di guida: è accanto a Mosè non solo in qualità di sorella maggiore, ma come donna carismatica e profetessa.
Mosè, Aronne e Miriam sono visti come i tre pastori fedeli dell’Esodo, preannunciati da Giuseppe quando al coppiere del faraone interpretò il sogno della vigna con i tre tralci (Gen 40,9-11). Il Targum di Mi 6,4 precisa gli ambiti del loro rispettivo governo: Io ho inviato davanti a te tre profeti: Mosè per insegnare la tradizione sui giudizi (cf Es 18), Aronne per fare sul popolo il rito di espiazione (Num 17) e Miriam per istruire le donne (Es 15,20.21). Miriam, in certo senso, è la prima teologa delle donne, maestra e mistagoga...
 

1. Miriam, sorella che veglia e si prende cura
 

Colui che avrebbe condotto Israele attraverso le acque del Mar Rosso, è lui stesso un “salvato dalle acque”. La Scrittura non menziona il nome della fanciulla che nascosta tra i giunchi del Nilo veglia su di lui (Es 2,4), ma la tradizione giudaica non ha esitato a identificarla con Miriam.
Il Libro dei Giubilei (47,5) rende vivida la scena con un grazioso dettaglio: “Tua madre veniva di notte per allattarti e durante il giorno Miriam, tua sorella, ti proteggeva contro gli uccelli”. Mosè deve la vita a tre donne coraggiose che non temono di contrapporsi all’ordine del Faraone (obiezione di coscienza al femminile, che ha luogo all’interno della stessa casa del despota: la figlia del Faraone non è come suo padre, è presa da pietà per quel bambino ebreo …).
Il testo biblico precisa che la sorella di Mosè vegliava su di lui “a una certa distanza” (merahoq), quella giusta distanza che consente di avere la situazione sotto controllo... Miriam è sorella che vigila con sapienza e discrezione. Ecco un altro aspetto che caratterizza l’azione pastorale di Miriam: prendersi cura “vegliando”. Vegliare è compito essenziale del pastore, come ricordano i pastori di Betlemme che “vegliavano nella notte” (Lc 2,8).
 

2. L’esperienza pastorale di Mosè
 

Il racconto di Es 3,1-12 presenta la vocazione e missione di Mosè. Si direbbe che Dio si preoccupa in primo luogo di farsi notare da Mosè, di attirare la sua attenzione.
Mosè è ormai avanti negli anni. Era cresciuto in casa del Faraone, con tutti i vantaggi e le opportunità che gli venivano offerte da quel raffinato ambiente culturale, ma dopo essersi coinvolto in modo fallimentare nella liberazione dei suoi fratelli era fuggito nella regione di Madian. Lì aveva trovato accoglienza nella famiglia di Reuèl/Ietro, sacerdote e pastore (Es 2,11-22). E proprio facendo il pastore egli giunge al monte di Dio:
 

Mentre Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb.
L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava.
Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?» (Es 3,1-3).

 

Il fuoco ha sempre in sé qualcosa di spettacolare e di attraente, anche se è pericoloso avvicinarsi troppo. Mosè “si meravigliò” (ethaumazen), dice il protodiacono Stefano nel suo discorso davanti al sinedrio (At 7,31). Questa capacità di meraviglia non è affatto scontata, all’età di 80 anni. Osserva il compianto cardinal Martini: “Avrebbe potuto dire: «C’è del fuoco; è pericoloso per il gregge se il fuoco si allarga; andiamo via, portiamo le pecore lontano». Oppure avrebbe potuto dire: «C’è qualcosa di soprannaturale; è meglio non farsi prendere in trappola; partiamo e lasciamo che i più giovani, quelli che hanno più entusiasmo, se ne interessino: io ho già avuto le mie esperienze e mi basta». Invece «Mosè si meravigliò», cioè si fece prendere da quella capacità, che è propria del bambino, di interessarsi a qualcosa di nuovo, di pensare che c’è ancora del nuovo” (Vita di Mosè, Borla, Roma 1981, p. 30).

