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La fede nella Rete delle relazioni: comunione e connessione

P. Antonio Spadaro, Redattore de La Civiltà Cattolica23 aprile 2010

 

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Internet è una realtà che ormai fa parte della vita quotidiana di molte persone. Se fino a qualche tempo fa era legata all’immagine di qualcosa di tecnico, che richiedeva competenze specifiche sofisticate, oggi è diventato un «luogo» da frequentare per stare in contatto con gli amici che abitano lontano, per leggere le notizie, per comprare un libro o prenotare un viaggio, per condividere interessi e idee.
L’avvento di internet è stato, certo, una rivoluzione. E tuttavia è necessario sfatare un mito: che la Rete sia un’assoluta novità del tempo moderno. Essa è una rivoluzione che potremmo definire «antica», cioè con salde radici nel passato: replica antiche forme di trasmissione del sapere e del vivere comune, ostenta nostalgie, dà forma a desideri e valori antichi quanto l’essere umano. Quando si guarda a internet occorre non solo vedere le prospettive di futuro che offre, ma anche i desideri e le attese che l’uomo ha sempre avuto e alle quali prova a rispondere, e cioè: connessione, relazione, comunicazione e conoscenza. Nella Rete ogni informazione (un’immagine, un video, una registrazione audio, un link, un testo,…) entra in una rete di relazioni di persone che collega tra loro i contenuti e ne potenzia ed estende il valore e il significato.
Internet: mezzo o ambiente?
Sappiamo bene come da sempre la Chiesa abbia nell’annuncio di un messaggio e nelle relazioni di comunione due pilastri fondanti del suo essere. L’allora card. Ratzinger, nel suo intervento al convegno C.E.I. Parabole mediatiche del 2002, ha chiaramente individuato la domanda della Chiesa: «come il vangelo può superare la soglia fra me e l’altro? Come si può giungere ad una comunione nel vangelo, così che esso non solo mi unisca all’altro, ma unisca entrambi con la parola di Dio e così ne nasca un’unità che vada veramente in profondità?»[1]. L’uomo «non è una “tabula rasa”, come secondo Aristotele e Tommaso d’Aquino è lo spirito umano nel primo momento del risvegliarsi alla vita. No, la tavola dello spirito, alla quale giunge la nostra predicazione, è riempita di molteplici scritte e viene continuamente in contatto con innumerevoli comunicazioni»[2]. La Chiesa che evangelizza è dunque naturalmente presente – ed è chiamata ad esserlo – lì dove l’uomo sviluppa la sua capacità di conoscenza e di relazione. Ecco perché la Rete e la Chiesa sono due realtà da sempre destinate ad incontrarsi.
Internet non è affatto un semplice «strumento» di comunicazione che si può usare o meno, ma un «ambiente» culturale, che determina uno stile di pensiero e crea nuovi territori e nuove forme di educazione, contribuendo a definire anche un modo nuovo di stimolare le intelligenze e di stringere le relazioni, addirittura un modo di abitare il mondo e di organizzarlo. L’uomo non resta immutato dal modo con cui manipola la realtà: a trasformarsi non sono soltanto i mezzi con i quali comunica, ma l’uomo stesso e la sua cultura. La Chiesa dunque, per attuare sino in fondo la sua missione, è chiamata a vivere nella Rete e incarnare in essa il messaggio del Vangelo.
In questo senso la Rete non è un nuovo «mezzo» di evangelizzazione, ma innanzitutto un contesto in cui la fede è chiamata ad esprimersi non per una mera «volontà di presenza», ma per una connaturalità del cristianesimo con la vita degli uomini. Già nella Redemptoris missio leggevamo che l’impegno nei cosiddetti media «non ha solo lo scopo di moltiplicare l’annunzio: si tratta di un fatto più profondo, perché l’evangelizzazione stessa della cultura moderna dipende in gran parte dal loro influsso. Non basta, quindi, usarli per diffondere il messaggio cristiano e magistero della Chiesa, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa “nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna. È un problema complesso, poiché questa cultura nasce, prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi linguaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici» (Redemptoris missio, n. 37).
In effetti una delle sfide maggiori, specialmente per coloro che non sono «nativi digitali» è quella di non vedere nella Rete una realtà parallela, cioè separata rispetto alla vita di tutti i giorni, ma uno spazio antropologico interconnesso in radice con gli altri della nostra vita. La Rete sempre di più tende a diventare trasparente e invisibile, tende esponenzialmente a non essere più «altro» rispetto alla nostra vita quotidiana. Del resto lo sappiamo bene: per essere wired, cioè «connessi», non c’è più bisogno di sedersi al computer, ma basta avere uno smartphone in tasca[3], magari con il servizio di notifica push attivato[4]. La Rete è un piano di esistenza sempre più integrato con gli altri piani.
Persino Second Life non fa eccezione rispetto a questa logica di lettura[5]. Infatti anche quando un uomo agisce in quanto avatar non vive in realtà uno sdoppiamento di personalità. L’avatar è un’estensione digitale dello stesso soggetto che vive e agisce nella prima vita, non un essere autonomo o una parte staccata di se stessi. Tutta la libertà e la responsabilità dell’uomo della «prima vita» dunque sono anche attributi del suo avatar, perché sono esse a muoverlo. È la stessa persona che tramite il suo avatar si muove nel mondo simulato. Questo avatar non è «altro» da sé. Al contrario, è sempre la stessa persona che vive in un differente spazio antropologico[6].
È evidente, dunque, come la Rete con tutte le sue «innovazioni dalle radici antiche» ponga una serie di questioni rilevanti di ordine educativo e pastorale. Tuttavia le questioni più rilevanti sono quelle che riguardano la stessa comprensione della fede e della Chiesa. La logica del web ha un impatto sulla logica teologica e internet comincia a porre delle sfide alla comprensione stessa del cristianesimo. Quale sono i punti di maggiore contatto dialettico tra la fede e la Rete? Occorre provare a individuare questi punti critici per avviare una loro discussione alla luce anche di palesi connaturalità come anche di evidenti incompatibilità.
 L’uomo religioso: radar o decoder?
La «navigazione», in generale, è una via per la conoscenza. Oggi capita sempre più spesso che, quando si necessità di una informazione, si interroghi la Rete per avere la risposta da un motori di ricerca come Google o Bing o altri ancora. Internet sembra essere il luogo delle risposte. Esse però raramente sono univoche: la risposta è un insieme di link che rinviano a testi, immagini e video. Ogni ricerca può implicare una esplorazione di territori differenti e complessi dando persino l’impressione di una certa esaustività.
