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"Il peccato non è temere lo straniero, è rispondergli guidati dalla paura"

Nella Giornata del migrante e del rifugiato papa Francesco ricorda i timori delle comunità locali e dei migranti, ma sottolinea anche che, riconoscendo Gesù in chi ha bisogno, dobbiamo imparare ad amare lo straniero come noi stessi

Accogliere, proteggere, promuovere e integrare. I quattro verbi che il Papa ha scelto per il messaggio per la Giornata mondiale dei migranti e dei rifugiati, vengono spiegati da Bergoglio nel corso della messa celebrata per l’occasione. Messa alla quale, per la prima volta, numerosi migranti di prima e seconda generazione. Soprattutto a loro, rappresentanti di 49 Paesi diversi, insieme con una settantina di diplomatici accreditati sia presso al Santa Sede che presso lo Stato italiano, Francesco  ricorda la speciale chiamata che Dio, come dicono le letture di oggi, rivolge a tutti i cristiani. «Come ha fatto con Samuele», dice il Papa, Dio «ci chiama per nome e ci chiede di onorare il fatto che siamo stati creati quali esseri unici e irripetibili, tutti diversi tra noi e con un ruolo singolare nella storia del mondo».

Chiamati da Dio all’incontro, come spiega il Vangelo: «Dove dimori?», chiedono i discepoli a Gesù. E la sua risposta «Venite e vedrete!», sottolinea il Papa, «apre a un incontro personale, che contempla un tempo adeguato per accogliere, conoscere e riconoscere l’altro».

«Ogni forestiero che bussa alla nostra porta», continua Francesco, «è un’occasione di incontro con Gesù Cristo, il quale si identifica con lo straniero accolto o rifiutato di ogni epoca. E per il forestiero, il migrante, il rifugiato, il profugo e il richiedente asilo ogni porta della nuova terra è anche un’occasione di incontro con Gesù. Il suo invito “Venite e vedrete!” è oggi rivolto a tutti noi, comunità locali e nuovi arrivati. È un invito a superare le nostre paure per poter andare incontro all’altro, per accoglierlo, conoscerlo e riconoscerlo. È un invito che offre l’opportunità di farsi prossimo all’altro per vedere dove e come vive».

Non nasconde le difficoltà, papa Francesco. Nell’incontro c’è sempre un qualche timore. E avere paura non è peccato. Il peccato, insiste il Papa, è farsi guidare dalle paure nella risposta che si dà all’altro. Guardando la folta presenza di indiani, libanesi, filippini romeni, ucraini, malgasci, cinesi… Francesco ha ribadito che «non è facile entrare nella cultura altrui, mettersi nei panni di persone così diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze. E così spesso rinunciamo all’incontro con l’altro e alziamo barriere per difenderci. Le comunità locali, a volte, hanno paura che i nuovi arrivati disturbino l’ordine costituito, “rubino” qualcosa di quanto si è faticosamente costruito». Ma anche i nuovi arrivati hanno paura, «temono il confronto, il giudizio, la discriminazione, il fallimento».

E se, per i nuovi arrivati, «accogliere, conoscere e riconoscere significa conoscere e rispettare le leggi, la cultura e le tradizioni dei Paesi in cui sono accolti»» e «comprendere le loro paure e apprensioni per il futuro», dall’altro lato, «per le comunità locali, accogliere, conoscere e riconoscere significa aprirsi alla ricchezza della diversità senza preconcetti, comprendere le potenzialità e le speranze dei nuovi arrivati, così come la loro vulnerabilità e i loro timori».

Il Papa sprona a ricordare la parabola evangelica del giudizio universale, quando saremo giudicati non solo sull’accoglienza, ma sulla protezione e sull’aiuto che avremo dato al Signore che veste i panni di chi è «affamato, assetato, nudo, ammalato, straniero e in carcere».

E invita a non rinunciare all’incontro con l’altro, «con il diverso, con il prossimo, che di fatto è un’occasione privilegiata di incontro con il Signore». Invita a pregare partendo da questo «incontro con Gesù presente nel povero, nello scartato, nel rifugiato, nel richiedente asilo». Una preghiera reciproca: «migranti e rifugiati pregano per le comunità locali, e le comunità locali pregano per i nuovi arrivati e per i migranti di più lunga permanenza» perché «in conformità al supremo comandamento divino della carità e dell’amore al prossimo, impariamo tutti ad amare l’altro, lo straniero, come amiamo noi stessi».

Annachiara Valle

© www.famigliacristiana.it, domenica 14 gennaio 2018

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