Siamo capaci di questa meraviglia? Ci lasciamo attrarre o fuggiamo dal Roveto ardente? Fuoco è il nostro Dio! Ben lo sanno i profeti e gli amanti. Fuoco che le grandi acque non possono spegnere (Ct 8,6-7).

Notiamo che il Signore non solo attira la vista e l’attenzione di Mosè, ma gli offre anche un segnale di reciprocità facendogli capire che è “visto”. Mosè si sente chiamato per nome, vale a dire “veduto” per quello che è, nella sua unicità e concretezza esistenziale:
 

Il Signore vide che si era avvicinato per guardare;
Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!».
Rispose: «ECCOMI!».
Riprese: «Non avvicinarti oltre!
Togliti i sandali dai piedi,
perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!».
E disse: «Io sono il Dio di tuo padre,
il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,4-6).

 

C’è qualcuno che lo vede. Nel silenzio del deserto Mosè sente gridare il proprio nome. La voce che lo chiama viene dal fuoco: «Mosè, Mosè». Due volte. Esattamente come due volte fu chiamato Abramo sul monte indicato da Dio, al vertice di tutto quel cammino di fede che sta per essere purificato dalla prova del fuoco (il sacrificio del figlio). Abramo rispose: «Eccomi!» (Gen 22,11), e non diversamente fu la risposta di Mosè (Es 3,4). Qui però non si tratta di offrire un sacrificio, ma piuttosto di rendersi conto di fronte a chi si sta.
Commenta Gregorio di Nissa: «Mentre parlava, non solo con gli occhi accolse il prodigio della luce, ma - ciò ch’è più straordinario di tutto - fu illuminato dalla luce anche l’udito: infatti il beneficio della luce, ripartitosi fra i due sensi, abbagliava gli occhi con lo splendore dei raggi mentre illuminava misticamente l’orecchio con purissimi precetti. La voce, che usciva dalla luce, comandò a Mosè di non accedere al monte appesantito da calzari fatti di pelle morta, ma, scioltisi i piedi dai calzari, di toccare così quanto di quella terra era illuminato dalla luce» (La vita di Mosè (a cura di Manlio Simonetti), Mondadori Editore, Milano 1984, p. 21).
Dunque al mistero ci si deve accostare non con pelle morta (i calzari), ma con pelle viva, a piedi nudi!

Togliti i sandali, dice la Voce che esce dal Fuoco. I sandali (o le scarpe) indicano il legame dei piedi con la terra, e in quanto tali, in quanto calpestano la terra, sono simbolo di possesso e di potere. Il Salmista afferma che il Signore getta i suoi sandali sull’Idumea (Sal 60,10) per indicare che prende dominio su quel paese.
Al contrario, Mosè deve levarsi i sandali, deve stare davanti a Dio in tutta umiltà e sottomissione, senza pretese di possesso e di dominio. L’interpretazione giudaica vi coglie anche un aspetto pastorale: Mosè deve togliersi i sandali dai piedi perché nel luogo santo in cui si trova riceverà la Legge per insegnarla ai figli d’Israele.
Possiamo cogliere inoltre una simbolica sponsale. Davanti al Roveto che brucia senza estinguersi occorre restare a piedi nudi, totalmente disponibili all’amore. E già s’intuisce cosa comporta essere “amico” dello Sposo (espressione che in Gv 3,29 qualifica il Battista).

  • Togliti i sandali. Il roveto ardente non è solo lassù, sulla cima dell’Oreb. C’è un roveto ardente in ogni essere umano, un roveto che arde e non si consuma, un roveto davanti al quale occorre togliersi i sandali e ciò che essi simboleggiano: la rinuncia a ogni forma di dominio e di supremazia.
  • Siamo chiamati a entrare nella terra santa della relazione a piedi nudi. Occorre “nudità” di piedi e di anima, delicatezza e massimo rispetto per ascoltare l’altro nella sua diversità e unicità. Occorre entrare a piedi nudi e come sui carboni ardenti nel mondo interiore dell’altro, nell’accompagnamento spirituale, nell’opera educativa, nel ministero di cura pastorale (cf. E. Bosetti, Sandali e bisaccia. Percorsi biblici del “prendersi cura”, Cittadella Editrice, Assisi 2010).