Quale fede troviamo in questo spazio antropologico che chiamiamo web? Digitando in un motore di ricerca la parola God  oppure anche religion, Christ, spirituality, otteniamo liste di centinaia di milioni di pagine. Nella Rete si avverte una crescita di bisogni religiosi che la «tradizione» religiosa riesce a fatica a soddisfare. L’uomo alla ricerca di Dio oggi avvia una navigazione. Quali sono le conseguenze?
Si può cadere nell’illusione che il sacro o il religioso sia a portata di mouse. La Rete, proprio grazie al fatto che è in grado di contenere tutto, può essere facilmente paragonata a una sorta di grande supermarket del religioso, in cui è possibile trovare ogni genere di «prodotto» religioso con grande facilità: dalle riflessioni più serie e valide alle religioni che una persona annoiata si inventa per gioco. Ciascuno può attingere dalla Rete non secondo reali esigenze spirituali, ma secondo bisogni da soddisfare. Ci si illude dunque che il sacro resti «a disposizione» di un «consumatore» nel momento del bisogno.
Per comprendere il pericolo dell’omogeneizzazione religiosa sono da visitare siti come Beliefnet, dove le religioni sono messe in mostra, una al pari dell’altra, in un cocktail spesso disarmante[7]. E tuttavia, proprio attraversando questi siti e gli strumenti che essi mettono a disposizione, è anche possibile farsi un’idea del bisogno profondo di Dio che agita il cuore umano.
In questo contesto occorre però considerare un possibile cambiamento radicale nella percezione della domanda religiosa. Una volta l’uomo era saldamente attratto dal religioso come da una fonte di senso fondamentale. L’uomo era una bussola, e la bussola implica un riferimento unico e preciso. Poi l’uomo ha sostituito nella propria esistenza la bussola con il radar che implica una apertura indiscriminata anche al più blando segnale e questo, a volte, non senza la percezione di «girare a vuoto». L’uomo però era inteso comunque come un «uditore della parola», alla ricerca di un messaggio del quale sentiva il bisogno profondo. Oggi queste immagini, sebbene sempre vive e vere, reggono meno. L’uomo da bussola prima e radar poi si sta trasformando in un decoder, cioè in un sistena di decodificazione delle domande sulla base delle molteplici risposte che lo raggiungono. Viviamo bombardati dai messaggi, subiamo una sovrainformazione, la cosiddetta information overload. Il problema oggi non è reperire il messaggio di senso ma decodificarlo, riconoscerlo sulla base delle molteplici risposte che io ricevo. La testimonianza digitale diventa sempre di più un «rendere ragione della speranza» (1Pt 3, 15) in un contesto in cui le ragioni si confrontano rapidamente e «selvaggiamente». A farsi largo è il classico meccanismo della pubblicità, che offre risposte a domande che ancora non sono state formulate. La domanda religiosa in realtà si sta trasformando in un confronto tra risposte plausibili e soggettivamente significative.
La grande parola da riscoprire, allora, è una vecchia conoscenza del vocabolario cristiano e, in particolare, della spiritualità ignaziana: il discernimento. Le domande radicali non mancheranno mai, ma oggi sono mediate dalle risposte che si ricevono e che richiedono il filtro del riconoscimento. La risposta è il luogo di emersione della domanda. Tocca all’uomo d’oggi, dunque, e soprattutto al formatore, all’educatore, dedurre e riconoscere le domande religiose vere dalle risposte che lui si vede offrire continuamente. E’ un lavoro complesso, che richiede una grande preparazione e una grande sensibilità spirituale.
La ricerca di Dio: motore o domanda?
Forse anzi è il caso di educare le persone al fatto che ci sono realtà che sfuggono sempre e comunque alla logica del «motore di ricerca» e che la googlizzazione della fede è impossibile perché falsa. E’ certamente da privilegiare invece la logica dei motori semantici. E’ il caso di Wolfram|Alpha, un «motore computazionale di conoscenza», cioè un motore che decodifica ed elabora, intrecciando i dati a sua disposizione, le parole chiave inserite dall’utente e propone direttamente una risposta. Visto che, al momento, l’unica lingua che comprende è l’inglese, è interessante notare la risposta alla domanda Does God exist? (Dio esiste?): «Mi dispiace, ma un povero motore computazionale di conoscenza, non importa quanto potente possa essere, non è in grado di fornire una risposta semplice a questa domanda»[8]. Lì dove Google va a colpo sicuro fornendo centinaia di migliaia di risposte indirette, Wolfram|Alpha fa un passo indietro. La differenza è che il motore «sintattico» quale è Google, si preoccupa unicamente di «censire» le parole che ci sono all’interno di un testo senza in alcun modo tentare di determinare il contesto in cui queste parole vengono utilizzate. La ricerca semantica tenta di invece di avvicinarsi al modo di apprendere dell’uomo, cercando di interpretare il significato logico delle frasi e tentando di carpirne il significato dal contesto. Dunque il modo in cui si pone la domanda può influenzare l’efficacia della risposta, e dunque deve essere ben posta. La ricerca di Dio è sempre semantica e il suo significato nasce e dipende sempre da un contesto.
Il cristiano non è mai un «consumatore di servizi religiosi» né una persona che ha in pugno una risposta. Il cristianesimo si autocomprende come portatore di un messaggio, quello della morte e resurrezione di Cristo, resistente alle assimilazioni, «scandaloso», capace di superare la stessa domanda dell’uomo.
La presenza cristiana in Rete deve far leva sul fatto che la parola del Vangelo scuote, non acquieta o appaga: non serve a «far star bene», ma, al contrario, rischia sul serio di mettere in crisi le coscienze, cioè di «far star male», potremmo dire. La strada da affrontare è quella dialetticamente attraversata «dal gioco accorto della spontaneità e della reticenza, della trasparenza e della simulazione, dell’azzardo della esposizione pubblica e della custodia dell’intimità altrimenti inaccessibile»[9] all’interno di un «mercato» già saturo di messaggi.
«Forse il vangelo non è un’informazione fra le altre – si chiedeva nel 2002 l’allora card. Ratzinger durante il convegno Parabole digitali –, una riga sulla tavola accanto ad altre, ma la chiave, un messaggio di natura totalmente diversa dalle molte informazioni, che ci sommergono giorno dopo giorno? Dalla questione della caratteristica di questo messaggio dipende anzi anche la questione della forma giusta della sua comunicazione. Se il vangelo appare solo come una notizia fra molte, può forse essere scartato in favore di altri messaggi più importanti. Ma come fa la comunicazione, che noi chiamiamo vangelo, a far capire che essa è appunto una forma totalmente altra di informazione - nel nostro uso linguistico, piuttosto una “performazione”, un processo vitale, per mezzo del quale soltanto lo strumento dell’esistenza può trovare il suo giusto tono?». E la sfida è seria perché segna la demarcazione tra la fede come «merce» da vendere in maniera seduttiva, e la fede come atto dell’intelligenza dell’uomo che, mosso da Dio, dà a Lui liberamente il proprio consenso.
