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La denuncia. Suore e «servizio»: sì alla gratuità, no all'ingiustizia

Lo scandalo non sta nel lavoro domestico, dignitoso come ogni altro lavoro, ma nell'attitudine ad esercitare il potere là dove è chiesto spirito di servizio

Mettiamo in chiaro una cosa: il lavoro domestico è opera dell’uomo e come tale è dignitoso come qualunque altro lavoro. Se la notizia che circola in questi giorni di suore impegnate in servizi domestici a preti o alti prelati la volessimo ridurre a questo, ci daremmo la zappa sui piedi. Perché incapperemmo in quell’idea, niente affatto cristiana e umana, che vi siano lavori degni ed altri indegni; che l’esercito di persone che a titolo vario svolgono l’attività di collaborazione domestica sono lavoratori di serie B. Perché se non va bene per la dignità di una suora fare la domestica, non va bene neppure per la donna laica che si guadagna il pane in questa maniera. Trovo dunque che tutto questo stracciarsi le vesti per il servizio domestico sia improprio e, soprattutto, fuorviante, oltre che pericoloso.

Un’altra cosa mi preme dire: sono una suora che quando ha iniziato il suo cammino di consacrazione aveva ben chiara una cosa, e cioè che qualunque fosse stato il servizio che la mia Chiesa mi avesse chiesto, l’avrei svolto volentieri, dicevo anche pelare patate tutto il giorno. Perché quello che si fa per amore e con amore è offerta salvifica. Che la vita consacrata abbia al fondo, identitariamente, la gratuità è incontrovertibile, una gratuità che può significare anche perdita, sacrificio, essere presenti full time là dove altri, legittimamente, non lo sono. Poste queste premesse, la notizia riportata dal mensile de L’Osservatore romano, mi ha infastidita non poco e costretta a riflettere per mettere a fuoco cosa, di preciso, mi infastidisca.

Mi infastidisce l’atteggiamento di vescovi e cardinali, quando anche non di 'semplici' preti che considerano la silenziosa, operosa presenza femminile nelle loro case, alla stregua della merce, dove la persona sparisce dietro la funzione. Mi infastidisce l’invisibilità di queste donne delle quali probabilmente, il prelato non mette neppure a fuoco il volto denunciando, in tale maniera, una deficienza umana prima ancora che cristiana.

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Mentre ci si riempie la bocca di grandi questioni sulla dignità dell’uomo, questi uomini di Chiesa denunciano, nei fatti, che il Vangelo per loro non è ancora diventato carne e che essi sono, nella loro struttura più profonda, uomini di potere. Là dove dovremmo trovare uno spirito di servizio, troviamo invece l’indifferente arroganza del potere.

Lo stile che questi uomini hanno con le suore, lo hanno, ne sono convinta, con tutti quelli che fanno parte del loro entourage, salvo coloro che hanno più potere di loro che sono, invece, da riverire. Le suore sono schiacciate da questo ingranaggio di potere, perché storicamente percepite come un esercito massificato invisibile, mano d’opera a bassissimo costo per la Chiesa, un esercito silenzioso sempre disponibile.

Lo scandalo sta in questa attitudine violenta ad esercitare il potere là dove è chiesto spirito di servizio, lo scandalo è nella incapacità di vedere, e di vedere l’umano; lo scandalo sta nella bramosia e nell’avarizia di questi uomini che si sentono al di sopra delle leggi, di quelle normalissime leggi che normano i contratti di lavoro dei quali evidentemente, non hanno mai sentito parlare: se la consacrazione è missione a servizio della Ecclesia, quando diventa anche professione, deve essere retribuita, e retribuita secondo giustizia, uomini o donne che sia.

E lo scandalo sta in questa mentalità neocolonialista che spesso, troppo spesso, troviamo negli istituti femminili italiani ed europei i quali per non morire, hanno riempito le loro fila di ragazze di altri continenti, spesso ignare di cosa siano o cosa vadano a fare, delle quali disporre come pedine nello scacchiere delle relazioni economiche ed ecclesiali. Siamo chiamati tutti, a mio giudizio, uomini e donne, ad una seria revisione di vita su quella che don Tonino Bello, chiamava la Chiesa col grembiule, il paramento sacro per eccellenza che legittima gli altri paramenti.

La questione femminile non è una questione “a parte”, è un aspetto di quel cancro che papa Francesco non cessa di denunciare, di una Chiesa mondana che ha assorbito per sé le strutture portanti della logica del mondo: il potere, la strumentalizzazione, la vanità. Ci siamo dentro tutti, è una patologia trasversale ai ruoli e alle posizioni, perché attiene a quella ferita del cuore dell’uomo che chiamiamo peccato.

E se è vero che a certi livelli il peccato potrebbe meglio declinarsi con la presunzione di essere al di sopra delle leggi, là dove l’abitudine al potere, ha offuscato la coscienza di vivere al modo dell’oppressore, io sono chiamata a rendere ragione di come vivo quegli spazi di potere che anche io possiedo, se al modo dell’oppressore o al modo di Colui che non è venuto per essere servito ma per servire.

Roberta Vinerba

© Avvenire, giovedì 8 marzo 2018
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