 

Da pastore del gregge di Ietro a pastore del popolo di Dio
 

Dio ordina a Mosè di far uscire dall’Egitto il suo popolo. Ora deve fare a nome di Dio ciò che a quarant’anni egli avrebbe fatto a titolo personale... Dove avrebbe condotto il gregge del Signore quando alla soglia dei quarant’anni aveva iniziatola sua rivoluzione uccidendo l’egiziano? Ora invece egli è arrivato al “monte di Dio” e dunque conosce la strada …
Mosè avanza comunque le sue riserve: “Chi sono io per andare dal faraone e per fare uscire dal l’Egitto gli Israeliti?” (Es 3,11). Ma Dio lo rassicura e gli dà un segno: “Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte” (Es 3,12).
Si noti la corrispondenza tra l’inizio e la conclusione di questo brano:
 

3,1 Mosè arrivò al monte di Dio
3,12 quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte
 

Questa corrispondenza letteraria è in funzione di un messaggio: dopo aver incontrato il Dio dei suoi padri, Mosè è mandato a far uscire il popolo e a condurlo sulla stessa montagna per servire Dio, ossia per adorare, rendere culto. Egli è rinviato in Egitto allo scopo di portare il popolo dove lui è già arrivato. Ora è in grado di condurre per esperienza al monte di Dio, come una guida alpina alla quale ci si affida non perché ha imparato il sentiero sulla mappa, ma perché conosce la strada per esperienza diretta.
Questa dimensione di esperienza personale, questo “sapere” non per sentito dire ma per acquisizione pratica e diretta, è stato sempre apprezzato nella tradizione giudaica, come attestano alcuni simpatici aneddoti. Raccontano i Maestri di Israele che Dio lo chiama ad occuparsi del suo popolo perché è stato mite e buono con le pecore di Ietro:
 

“Quando Mosè nostro Maestro - la pace sia su di lui! - pascolava il gregge di Ietro nel deserto, un capretto scappò via da lui, ed egli lo inseguì fin quando giunse ad un luogo ombreggiato. Quando giunse al luogo ombreggiato, apparve uno stagno d’acqua e il capretto si fermò per bere.
Mosè, fattosi vicino, disse: Non sapevo che tu eri fuggito perché avevi sete; tu devi essere stanco. Si mise quindi la bestiola sulle spalle e andò via.
Allora Dio gli disse: Siccome tu pasci con misericordia il gregge di un mortale, ti assicuro che tu pascerai il mio gregge, Israele” (Es R. 2,2-3).
 

3. Mosè e Gesù, “il pastore grande” (Eb 13,20)
 

La conclusione della Lettera agli Ebrei, individuata dagli esegeti in 13,20-21 (segue il biglietto di accompagnamento) recita così:
 

20Il Dio della pace, che ha ricondotto dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un’alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, 21vi renda perfetti in ogni bene, perché possiate compiere la sua volontà, operando in voi ciò che a lui è gradito per mezzo di Gesù Cristo, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

 