 L’amicizia: connessione o comunione?
La pastorale dunque deve infatti confrontarsi con la Rete in quanto ambiente di vita, spazio antropologico e di domanda religiosa. Ma lo spazio è abitato da persone e questo concretamente significa un confronto con le nuove «identità di Rete». Che cosa significa essere persone che abitano la Rete come un ambiente di vita? Internet connette persone, ma ciascuno al suo interno può costruire una propria identità fittizia, simulata e intendere la relazione come un gioco. I rischi sono connessi innanzitutto alla fragilità di identità e relazioni. In Rete ciascuno può far credere di essere ciò che non è a livello di età, sesso e professione, esprimendosi senza i limiti dati dalla propria identità pubblica. In Rete si diventa sostanzialmente messaggio. Insomma si dialoga per quel che ci si sente di essere e per il «pensiero puro», diciamo così, che si esprime.
Ma proprio per questo dunque, la Rete è potenzialmente anche molto confidenziale, perché permette di dire di sé cose che altrimenti difficilmente una persona direbbe nei suoi panni quotidiani. Si può avere un’apertura completa e un grande livello di autenticità, fino a scadere anche nello spontaneismo senza limiti e senza pudori. Il cyberspazio comunque è un «luogo» emotivamente caldo e non tecnologicamente algido, come qualcuno sarebbe tentato di immaginare. Certo, basta disconnettersi o chiudere il programma per chiudere la relazione. In alcuni casi, però, al contrario, si «buca» la Rete e le persone si incontrano in uno spazio reale. Se questo avviene nei casi tristemente noti degli approcci erotici, avviene anche nel caso di relazioni di aiuto spirituale.
Lo sviluppo del web 2.0 ha fatto comprendere come i rapporti tra le persone siano al centro del sistema e dello scambio dei contenuti, che sempre più appaiono fortemente legati a chi li produce o li segnala. Riemergono dunque con forza i concetti di persona, autore, relazione, amicizia, intimità… Occorre comprendere bene come il concetto stesso di «prossimo» e, più specificamente di «amicizia» si modifichi e si evolva proprio a causa della Rete.
Tutte le piattaforme di social network sono insieme un potenziale aiuto alla relazioni ma anche una loro minaccia. La relazione umana non è così un semplice gioco, e richiede tempi, conoscenza diretta. La relazione mediata dalla Rete è sempre necessariamente monca se non ha un aggancio nella realtà. Benedetto XVI ha insistito molto sulla assoluta necessità di non banalizzare il concetto e l’esperienza dell’amicizia: «Sarebbe triste se il nostro desiderio di sostenere e sviluppare on-line le amicizie si realizzasse a spese della disponibilità per la famiglia, per i vicini e per coloro che si incontrano nella realtà di ogni giorno, sul posto di lavoro, a scuola, nel tempo libero. Quando, infatti, il desiderio di connessione virtuale diventa ossessivo, la conseguenza è che la persona si isola, interrompendo la reale interazione sociale. Ciò finisce per disturbare anche i modelli di riposo, di silenzio e di riflessione necessari per un sano sviluppo umano». Se la Rete, chiamata a connettere, in realtà finisce per isolare, allora tradisce se stessa in ciò che è nel suo significato.
D’altra parte è evidente, come Benedetto XVI ha scritto nel suo messaggio per la Giornata della Comunicazioni 2010, che «i moderni mezzi di comunicazione sono entrati da tempo a far parte degli strumenti ordinari attraverso i quali le comunità ecclesiali si esprimono, entrando in contatto con il proprio territorio ed instaurando, molto spesso, forme di dialogo a più vasto raggio». Insomma la «connessione» è chiamata ad essere luogo di «comunione», a tal punto che – scrive il Papa – essa diventa importante nell’ambito dello stesso ministero sacerdotale. La missione dei consacrati che operano nei media è, tra l’altro, proprio quello di «spianare la strada a nuovi incontri, assicurando sempre la qualità del contatto umano».
La Chiesa: fili di rete o tralci di vite?
Tuttavia, certo, non è possibile immaginare una vita ecclesiale essenzialmente di Rete: una «chiesa di Rete» in sé e per sé è una comunità priva di qualunque riferimento territoriale e di concreto riferimento di vita. Non è una comunità locale o omogenea di quartiere o di villaggio, ma emerge come un fungo, potremmo dire, dal «villaggio globale». Ciò ha alcuni risvolti positivi perché rende possibili aggregazioni spontanee per sensibilità e comunanze elettive. Tuttavia in tal modo rischia di annullare il confronto, anche difficile, con le differenze di età, di cultura, di mestiere, di idee, di sensibilità. Potrebbe così, ad esempio, dare alla pastorale un impulso eccessivo alla segmentazione, diciamo così, «di mercato»: pastorale giovanile, della famiglia, della terza età, dei malati, e così via.
Pensiamo alle «chiese» generate dai telepredicatori, che producono una pratica religiosa individuale, la quale conferma l’esasperata privatizzazione degli scopi della vita e l’individualismo estremo della società dei consumi capitalistica per il quale vale il motto «ciascuno per sé e Dio per tutti». Non è dovuto al caso il successo dei siti di spiritualità diffusa, svincolata da qualunque forma di mediazione storica, comunitaria e sacramentale (tradizione, testimonianza, celebrazione,…), tendente a includere tutti i valori religiosi unicamente nella coscienza individuale e spesso di ispirazione new age.
Queste tensioni ovviamente hanno una ricaduta sul significato dell’«appartenenza» ecclesiale. Essa rischia di essere considerata il frutto di un «consenso» e dunque «prodotto» della comunicazione. In questo contesto i passi dell’iniziazione cristiana rischiano di risolversi in una sorta di «procedura di accesso» (login) all’informazione, forse anche sulla base di un «contratto», che permette anche una rapida disconnessione (logoff). Il radicamento in una comunità si risolverebbe in una sorta di «installazione» (install) di un programma (software) in una macchina (hardware), che si può dunque facilmente anche «disinstallare» (uninstall). Infine la partecipazione virtuale rischierebbe di risolversi in qualcosa di simile alla partecipazione a uno spettacolo.
