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L’umiltà di confessarsi garanzia del cambiamento

Il «perdono di Assisi», l’indulgenza e il ricorso al sacramento

03Porziuncola.jpgDa mezzogiorno di ieri e sino alla mezzanotte di oggi è come sempre possibile lucrare l’indulgenza plenaria del «Perdono di Assisi», ottenuta da san Francesco nel 1216. Tra le condizioni per ottenerla c’è – come di consueto per le indulgenze – la confessione sacramentale negli otto giorni precedenti o successivi.

Sono però ancora molti coloro che criticano la confessione ritenendo che sia sufficiente chiedere interiormente perdono direttamente a Dio. La mancanza di comprensione del senso e del valore di questo sacramento tocca in questi giorni un apice in Irlanda, dove due ministri vogliono presentare un disegno di legge per obbligare i sacerdoti a rivelare notizie di abusi sui minori (esecrabili, non ci stancheremo mai di dirlo) apprese in confessione. Risulta insomma sempre più opportuno chiarire o ricordare i motivi sia teologici sia "laici" per confessarsi dal sacerdote.

Dal punto di vista scritturistico non va dimenticato, per esempio, l’annuncio di Gesù ai discepoli: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Gv, 20,22-23). Egli non parla di una remissione mediante la mera accusa dei propri peccati davanti a Dio, bensì tramite la mediazione di altri uomini. Il passo va connesso con quello dell’affidamento a Pietro delle chiavi del Regno dei cieli: «Tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt, 16,19). Potremmo continuare, ma passiamo ad alcune ragioni laiche.

Anzitutto, se ci rivolgiamo interiormente a Dio, l’esame di coscienza rischia di essere frettoloso perché ci viene da pensare che Dio sa già tutto. Se invece dobbiamo riferire le nostre colpe a un sacerdote siamo portati a fare un esame più approfondito e ciò, oltre a essere utile per una buona confessione, ci può aiutare a conseguire un miglioramento morale, perché quest’ultimo esige la chiara conoscenza dei propri difetti. Inoltre, fare una confessione di fronte a un uomo è faticoso e, per alcuni, motivo di umiliazione, ma ha la sua fecondità: sia perché questa sgradevolezza può essere già parte (insieme alla penitenza assegnata dal sacerdote) della pena per il male commesso, ed è davvero poca cosa rispetto all’assoluzione di una colpa come il peccato, che è offesa a Dio; sia perché questa percezione emotiva può risultare un incentivo a non peccare più, appunto per evitare di dover ri-sperimentare ciò che è spiacevole; sia, infine, perché la "fatica" che l’assoluzione è costata ce la fa apprezzare maggiormente, come tutte le cose che otteniamo con un certo sforzo.

L’uomo non è solo spirito, bensì un’entità composta di spirito e corpo, compenetrati profondamente. Dunque, visto che siamo anche corporei, abbiamo bisogno di atti fisico-corporei nei nostri confronti. Per esempio, l’amore (genitoriale, amicale, coniugale, ecc.) si esplica anche attraverso la pacca sulla spalla, l’abbraccio, il bacio. Analogamente, chi si confessa ha bisogno di sentire materialmente con le sue orecchie che il sacerdote gli dica: «Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Ne ha bisogno per essere certo di essere stato davvero perdonato da Dio. Se la confessione fosse solo interiore come potremmo sapere di essere stati perdonati? Solo con una locuzione interiore. Ma, anche in questo caso, come potremmo sapere che non si tratta di un’autosuggestione?

È vero che alcuni sacerdoti possono essere indegni del sacramento che amministrano. Ma l’efficacia di un sacramento non scaturisce dalla santità o meno del ministro, bensì dalla potenza di Dio. Di cui il sacerdote è semplice strumento.

Giacomo Samek Lodovici
© Avvenire 2 agosto 2011
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