Perché dopo aver tanto parlato di Gesù come “sacerdote” l’autore conclude con il titolo di “pastore”, che non ricorre altrove nella lettera? Generalmente un bravo omileta (e l’autore di Ebrei lo è) nella conclusione tira i fili del suo discorso... come mai allora l’ingresso (proprio nella conclusione) il titolo di pastore?
In realtà la conclusione di Ebrei presenta molti fili di collegamento con quanto precede e in particolare con la figura di Mosè. La prima parte della lettera (in particolare al cap. 3) mostra la superiorità di Gesù rispetto al grande condottiero dell’esodo, superiorità che qui viene richiamata con l’aggiunta della qualifica “grande” al titolo di pastore. Rispetto al sangue dell’alleanza sinaitica sancita da Mosè, Ebr 13,20 parla di “sangue dell’alleanza eterna” sancita dal “Pastore grande”. Sullo sfondo si percepisce un collegamento con Is 63,11 dove Dio è invocato come «colui che fece salire dal mare/dalla terra il pastore delle pecore (Mosè)»:
La LXX presenta diverse varianti rispetto al Testo Masoretico (TM). Il testo ebraico evoca la liberazione dei Padri («li fece salire») insieme ai «pastori», un plurale che sembra alludere, oltre a Mosè, anche ad Aronne e Miriam (cf. Mi 6,4), mentre la LXX si concentra su Mosè, di cui per altro tace il nome. Essa parla del «pastore delle pecore» fatto salire «dalla terra», mentre il TM ha «dal mare». In entrambi i testi il senso rinvia comunque all’evento para¬dig¬matico della storia di Israele, la liberazione dall’Egitto.
La conclusione di Ebrei rilegge l’evento salvifico dell’esodo nel nuovo orizzonte di signifi-cato che la figura del Pastore assume alla luce della morte-risurrezione del Cristo, anzi proprio in tale orizzonte stabilisce un ulteriore confronto con Mosè, rispetto al quale Gesù merita la qualifica di «quello grande» (ho megas). Infatti è il pastore che Dio “ha fatto salire” (anagagōn) non semplicemente dal “mare” ma “dai morti”.
Per un approfondimento di questo tema mi permetto di rinviare a Elena Bosetti, “Il pastore, quello grande. Risonanze e funzione conclusiva di Eb 13,20-21” in: J. E. Aguilar Chiu – F. Manzi – F. Urso – C. Zesati Estrada (edd.), “Il Verbo di Dio è vivo”. Studi sul Nuovo Testamento in onore del Cardinale Albert Vanhoye, S.I. (Analecta Biblica 165) Editrice Pontificio Istituto Biblico, Roma 2007, pp. 443-461.
 

4. Miriam, ermeneuta e profetessa danzante
 

Facciamo un salto nel testo e nel tempo. Portiamoci idealmente sulle rive del Mar Rosso. Il mare si è aperto davanti agli occhi increduli degli Israeliti lasciandoli passare sull’altra riva, mentre l’onda ha travolto e sepolto i carri e i cavalli del Faraone.
Di quel mirabile evento che segna in modo indelebile l’epopea dell’esodo, Miriam si fa ermeneuta danzante. È lei che trascina le figlie di Israele nel canto e nella danza: “Allora Miriam, la profetessa, sorella di Aronne, prese in mano un timpano: dietro a lei uscirono le donne con i timpani, formando cori di danze” (Es 15,20).
Questa donna che canta e danza con tanto entusiasmo e sembra nel pieno vigore della sua giovinezza, di fatto dovrebbe avere sui novant’anni, stando alle indicazioni di Es 7,7. Suscita perciò ammirazione ancora più grande poiché il suo entusiasmo di novantenne contagia e trascina l’intero corteo femminile a cantare e danzare in onore del Signore.
Miriam apre il corteo femminile, una lunga schiera di donne, che si prolunga nel tempo e per le generazioni. È una danza in onore del Signore, l’unico prode che in quella notte ha lottato e trionfato. Alle donne la profetessa insegna questo ritornello: “Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere!” (Es 15,21).
Ma se Miriam insegna il “ritornello”, ovvero il leitmotiv, c’è da sospettare che sia l’autrice dell’intero canto. In effetti il suo ritornello coincide con l’ouverture del cantico posto in bocca a Mosè e agli Israeliti (Es 15,1).
Anzi, sotto il profilo letterario, esso si collega, senza interrompere il filo del racconto, a Es 14,9, rappresentando così la «risposta» innica all’evento salvifico. Miriam svolge un ruolo di mediazione ermeneutica: interpreta il senso dell’evento e intona il canto liberatorio quale risposta del popolo all’azione divina.
Il suo entusiasmo è contagioso e trascina nella danza tutte le figlie di Israele per celebrare l’unico vero protagonista: non i prodi di Israele, ma il Signore ha mirabilmente trionfato. È Lui che ha capovolto le sorti a favore degli oppressi.
 