 D’altra parte la Rete è destinata sempre di più ad essere non un mondo parallelo e distinto rispetto alla realtà di tutti i giorni, quella dei contatti diretti: le due dimensioni sono chiamate ad armonizzarsi e a integrarsi quanto più è possibile in una vita di relazioni piene e sincere.
Certo però la Rete pone domande che riguardano la mentalità e il modello con cui può essere compresa la Chiesa nel suo essere «comunità» e nel suo sviluppo. La Lumen gentium al n. 6, parlando dell’intima natura della Chiesa, afferma che essa si fa conoscere attraverso «immagini varie». Nel passato, oltre a quelle bibliche, sono state usate anche immagini di altro genere per «significare» la Chiesa; ad esempio, le metafore navali e di navigazione[10]. Alcune immagini infatti possono anche essere «modelli» ecclesiologici. Per «modello» si intende un’immagine impiegata in modo riflesso e critico per approfondire la comprensione della realtà[11]. La domanda a questo punto è se oggi non si ponga la necessità di confrontarsi seriamente con la figura della «Rete» e con ciò che da essa deriva a livello di comprensione ecclesiologica. È possibile pensare a internet come a una metafora per comprendere la Chiesa, naturalmente senza credere che essa possa esser esaustiva?
Certamente la relazionalità della Rete funziona se i collegamenti (link) sono sempre attivi: qualora un nodo o un collegamento fosse interrotto, l’informazione non passerebbe e la relazione sarebbe impossibile. La reticolarità della vite nei cui tralci scorre una medesima linfa non è distante dall’immagine di internet, tutto sommato. Da ciò si intende che la Rete è immagine della Chiesa nella misura in cui la si intende come un corpo che è vivo se tutte le relazioni al suo interno sono vitali. Poi l’universalità della Chiesa e la missione dell’annuncio «a tutte le genti» rafforzano la percezione che la Rete possa essere un buon modello di valore ecclesiologico.
Tuttavia restano aperti alcuni interrogativi. Il primo si fonda sul fatto che la Rete può essere compresa come una sorta di grande testo autoreferenziale e dunque puramente «orizzontale»: essa non ha radici né rami e dunque rappresenta un modello di struttura chiusa in se stessa[12]. La Chiesa invece non è una rete di relazioni immanenti, ma ha sempre un principio e un fondamento «esterno». Se le relazioni in Rete dipendono dalla presenza e dall’efficace funzionamento degli strumenti di comunicazione, la comunione ecclesiale è radicalmente un «dono» dello Spirito. L’agire comunicativo della Chiesa ha in questo dono il suo fondamento e la sua origine.
D’altra parte però possono risultare illuminanti le parole di Karl Rahner, quando afferma che ogni realizzazione, anche germinale, della socialità umana è una attuazione, seppure ampia e diffusa, della Chiesa. Infatti «l’uomo non è l’essere dell’intercomunicazione solo in maniera marginale, bensì questa sua qualità condetermina in lungo e in largo tutta la sua esistenza». Posto ciò, «se la salvezza riguarda tutto l’uomo, lo pone in rapporto con Dio nella sua totalità e in tutte le dimensioni della sua esistenza», allora «con ciò è già detto che questa interumanità caratterizza anche la religione del cristianesimo», che va concepita come una «religione ecclesiale»[13].
Benedetto XVI nel suo Messaggio per Giornata Mondiale delle Comunicazioni del 2009 ha letto alla luce del messaggio biblico proprio questa tensione fondamentale che le nuove tecnologie sono in grado di sviluppare. Questo desiderio infatti, egli scrive, «va letto piuttosto come riflesso della nostra partecipazione al comunicativo ed unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia. Quando sentiamo il bisogno di avvicinarci ad altre persone, quando vogliamo conoscerle meglio e farci conoscere, stiamo rispondendo alla chiamata di Dio – una chiamata che è impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, il Dio della comunicazione e della comunione». Il passaggio è rilevante perché connette direttamente la trasformazione di internet inteso come rete sociale, alla chiamata di Dio che vuol fare dell’umanità un’unica famiglia.
I Sacramenti: «presenza reale» o «presenza virtuale»?
 Legata alla questione ecclesiologica appare essere quella dei sacramenti. È possibile immaginare i sacramenti nel mondo della Rete? La domanda è complessa: andrebbe articolata e compresa bene, e certo non lo si può fare in poche battute. Il primo livello della questione ha radici negli anni che ha visto trasmettere la celebrazione eucaristica per televisione, e oggi si allarga a una possibile partecipazione a suo modo «interattiva» in videoconferenza. La questione si apre toccando la possibilità dell’assoluzione sacramentale via internet, che prosegue quella della confessione telefonica. Poi tocca anche quello della consacrazione a distanza. Ma alla fine tocca questioni più complesse e tipiche legate all’evoluzione della Rete, cioè quella della possibilità di «sacramenti virtuali».
Cerco di chiarire la questione con una applicazione concreta. Un avatar in Second Life non è un essere autonomo o una parte staccata di se stessi ma un’estensione digitale dello stesso soggetto che vive e agisce nella «prima vita». Posto ciò, allora, un avatar può partecipare a un evento di preghiera? Ciò che sembra di poter osservare è che col crescere degli spazi virtuali, molti hanno cominciato ad avvertire il bisogno di creare luoghi di preghiera o addirittura chiese, cattedrali, chiostri e conventi per tempi di sosta e di meditazione. L’elenco delle chiese nella Second Life è lungo: esistono anche cattedrali, come le simulazioni delle cattoliche Notre-Dame di Parigi o della cattedrale di Salisburgo o della anglicana St. Paul di Londra, ma anche la basilica di San Francesco in Assisi[14].
Ma che cosa significa pregare nella Second Life? «Io metto il mio avatar in posizione di preghiera e nello stesso tempo io prego. La mia preghiera nella mia stanza è valida e la mia preghiera online è simbolica»[15], ha scritto un fedele. Ma – ecco la questione chiave – è possibile anche che gli avatar vivano anche una forma di preghiera comune che sia da considerare liturgica? Da alcuni anni esiste una cattedrale anglicana in Second Life dove si tengono regolarmente services liturgici a orari precisi[16]. Ma, in particolare, la domanda è se sia possibile pensare a una celebrazione eucaristica virtuale dove gli avatar ricevono le specie eucaristiche nel mondo simulato. Si è occupato della questione, ad esempio il pastore battista Paul S. Fiddes, professore di Teologia Sistematica ad Oxford in un testo breve che ha fatto il giro della Rete, provocando un ampio dibattito.
