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L’incapacità del comunicare

"Con te non si può parlare". Quante volte lo abbiamo pensato di qualcuno che ritenevamo responsabile per il mancato avvio di un dialogo? Vorrei partire da qui, per chiedermi se proprio questa frase può interpellare la nostra attitudine al dialogo

“Yeshiva” è il nome dato alla scuola in cui gli studiosi di cultura ebraica studiano il Talmud e la Torah. Il metodo di studio utilizzato è chiamato “Chavruta”, antico termine aramaico che significa “amicizia”. Esso consiste nella lettura e commento di passi dei libri sacri ad opera non di singoli, ma di coppie di studenti. Ogni brano dunque viene letto ad alta voce e commentato di fronte ad un interlocutore specifico che, a sua volta, potrà commentare non solo il brano originario, ma anche il commento del suo “amico” di studio. A differenza di quanto accade nelle nostre biblioteche, dove la regola è il silenzio, nel luogo dagli ebrei deputato allo studio, la Yeshiva, non c’è silenzio, ma un brusio continuo, che può anche assumere i connotati di un vero e proprio chiasso pensoso.

L’idea che è alla base di tale metodo di studio è che il dialogo, l’ascolto dell’altro, il commento siano da preferire rispetto alla lettura solitaria. In effetti, a pensarci, c’è un valore aggiunto nel poter confrontare la propria interpretazione con quella di un altro, senza contare che in questo modo ci sono molte più possibilità di venire corretti in caso di errore.

Ovviamente, perché l’eventuale correzione abbia effetto, occorre essere disponibili a ricevere dall’altro l’indicazione giusta e, più in generale, essere disponibili ad ascoltare. Risiede proprio in questa disponibilità la differenza di fondo tra due distinte attitudini, la monologia e la dialogia.

In continuazione e spesso in modo inavvertito, esse permeano la nostra vita, non esclusa ovviamente la nostra vita lavorativa.

Quanti di noi, di fronte ad un problema da risolvere, sono spontaneamente abituati a rivolgersi prima agli altri (dialogia) e quanti, invece, preferiscono direttamente far da sé (monologia)? È solo un esempio, ovviamente, ma se ne potrebbero fare molti altri.

Nel 1972, Gadamer, uno dei filosofi contemporanei più affermati, scrisse un breve saggio intitolato L’incapacità del comunicare. Già dal titolo, quello scritto sembrava una provocazione. Come è possibile, infatti, sostenere che oggi si è incapaci di comunicare quando siamo costantemente connessi gli uni agli altri? Da tale prospettiva, la presunta incapacità di comunicare può essere senz’altro accantonata o tutt’al più considerata una boutade. E poi, direbbero alcuni, dal 1972 ad oggi sono cambiate talmente tante cose che l’affermazione del filosofo tedesco può essere considerata desueta, con buona pace degli studiosi di filosofia.

È senz’altro vero che oggi si utilizzino, spesso con maestria, le parole. Ed è altrettanto vero che con altrettanta maestria si faccia un uso massiccio degli strumenti per comunicare. E tuttavia, nonostante questo, non è meno vero che non sempre il ricorso alla parola o agli strumenti di comunicazione sia indizio di una attitudine dialogica. Può, anzi, paradossalmente succedere che proprio la parola si riveli lo strumento privilegiato per l’affermazione univoca del proprio sé. Quando ciò accade, noi siamo talmente installati nella monologia che il dialogo rappresenta un obiettivo piuttosto difficile da perseguire.

Conviene, allora, porsi in ascolto di Gadamer, per verificare con lui quali sono le caratteristiche autentiche di un colloquio propriamente detto: «Non il fatto dunque che siamo venuti a sapere qualcosa di nuovo ha fatto di qualcosa un colloquio, piuttosto il fatto che nell’altro ci è venuto incontro qualcosa, che nella nostra esperienza del mondo non ci era ancora capitato di incontrare».

Partendo da queste parole, è possibile – mi sembra – tornare a se stessi, per fare memoria di tutte quelle occasioni in cui, anche indipendentemente dal contenuto della relazione comunicativa, abbiamo fatto esperienza di questo inedito, ciò che manda in frantumi la ripetizione dell’identico che della monologia è il marchio distintivo. In una relazione autentica, di fronte all’altro, cui sia stato riservato lo spazio per una sincera accoglienza delle sue istanze, noi esperiamo una «comunanza non più scindibile».

Pur nella loro brevità, queste indicazioni ci offrono lo spunto per una più coraggiosa analisi di quelle situazioni in cui una comunicazione (con i colleghi, con il partner, con i nostri figli, ecc.) sembrava impossibile.

La frase “Con te non si può parlare”, allora, non esonera da un esame di coscienza nei confronti della nostra attitudine all’ascolto. Come osserva Gadamer, infatti, «ode in modo sbagliato solo colui che ascolta costantemente se stesso, il cui orecchio per così dire è riempito dalle pretese che uno accorda sempre a se stesso, in quanto segue sempre i suoi impulsi e interessi, tanto da non riuscire a udire altro. […]. Purtuttavia il divenire sempre più capaci di comunicare, cioè divenire capaci di ascoltare l’altro, mi sembra essere la vera e propria elevazione dell’uomo verso la vera umanità».

Giovanni Scarafile

[Il presente testo è stato pubblicato in Etica Mente, rubrica della Newsletter del PMI-Southern Italy Chapter - Maggio-Giugno 2017]

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