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La bombetta, un largo frac. Così nasce il riso

I racconti del buonumore 22

 

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L' ​attenzione si acciuffa con le dita, l’applauso con gli occhi, la risata con la grazia. Le tre regole del comico. Il resto è cosa da manuali o volantini da circo, e lui questo lo sapeva da quando aveva iniziato a far ridere. Poi aveva perso l’incanto, e uno appena perde l’incanto non sa perché succede. Di colpo si era accorto del pubblico che non rideva più, sorrideva a malapena. Gli angoli della bocca alzati di una miseria. Aveva l’attenzione da sempre, se la prendeva con le mani. Sinuose e gentili, le alzava davanti al viso e prima di muoversi le teneva lì. E tutti le guardavano e vedevano dieci dita che davano il via alla leggerezza. L’aveva imparato dai mimi di strada anche se dei mimi di strada non possedeva che la bombetta. Sulla punta della nuca. La scoperchiava con un colpo secco del collo, l’afferrava al volo, poi veniva avanti: da questo momento non sapeva cosa sarebbe successo. Ma succedeva: la gente pendeva verso di lui, tutta. E di colpo veniva l’applauso, il primo si avverava subito, quando lui, in arte comico, sgranava gli occhi e cominciava a fissare la platea. Anche nei film le mani e gli occhi bastavano. La macchina da presa lo cercava, a lui bastava aspettarla. Il regista e la troupe era il suo pubblico, vederli ridere era di nuovo l’incantesimo. «Ma come ci riesce, Maestro?», gli chiedevano. Lui non rispondeva, la magia vuole il segreto. Così la grazia. La verità è che non sapeva nemmeno lui dove nascesse. O forse sì. Si ricordava di quella volta, arrivava a fatica al tavolo della cucina, in cui la madre gli diede un foglio bianco e tre matite colorate. Poi gli disse: disegna un bambino felice come te e scrivi il tuo nome. Lui non ci riuscì, per tre volte fece una testa ovale con due fori al posto degli occhi. Un cespo di capelli e il naso appuntito. La bocca era una virgola all’ingiù. Ci riprovò, la felicità non venne mai. Nemmeno il suo nome riuscì a scrivere. La madre aspettò a ogni tentativo, aspettò a lungo, poi fece una cosa che non aveva mai fatto: ridacchiò. Ancora e ancora. Allora lui seppe che il divertimento degli altri era figlio della sua malinconia. La grazia stava qui. Capì, e la usò. Teneva le lacrime nascoste e loro ridevano. La sua tristezza, per l’allegria del mondo. La usò da quel giorno del disegno, e a scuola, e con gli amici e le ragazze che facevano la fila per quell’amore divertente. La usò nei primi locali dove si esibiva, e quando fu scritturato per uno spettacolo di un teatro fuori città. Mostrò la grazia a un produttore e a un altro: da lì venne il cinema. E con il grande schermo successe qualcosa di strano: davanti alla macchina da presa si sentì nudo. La bombetta servì per nascondersi la testa. E i guanti per coprire le mani. Infine un velo di tintura bianco, per nascondere il viso. Volle calzoni larghi e giacca da frac di una taglia in più, scarpe abbondanti: si dimenticò il corpo in mezzo a quegli stracci e a quel trucco, e si vide meglio. Non c’era film senza code al botteghino, non recitò film senza un punto nero che si disegnava sullo zigomo destro, prima di andare in scena. Era un pois di matita per gli occhi, la lacrima che nessuno voleva vedere. Perse la grazia quando una scena sotto la pioggia glielo cancellò. La bombetta si afflosciò sotto l’acqua e il bagnato sciolse il pois di matita. Se ne accorse ma continuò con le mani e lo sguardo, il regista e la troupe smisero di colpo di ridere. «Tutto bene, Maestro?» chiesero, nessuno aveva notato che l’acqua sul volto non era solo pioggia. La grazia finì con due lacrime miste a un temporale. Se le asciugò e si preparò a rinunciare alle risate. Successe così in quel film e in quelli che seguirono, e nei teatri e negli spettacoli. E se pensiamo che per lui fosse una disgrazia, sbagliamo. Adesso era lui a ridere. Da solo, appena tornava a casa la sera, di fronte allo specchio, in strada, in bagno, in macchina, nei camerini. Rideva e subito dopo aspettava il pianto, e ancora. Per un po’ continuò lo stesso a esibirsi, poi dovette fermarsi. Le code al botteghino finirono e quelle agli spettacoli si ridussero a quattro gatti spaiati che non sapevano come passare il tempo. Decisero i suoi produttori per lui: dire addio alle scene per non rovinare il ricordo della grazia. Scelsero il teatro di New York che contenesse più pubblico, e non sbagliarono perché in strada rimasero duemila persone. Era la notte del suo compleanno, il Maestro era stato messo al mondo sessant’anni prima da una donna che ricordava a malapena il  padre del suo bambino. Lei era in prima fila quando lui, quella notte di celebrazione, salì sul palco. Non aveva il frac di una taglia in più e la bombetta, nemmeno le scarpe e il bianco sul viso. Lo guardò e vide per la prima volta il figlio, era un omino che non divertiva più ma che la faceva stare bene. Dietro di lui, sul fondo del palco, c’era una lavagna alta come un muro, l’unica scenografia. Il Maestro rimase in silenzio, la platea con lui. Poi alzò le mani come sempre aveva fatto, la gente sorrise. Anche la madre sorrise. Lui sgranò gli occhi e fece due passi in avanti, rovistò nella tasca del frac. Tirò fuori un gessetto. Si voltò e si diresse verso uno sgabello mezzo nascosto ai piedi della lavagna. Ci salì sopra e cominciò. Disegnò una testa ovale con due fori al posto degli occhi. Un cespo di capelli e il naso appuntito. Si bloccò, il pubblico non fiatò più. E non fiatò la madre, quando vide il suo bambino mettersi in punta di scarpe e disegnare una bocca, stavolta all’insù. Il Maestro scese dallo sgabello, si chinò sul fondo della lavagna. Lì scrisse il suo nome: Charles Spencer Chaplin.


 
Marco Missiroli
 
© Avvenire, 27 agosto 2012
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