La Chiesa cattolica insiste sempre sul fatto che sia impossibile e antropologicamente errato considerare la realtà virtuale come capace di sostituire l’esperienza reale, tangibile e concreta della comunità cristiana visibile e storica, e così dunque anche i sacramenti. Il documento La Chiesa e Internet (2002) del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, è stato quanto mai chiaro: «La realtà virtuale non può sostituire la reale presenza di Cristo nell’Eucaristia, la realtà sacramentale degli altri sacramenti e il culto partecipato in seno a una comunità umana in carne e ossa. Su Internet non ci sono sacramenti. Anche le esperienze religiose che vi sono possibili per grazia di Dio sono insufficienti se separate dall’interazione del mondo reale con altri fedeli» (n. 9).
La risposta è netta e mette al riparo da qualunque deriva che astragga la dimensione sacramentale da quella incarnata dei segni visibili e tangibili. Del resto il concetto di «sacramento virtuale» in senso stretto si fonderebbe sul fatto che sarebbe un avatar a ricevere la grazia di Dio, e da questo si trasferirebbe alla persona della quale è estensione. È chiaro che dietro questo pensiero c’è la considerazione riduttiva che ricevere un sacramento significhi sostanzialmente essere coinvolto semplicemente in maniera psicologica a un evento, reale o virtuale che sia. In questo senso pane e vino, così come l’acqua nel caso del battesimo, sarebbero tutti elementi accessori e, alla fine, privi di reale rilevanza.
Chiarito la «realtà» del sacramento, resta aperta però la questione di come l’abitudine alla virtualità possa in qualche modo incidere nella stessa comprensione del sacramento, e di come sia possibile evitare il rischio di una deriva «magica» capace di sbiadire fino a cancellarlo il senso della comunità e della mediazione ecclesiale[17]. È questa la vera sfida alla comprensione dei sacramenti posta dalla Rete.
L’Autorità: emittenza o testimonianza?
In questa medesima linea di riflessione si colloca il problema dell’autorità nella Chiesa e delle mediazioni ecclesiali in senso più generale. Il primo ordine di problemi nasce dal fatto che internet permette il collegamento diretto col centro delle informazioni, saltando ogni forma di mediazione visibile. In sé ciò è un fatto positivo, perché permette di attingere dati, notizie, commenti alla fonte, saltando ogni forma di passaggio intermedio, e il tutto in tempo reale. Pensiamo alla reperibilità dei documenti ufficiali della Santa Sede, ad esempio. D’altra parte la fede non è fatta soltanto di informazioni, né la Chiesa è luogo di mera «trasmissione», cioè non è una pura «emittente». Essa è luogo di «comunicazione» e «testimonianza» vissuta del messaggio che si «annuncia». Il rapporto diretto, che si crea in Rete, tra centro e qualsiasi punto della periferia forma un’abitudine all’inutilità della mediazione incarnata in un certo momento e in un certo luogo, e dunque anche alla testimonianza e alla comunicazione autorevole. Qualcuno, per fare un esempio, potrebbe chiedersi: perché devo leggere la lettera del parroco se posso realizzare la mia formazione attingendo materiali direttamente dal sito della Santa Sede? Molti, del resto già, grazie alla televisione, ben conoscono il volto del Santo Padre, ma non riconoscerebbero il vescovo della propria diocesi.
Un secondo ordine di problema è legato al riconoscimento dell’autorità «gerarchica». La Rete, di sua natura, è fondata sui link, cioè sui collegamenti reticolari, orizzontali e non gerarchici. La Chiesa vive di un’altra logica, cioè di un messaggio donato, cioè ricevuto, che «buca» la dimensione orizzontale. Non solo: una volta bucata la dimensione orizzontale, essa vive di testimonianza autorevole, di tradizione, di magistero: sono tutte parole queste che sembrano fare a pugni con una logica di Rete. In fondo potremmo dire che sembra prevalere nel web la logica dell’algoritmo Page Rank di Google che determina per molti l’accesso alla conoscenza. Esso si fonda sulla popolarità: in Google è più accessibile ciò che è maggiormente linkato, quindi le pagine web sulle quali c’è più accordo. Il suo fondamento è nel fatto che le conoscenze sono, dunque, modi concordati di vedere le cose. Questa a molti sembra la logica migliore per affrontare la complessità. Ma la Chiesa non può sposare questa logica, che nei suoi ultimi risultati, è esposta al dominio di chi sa manipolare l’opinione pubblica. L’autorità non è sparita in Rete, e anzi rischia di essere ancora più occulta.
Ma il terzo e più decisivo e generale momento critico di questa orizzontalità è l’abitudine a fare a meno di una trascendenza, l’indebolimento della capacità di rinvio a una realtà e una alterità che ci supera a favore dell’appiattimento sull’immediatezza e dell’autoreferenzialità. «Il punto di riferimento delle dinamiche simboliche accese nello spazio digitale non è più un’alterità trascendente, ma la mia identità: il mondo virtuale è una promanazione del mio io; un mondo che alla fine non mi spiega, non mi apre a una percezione dell’universo e della storia che non sia egocentrica. […] Il mondo digitale rischia quindi di strutturasi come uno spazio simbolico autoreferenziale, chiuso all’alterità. Uno spazio alla fine alienante: mi attira nel suo contesto fino a farsi percepire come l’unico spazio di realtà, pur non essendo in grado di soddisfare la mia ricerca di verità, la mia sete di comprensione e di collocazione dentro un universo che vada oltre le mie percezioni e i miei pensieri»[18].
Tuttavia, nonostante i tre ordini di problemi qui illustrati, esiste anche un aspetto importante sul quale riflettere: la società digitale non è più pensabile e comprensibile solamente attraverso i contenuti, ma soprattutto attraverso le relazioni e lo scambio dei contenuti che avviene all’interno delle relazioni. È necessario dunque non confondere nuova complessità con «dis-ordine» e aggregazione spontanea con «an-archia».
Occorre così comprendere la grammatica della Rete e l’articolazione dell’autorità in un contesto fondamentalmente orizzontale. Determinante appare la categoria e la prassi della testimonianza. È questo l’aspetto positivo su quale far leva. Oggi l’uomo della Rete si fida delle opinioni in forma di testimonianza. Facciamo un esempio: se oggi voglio comprare un libro o farmi una opnione sulla sua validità vado su un social network come aNobii o visito una libreria on line e leggo le opinioni di altri lettori. Esse hanno più il taglio delle testimonianze che delle classiche recensioni: spesso fanno appello al personale processo di lettura e alle reazioni che ha suscitate. E lo stesso accade se voglio comprare una applicazione o un brano musicale su iTunes. Esistono anche testimonianze sulla correttezza delle persone nel caso in cui esse sono venditrici di oggetti su eBay. Ma gli esempi si possono moltiplicare: si tratta sempre e comunque di quegli user generated content che hanno fatto la «fortuna» e il significato dei social network. La «testimonianza» è da considerare dunque, all’interno della logica delle reti partecipative, un «contenuto generato dall’utente».