5. Muore Miriam, manca l’acqua
 

Ritroviamo la simbolica dell’acqua e del pozzo (che abbiamo visto nel ritiro precedente parlando di Giacobbe e Rachele). Secondo le antiche tradizioni giudaiche il dono dell’acqua nel deserto è legato in particolare alla figura di Miriam. Come l’acqua fu data per i meriti di Miriam, così alla sua morte l’acqua viene a mancare:
 

Il popolo si stabilì a Cadesh.
È lì che Miriam morì e fu sepolta.
Mancava l’acqua per la comunità (Num 20,1-2)
 

Per sé il testo biblico dà una notizia dopo l’altra, senza alcun rapporto intrinseco. Ma ciò che per il lettore occidentale è chiaramente distinto, per i rabbini non è privo di sottili collegamenti.
Nel caso specifico, poiché l’acqua era stata donata per i meriti di Miriam, ecco che alla sua morte l’acqua vien meno: “Poiché il pozzo era stato donato per i meriti di Miriam, quando ella morì il pozzo fu nascosto e non ci fu più acqua per la comunità” (Targum di Num 20,2).
I rabbini insegnano che Israele ricevette tre doni per merito delle tre grandi figure dell'Esodo: il pozzo (l’acqua) per merito di Miriam, la colonna di nube per merito di Aronne, la manna per merito di Mosè. Ma questi doni furono tolti a Israele con la morte dei rispettivi intermediari: quando Miriam morì, scomparve il pozzo; quando Aronne morì, scomparve la nube della gloria; quando Mosè morì, scomparve la manna … fino all’avvento del Messia.

  • La fede di Miriam, la profetessa, permette all’acqua di salire. L’acqua della Parola che vivifica Israele durante il cammino nel deserto, verso la terra promessa.
  • Chiediamo che viva in noi l’audacia e la passione profetica di Miriam:
Miriam,
sorella che vigili
sulla vita minacciata
finché il pericolo cede alla salvezza,
guida delle figlie di Israele
e interprete ardita dei loro cuori,
non morire!
Tu sciogli le lacrime in canto,
ritmi coi tamburelli
la gioia della vita,
l’alleluia per Yahweh
che ha mirabilmente trionfato.
Non morire Miriam!
Non farci mancare l’acqua del tuo canto,
l’acqua della tua profezia.
Non morire Miriam!
Vivi in noi che ancora lottiamo
per un esodo nuovo.
Vivi in noi che sogniamo la vera libertà,
l’amore senza frontiere,
il gratuito, il canto, la danza.
Non morire Miriam
prima di averci indicato
i monti della Terra promessa!
 
  • Abbiamo bisogno di una pastorale profetica. La figura di Miriam, la profetessa, evidenzia molteplici aspetti: dal prendersi cura all’interpretazione profetica delle opere di Dio, dalla guida al coinvolgimento liturgico, nel canto e nella lode …
  • Sul crinale del Nuovo Testamento il canto della profetessa dell’esodo è raccolto da un’altra Miriam che lo rilancia nel suo Magnificat, il canto del già e del non ancora: “Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili” (Lc 1,52).

 

6. Evangelizzare nella prospettiva del Magnificat
 

L’accoglienza della Parola attiva profondamente la Miriam del Nuovo Testamento che subito si alza e si mette in cammino. Dio parla attraverso i segni, e il segno indicato da Gabriele porta sulla montagna di Giuda (Lc 1,39). Maria entra nella casa di Zaccaria, il sacerdote, ma sorprendentemente non è a lui che rivolge il saluto bensì a lei: “e salutò Elisabetta” (Lc 1,40).
Eccole di fronte le due donne graziate dal Signore. Come già Sara, l’anziana Elisabetta sperimenta nel suo corpo il palpito vibrante della vita mentre lei stessa, “ricolma di Spirito Santo” e trascinata nella danza dal frutto del suo grembo, riecheggia lo stupore di Davide davanti all’arca dell’alleanza: “A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?” (Lc 1,43).
Va dritta all’essenziale Elisabetta, scopre che la grandezza di Maria sta proprio nel suo credere, nel suo pieno affidarsi alla Parola: “beata colei che ha creduto!” (Lc 1,45). È la fede la chiave interpretativa della vera grandezza di Maria, “la Vergine fatta Chiesa” (San Francesco).
 