La Chiesa in Rete è chiamata dunque non solo a una «emittenza» di contenuti, ma a una «testimonianza» in un contesto di relazioni ampie: «una pastorale nel mondo digitale, infatti, è chiamata a tener conto anche di quanti non credono, sono sfiduciati ed hanno nel cuore desideri di assoluto e di verità non caduche, dal momento che i nuovi mezzi consentono di entrare in contatto con credenti di ogni religione, con non credenti e persone di ogni cultura»[19].
La Rivelazione: codice «proprietario» o «aperto»?
Il problema dell’auctoritas in Rete si è posto nella sua ampia portata soprattutto con la nascita di Wikipedia. Questa forma di enciclopedia collaborativa, redatta dai suoi stessi utenti, ha spinto qualcuno a porre una domanda radicale. È il caso, ad esempio, di Justin Baeder, creatore di Radical Congruency, un blog legato al fenomeno della cosiddetta emerging ecclesiology («ecclesiologia emergente»), che si è chiesto: «Quali implicazioni potrebbero avere per la chiesa questi siti web? Quali implicazioni potrebbero avere per un approccio comunitario alla teologia?»[20].
Non è facile definire il fenomeno della emerging ecclesiology a cui corrisponde una emerging church. Queste espressioni fanno riferimento a un movimento complesso e fluido dell’area evangelico-carismatica, che intende reimpiantare la fede cristiana nel nuovo contesto post-cristiano. Esso va al di là delle singole confessioni cristiane e si caratterizza per il rifiuto delle strutture ecclesiali cosiddette «solide». Molta enfasi è invece posta sui paradigmi relazionali, su tutte le espressioni che – citando Zygmunt Bauman –  potremmo definire «liquide» della comunità, su approcci inediti e fortemente creativi alla spiritualità e al culto. Qualcuno parla di Liquid Church.
La domanda, nelle intenzioni di Baeder, non riguarda solamente un’applicazione pastorale. Essa intende chiedere se il wiki non possa ispirare un modo di fare teologia, una sorta di metodo teologico. Egli risponde alla domanda indicando la cosiddetta open source theology. L’espressione utilizza il gergo informatico che indica un tipo di licenza per software, la open source appunto, per la quale il «codice sorgente» (source) di un programma per computer è lasciato alla disponibilità di eventuali sviluppatori, così che con la collaborazione, in genere libera e spontanea, il prodotto finale possa raggiungere una complessità maggiore di quanto potrebbe ottenere un singolo gruppo di programmazione.
Con teologia open source Andrew Perriman, l’ideatore di questa espressione, intende dunque indicare un metodo teologico, quello di una teologia «esplorativa, aperta nelle conclusioni, incompleta, meno preoccupata di stabilire punti fissi e confini che a nutrire un dialogo sollecito e costruttivo tra testo e contesto»[21]. È giusto notare subito l’importanza che questo metodo di «teologia collaborativa», come viene anche definita, attribuisce alla riflessione teologica, intesa non come puro studio accademico, ma come attività comunitaria che si sviluppa dinamicamente all’interno di precisi contesti storici.
Tuttavia il «caso serio» qui è il seguente: qual è il «codice sorgente» della teologia? È la Rivelazione, che dunque resta «aperta» alle forme più disparate di lettura, applicazione e presentazione. La open sourche theology è molto ambigua perché chiaramente cede al rischio di un appiattimento di ordine sociologico o vagamente umanistico, e a uno smarrimento o al fraintendimento del depositum fidei. Infatti, se il «codice sorgente» della teologia, la Rivelazione, non venisse solamente elaborato a livello di «interfaccia», cioè a livello di categorie di comprensione e comunicazione, ma anche modificato in se stesso, non saremmo più davanti a una teologia cristiana, ma a una più generale discussione su temi di significato teologico-religioso. A questa vaghezza si accompagna il rifiuto di ogni forma di carisma d’autorità e il disinteresse per la tradizione considerata forma «imperiale», come l’ha definita Brian McLaren[22]. Il cristianesimo tenderebbe ad assumere i caratteri di una «narrazione partecipativa» realizzata da individui o gruppi in cornici e contesti culturali disparati.
In ogni caso è con questa forma mentis che la fede cattolica dovrà confrontarsi sempre di più e che richiede una nuova forma di «apologetica» che non potrà non partire dalle mutate categorie di comprensione del mondo e di accesso alla conoscenza.
La Grazia: «peer-to-peer» o «face-to-face»?
Uno dei punti critici della riflessione su ciò che in Rete va sotto il nome di open è in realtà il concetto di «dono», reso ancora più radicale dal freeware, dal «software libero». Per la Chiesa la Rivelazione è un dono indeducibile e l’agire ecclesiale ha in questo dono il suo fondamento e la sua origine. Ma è il concetto stesso di «dono» che oggi sta mutando. E, di conseguenza, questo non potrà non avere qualche riflesso (o anche qualcosa di più) nel campo della comprensione ulteriore e della formulazione migliore, anche a livello pastorale, della Rivelazione.
La Rete è il luogo del dono, infatti. Concetti come file sharing, free software, open source, creative commons, user generated content, social network hanno tutti al loro interno, anche se in maniera differente, il concetto di «dono», di abbattimento dell’idea di «profitto». A ben guardare, però, più che di «dono» si tratta di uno «scambio» libero reso possibile e significativo grazie a forme di reciprocità che risulta «proficua» per coloro che entrano in questa logica di scambio. Comunque c’è una idea «economica» che ha in mente il concetto di «mercato».
Il modello di Rete che più radicalmente riflette questa dimensione è quella «paritaria» detta peer-to-peer (o P2P) che non possiede nodi gerarchizzati come i client e i server fissi, ma un numero di nodi equivalenti (in inglese peer) aperti verso altri nodi della Rete e che mentre ricevono trasmettono e viceversa. Quando effettuo un download all’interno del P2P il mio computer prende «pezzi» del documento (video, musica, testi,...) da molti singoli computer che sono contemporaneamente connessi in Rete e che contengono quel documento. A loro volta il mio computer mentre scarica permette ad altri computer di caricare pezzi di quello o di altri file che io metto a disposizione. Poi tutto alla fine viene ricomposto nei singoli computer. Il processo si chaima file sharing ed è, dunque, all’insegna della condivisione. Questa tecnologia permette in maniera agevole di scaricare anche file multimediali molto pesanti in tempi ragionevoli o comunque di trovare una molteplicità di materiali rari. Il motivo per cui questa tecnologia è stata spesso contestata è che permette di scaricare qualsiasi cosa a costo zero e violando tutte le norme del copyright.
Quindi, in altri termini, la logica peer-to-peer si basa sul fatto che io ricevo qualcosa nella sua interezza non da un depositum (cioè un client) unico che la contiene tutta intera in un rapporto 1 a 1. Essa si basa su un processo per cui io condivido ciò che ho nel momento stesso in cui lo ricevo. Ma non ricevo mai un contenuto nella sua interezza: lo ricevo in un processo che rende me stesso il nodo di una rete condivisa di scambio e che mi fa più «ricco», diciamo così, nel momento in cui do quel che ho ricevuto fino a quel momento.
Se questa logica di condivisione viene applicata in genere a livello etico sulla distribuzione dei beni, essa appare senza problemi e, anzi, decisamente virtuosa. Tuttavia già a livello commerciale comprendiamo che essa pone un problema di «diritti» perché permette lo «scambio», cioè la «condivisione» di materiali protetti da copyright per i quali la condivisione, anche da parte di chi legalmente detiene i diritti, è invece «reato». Per questo sta emergendo un movimento che sostiene – specialmente in contesti ecclesiali – il software dal codice libero, cioè open source, e il copyleft o «permesso d’autore».
Se però spostiamo questa logica sul piano teo-logico comprendiamo che la questione invece si fa più problematica proprio perché la natura della Chiesa e la dinamica della Rivelazione cristiana sembrano seguire un modello client-server che è invece l’opposto di quello peer-to-peer. Esse non sono il prodotto di uno scambio (che possiamo definire più propriamente un «baratto» fluido) orizzontale, ma l’apertura a una Grazia indeducibile e inesauribile che passa attraverso mediazioni gerarchiche e sacramentali, storiche e di «tradizione». Se ci fermassimo qui rischieremmo di giungere alla incompatibilità radicale tra la «logica» della teologia e quella della Rete.
In realtà il nodo consiste nel fatto che la logica del dono in Rete sembra sostanzialmente essere legata a ciò che in slang viene chiamato freebie, cioè qualcosa che non ha prezzo nel senso che non costa nulla. Essa si fonda sulla domanda implicita: «quanto costa?» e l’ottica è tutta spostata su chi «prende» (e non «riceve», dunque). Il freebie è ciò che si può prendere liberamente. La gratia gratis data invece non si «prende» ma si «riceve», ed entra sempre in un rapporto al di fuori del quale non si comprende. La Grazia non è un freebie, anzi, per citare Bonhoeffer, è «a caro prezzo». Nello stesso tempo la Grazia si comunica attraverso mediazioni incarnate e si diffonde capillarmente in una logica compatibile con quella peer-to-peer ma non riducibile ad essa, la quale può essere benissimo anonima, su base individuale, e impersonale: si può prendere tutto ciò che è a disposizione e non si sa quanto dei propri file verrà condiviso.
La logica della Grazia invece crea «legami» face-to-face come è tipico della logica del dono, cosa che invece è estranea di per sé alla logica del peer-to-peer, che in se stessa è una logica di connessione e di scambio, non di comunione. E un «volto» non è mai riducibile a semplice «nodo». Certo, tra l’anonimo peer-to peer del file sharing e la logica dello user generated content dei social network la seconda appare formalmente più «compatibile» con una logica ecclesiale perché il contenuto condiviso viene «donato» all’interno di una relazione e ha come «ricompensa» la relazione stessa, cioè l’incremento e il miglioramento delle relazioni reciproche.
Sia chiaro che questo non significa che la logica peer-to-peer sia sbagliata o negativa di per sé: essa è importante in una logica di condivisione generale e diffusa. Si dice qui solamente che la logica teologica non è riducibile ad essa: è «altro» e «più» di essa.
Ma proprio in questa differenza si fonda la sfida per i credenti: la Rete da luogo di «connessione» è chiamata a diventare, come si è detto, luogo di «comunione». Il rischio di questi tempi è di confondere i due termini: la connessione non produce automaticamente una comunione, anche se ne è conditio sine qua non. La connessione di per sé non basta a fare della Rete un luogo di condivisione pienamente umana. È vero che la connessione crea communities, come si suol dire, ma ad esse non sono affatto indispensabili le effettive relazioni, i legami, la familiarità, e le loro conseguenze[23]. Le nuove community rischiano di considerare accessorie la fisicità, e tutto il corredo di codici legati al linguaggio «incarnato» del corpo. La relazione finisce per essere fondata sostanzialmente su pratiche retoriche, e questo sarebbe un grosso impoverimento. La parola chiave è dunque l’integrazione tra differenti livelli di vissuto.
D’altra parte, se il «cuore umano anela ad un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi», come ha scritto Benedetto XVI[24], allora la Rete può essere davvero un ambiente privilegiato in cui questa esigenza profondamente umana possa prendere forma.
E questo riguarda anche la fede per una condivisione ad ampio raggio, come lo stesso Pontefice ha prospettato ponendo una domanda a conclusione del suo Messaggio per la 43a Giornata delle Comunicazioni Sociali: «Come il profeta Isaia arrivò a immaginare una casa di preghiera per tutti i popoli (cfr Is 56,7), è forse possibile ipotizzare che il web possa fare spazio – come il “cortile dei gentili” del Tempio di Gerusalemme – anche a coloro per i quali Dio è ancora uno sconosciuto?». Ancora una volta è la testimonianza la categoria fondamentale.
L’Eschaton: coscienza collettiva o Parusia?
La Rete, come abbiamo visto fino a questo momento, pone sfide davvero significative alla comprensione della fede cristiana. La cultura digitale ha la pretesa di rendere l’uomo più aperto alla conoscenza e alle relazioni. Fin qui abbiamo identificato alcuni nodi critici che questa cultura pone alla vita di fede e alla Chiesa. L’immagine che forse rende meglio il ruolo e la pretesa del cristianesimo nei confronti della cultura digitale è quella dell’ «intagliatore di sicomori» mutuata dal profeta Amos (7, 14) e interpretata da san Basilio. Il card. Ratzinger nel suo discorso al convegno Parabole mediatiche usò questa fortunata immagine per dire che il cristianesimo è come un taglio su un fico. Il sicomoro è un albero che produce molti frutti che restano senza gusto, insipidi, se non li si incide facendone uscire il succo. I frutti, i fichi, dunque, rappresentano per Basilio la cultura del suo tempo. Il Logos cristiano è un taglio che permette la maturazione della cultura. E il taglio richiede saggezza perché va fatto bene e al momento giusto. La cultura digitale è abbondante di frutti da intagliare e il cristiano è chiamato a compiere quest’opera di mediazione tra il Logos e la cultura digitale. E il compito non è esente da difficoltà e appare oggi più che mai complesso.