L’umile serva tra i poveri del Signore
 

Un duplice movimento (ascendente e orizzontale) tesse il Magnificat. Il movimento ascendente ritrae Maria tutta protesa verso il suo Signore, mentre il movimento orizzontale la presenta tra i piccoli, i poveri, gli umili (anawim).
Sul palcoscenico della storia da un lato stanno i ricchi e i potenti, dall’altro i poveri e i sofferenti. Ma la Vergine canta un portentoso rovesciamento di situazione: “ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Lc 1,52-53).
Il Magnificat è terribilmente sovversivo. Canta la rivoluzione di un Dio che si fa uomo, che si umilia per innalzarci, che si fa povero per arricchirci (2 Cor 8,9). Quali implicazioni per la nostra pastorale? Evangelizzare nella prospettiva del Magnificat significa entrare nella logica profetica di questo cantico. Significa coltivare uno sguardo contemplativo per cogliere l’azione di Dio nella storia e in questa prospettiva aprire il futuro e cantare la speranza.
 

Elena Bosetti, sjbp

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Elena Bosetti, nata a Pressano di Lavis (TN)  il 14 agosto 1950, è suora di Gesù buon Pastore, della Famiglia Paolina.

Dottore in teologia biblica, è autrice di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative tradotte in più lingue e ha commentato per diversi anni il Vangelo nel programma “A sua immagine - Le ragioni della speranza” (Rai Uno).

Già docente di ecclesiologia e di esegesi del NT alla Pontificia Università Gregoriana e in altri Atenei romani, insegna all’Istituto di Teologia per la Vita Consacrata “Claretianum” (Roma) e all’Istituto Superiore di Scienze Religiose “C. Ferrini” (Modena).

Collabora con diverse Riviste di carattere teologico e pastorale. Si dedica al ministero della Parola e alla formazione biblica, in Italia e all’estero.

Ha conseguito presso la Pontificia Università Gregoriana (Roma) il baccalaureato in Filosofia (1973) e la licenza in teologia con specializzazione in dogmatica (1978). Ha frequentato lo Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme (1982-84) e trascorso vari periodi di ricerca presso l’École Biblique. Nel 1988 ha conseguito il dottorato in teologia biblica presso la Pontificia Università Gregoriana, con la tesi «Poimēn kai Episkopos: la figura del pastore nella Prima Lettera di Pietro (2,18-25; 5,1-4)».

Tra le sue pubblicazioni:

-         Il Pastore. Cristo e la chiesa nella Prima lettera di Pietro (Supplementi alla Rivista Biblica, 21) EDB, Bologna 1990.

-         Yahweh Shepherd of the People. Pastoral Symbolism in the Old Testament, St Pauls, Slough (UK) 1993.

-         Cantico dei Cantici: “Tu che il mio cuore ama”, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2001.

-         con A. Colacrai (edd.), Apokalypsis. Percorsi nell’Apocalisse di Giovanni. In onore di Ugo Vanni, Presentazione di Carlo M. Martini, Cittadella Editrice, Assisi 2005.

-         Donne della Bibbia: bellezza intrighi fede passione, Cittadella Editrice, Assisi 2009.

-         Meditating with Scripture: John's Gospel, The Bible Reading Fellowship, Abingdon (UK) 2010.

-         Sandali e bisaccia. Percorsi biblici del “prendersi cura”, Cittadella Editrice, Assisi 2010.

 

 

 

 

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