Forse il genio religioso che, pur tra ombre e ambiguità, ha inciso anzi tempo un taglio profondo nella cultura digitale è stato p. Teilhard de Chardin. Lo ha fatto – per intuizioni a loro modo «profetiche», essendo lui morto nel 1955 – con il suo concetto di «Noosfera», una sorta di «coscienza collettiva» che si sviluppa con l’interazione degli esseri umani a mano a mano che essi hanno popolato la Terra e poi si sono (e si stanno) organizzando in forma di reti sociali complesse.
Già negli anni Venti Teilhard aveva teorizzato la nozione di un sistema nervoso tecnologico planetario. Aveva inoltre capito che le tecnologie non solo formano un sistema nervoso planetario, ma formano anche una sorta di intelligenza collettiva. Oggi possiamo affermare che essa è resa possibile dalla telematica, dalle connessioni, dalla Rete. Ma per Teilhard la noosfera sta espandendosi verso una crescente integrazione e unificazione che culminerà in quello che egli definisce «Punto Omega», che è il fine della storia. Il Punto Omega è il massimo della complessità e della coscienza, ed è indipendente dall’universo che si evolve, è cioè ad esso «trascendente». È il Logos ossia il Cristo, attraverso cui tutte le cose furono create.
Il Punto Omega non è un’idea astratta, ma un essere personale che unisce il creato attraendolo magneticamente verso di Sé. Questo Punto Omega non costituisce il risultato della complessità e della coscienza: preesiste all’evoluzione dell’universo, perché è la causa dell’evolvere dell’universo verso la maggiore complessità, coscienza e personalità. Il punto di maturazione della Noosfera nella visione di Teilhard coincide con la Parusia.
La sua complessa visione, così sbilanciata in direzione escatologica, sposta gli accenti della riflessione teologica sulla «logica» della Rete. L’intuizione teologica teilhardiana intravede e manifesta una attrazione magnetica che parte dalla fine e dal di fuori della storia e che rende ragione e valorizza tutti gli sforzi dell’interazione fra le menti umane in reti sociali sempre più complesse. In questo senso dà un significato di fede alle dinamiche proprie dello spazio antropologico che è la Rete che a questo punto diventa anch’essa parte dell’unico milieu divin, di quell’unico «ambiente divino» che è il nostro mondo.

 

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[1] L’intervento aveva il titolo «Comunicazione e cultura, nuovi percorsi di evangelizzazione nel Terzo Millennio» (9 novembre 2002).
[2] Ivi.
[3] Ma già è al di qua dell’orizzonte il cosiddetto Internet of Things, ovvero l’«Internet delle cose» grazie al quale sarà possibile monitorare un ambiente con una rete di piccoli sensori inseriti negli oggetti.
[4]La tecnologia push consente di ricevere dati aggiornati ogni volta che il dato stesso cambia, su iniziativa del server, senza necessità di richiedere esplicitamente un aggiornamento. L’esempio classico è la notifica push dei messaggi di posta elettronica.
[5] Second Life è solo uno, forse il più noto, dei mondi simulati dei Massive Multiplayer On Line Role-Playing Game (Mmorpg), cioè dei giochi di ruolo svolto tramite internet contemporaneamente da più persone.
[6] Per essere precisi, le sfere esistenziali coinvolte nel fenomeno Second Life sono, in realtà, tre. La «prima vita» è la dimensione della «vita reale» e concreta, cioè non digitale e offline. La «seconda vita» è la vita di un avatar in un contesto di simulazione. La «terza vita» è l’insieme di attività di un soggetto che agisce in un contesto di simulazione attraverso un avatar. Una persona della «vita reale» che agisce in un contesto di simulazione è una sorta di cyborg (cybernetic organism, «organismo cibernetico») perché è potenziato attraverso «protesi» analogiche e digitali, costituite dallo stesso avatar e ovviamente dal computer con monitor e tastiera. La «terza vita» è quella che prende forma nel momento in cui il soggetto fa interagire le due precedenti, intersecando due piani di realtà, quella reale e quella digitale. È questo l’uomo di cui occorre occuparsi nel momento in cui si riflette sulla Second Life e sui fenomeni affini di Mmorpg.
[7] Cfr http://www.beliefnet.com
[8] I’m sorry, but a poor computational knowledge engine, no matter how powerful, is not capable of providing a simple answer to that question. Cfr http://www.wolframalpha.com/
[9] Cfr P. SEQUERI, «Comunicazione, fede e cultura», in G. GIULIODORI - G. LORIZIO (edd.), Teologia e comunicazione, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2001, 11-28.
[10] H. RAHNER, L’ecclesiologia dei Padri. Simboli della Chiesa, Roma, Ed. Paoline, 1971.
[11] Cfr A. DULLES, Models of the Church, Garden City (NY), Image Books, 1987.
[12] Cfr L. DE CARLI, Internet. Memoria e oblio, Torino, Bollati Boringhieri, 1997
[13] K. RAHNER, Corso fondamentale sulla fede. Introduzione al concetto di cristianesimo, Roma, Ed. Paoline, 1978, 414 s.
[14] Cfr http://www.secundavita.com/
[15] http://www.usatoday.com/tech/gaming/2007-04-01-second-life-religion_N.htm
[16] http://slangcath.wordpress.com
[17] Cfr http://www.liturgy.co.nz/blog/virtual-eucharist/1078
[18] L. BRESSAN, «Diventare preti nell’era digitale. Risvolti pedagogici e nuovi cammini. II», in La Rivista del Clero Italiano XCI (2010)167-186, 176.
[19] Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata della Comunicazioni 2010.
[20] In http://www.radicalcongruency.com/
[21] http://www.emergingchurch.info/reflection/andrewperriman/ Il sito aperto da Perriman è http://www.opensourcetheology.net/
[22] http://www.postost.net/2010/03/brian-mclaren-new-kind-christianity-what-do-we-do-about-church
[23] Cfr Z. BAUMAN, Voglia di comunità, Roma-Bari, Laterza, 2001.
[24] Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni Sociali del 2009.

 

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