La luce di Roma dalla cella di rigore
Non fanno che spiare: chi per un motivo, chi per l’altro, ognuno vorrebbe parlarmi, scoprire perché l’ho ingannato. Ho preso in giro l’intera compagnia ed essi credono che mi senta meglio, come liberato da un peso. Sbagliano. Dopo aver fatto una cosa così si sta male. Frattanto le voci, dal cortile sottostante, salgono sempre più stridule e confuse:
«Piazza di Spagna, Colosseo, Pietralata!».
E un altro ripete:
«Quirinale, Gianicolo, Deposito Atac!».
Mischiano tutto. Ai camici bianchi basterebbe un discorso, un breve ragionamento, un due per tre fa sei e archivierebbero la pratica. Ma gli altri, i miei poveri amici, Canotta e Mignolo, Serranda e Valvassino, Coniglio e America, riusciranno a scoprire la verità? Chi potrà fare ordine nelle loro menti offuscate, distinguendo la Roma realmente vista da quella che io gli ho lasciato intendere?
Uno come il sottoscritto, malato d’infinito, non poteva essere una guida turistica. Così è accaduto quello che il direttore, sin dall’inizio, avrebbe dovuto prevedere. Invece di condurre i pazienti nel centro storico, mi fermavo in periferia. Entravo in un bar, bevevo una gazzosa, giocavo a bigliardino con la persona che mi era stata affidata e poi tornavo indietro. Mi bastava questo per essere felice: in quale altro modo posso dirvelo?
Salgo sul letto di ferro e, nudo come un verme, grido:
«Senatus Populusque Romanus!».
Gli infermieri lasciano correre, abituati al peggio. Sono sempre pronti a randellare chi esce dai binari. Forse hanno ragione. Non si può trattarci con le buone, noialtri. A me avevano dato fiducia e io, guarda come li ho ricompensati: ho realizzato la truffa dell’anno!
«Pista d’Oro, Piazza Dante, Caracalla!».
«Sacrario delle Bandiere, Velodromo, Eur!».
Di nuovo le voci dei degenti mi sommergono. Quando la finiranno? Stanno laggiù a cuocersi sotto il sole come lucertole sul muro e si sgolano dalla mattina alla sera. Li ho toccati col ferro rovente. La libertà gli è entrata nel sangue.
«Direttore, mi senti? Non ci puoi fare più niente. Hai capito?»
Qualcuno si affaccia da sotto la porta per controllare. Prende atto dei miei schiamazzi. Ed io li moltiplico.
«Ab urbe condita usque ad nos!».
Procedono oltre, sbattendo i manganelli contro i muri.
«Il professore s’è svegliato. Forza Lupi!»
Mi prendono in giro perché tifo giallorosso.
Intanto lei, la mia città, distesa fra il mare e i primi contrafforti appenninici, continua a lampeggiare come una Supercortemaggiore accesa, brulicante di azioni incomprese, sottaciute, mandate al macero una frazione di secondo dopo essere state concluse.
Il giorno prima della partenza istruivo il malato di turno spiegandogli i monumenti, le chiese, le fontane, le scalinate, i musei, insomma la cartolina illustrata che avevo mostrato anche ai dottori. Poi però, di fronte alla luce di Roma, restavo abbagliato, non ci capivo più niente. Alla prima stazione dell’autobus, scendevo. I mentecatti mi venivano dietro.
Abboccavano subito. Quatti quatti, sui muretti di Casal Bruciato, imparavano tutto a memoria.
«Villa Borghese, Fori Imperiali, Ponte Mammolo!».
«San Giovanni, Rebibbia, Santa Maria Maggiore!».
Ora ripetono la lezione, urlando esaltati. Hanno studiato. Ma chi gli metterà i voti? Chi giudicherà me, soprattutto? Cerco di alzare il busto per vedere cosa succede. Niente da fare. Resto bloccato nella camicia di forza. Sento i gridi ritmati e percussivi. Ogni tanto mi pare di avvertire qualche colpo secco, forse bastonate contro i più facinorosi, gli emotivi.
«Lasciateli stare! È tutta colpa mia. Credono di esser stati chissà dove. Sapete dove li ho sguinzagliati? A Valvassino ho fatto fare un giro sui go-kart della Pista d’Oro. Coniglio l’ho portato a Monte Gennaro. America, visto che l’hanno soprannominato così, voleva conoscere New York: gli ho fatto vedere il laghetto dell’Eur».
«Monte Mario, Piazza Mazzini, Via Trionfale!».
«Tiburtino III, Guidonia, Villalba!».
State zitti, anche voi. Avete spifferato tutto. Sono rovinato. Rischio grosso. Alle prime uscite gli amministratori della clinica erano contenti. Avrebbero voluto farmi un monumento. Scoperto l’imbroglio, mi hanno riportato qui, nel reclusorio.
«Ro-ma! Ro-ma!».
«Ro-ma! Ro-ma!».
«Ma di quale Roma andate farneticando? Che razza di idea vi siete messi in testa? Mignolo, tu che ti agiti tanto, credi di aver visto la capitale dell’Impero? Ti ho portato solo al centro commerciale di Lunghezza, fra gli svincoli autostradali e i nuovi cantieri. Ricordi quanto correvi dietro ai carrelli? Non ti pareva vero di poter arraffare tutti quei Buondì Motta! Te li sei sbafati sulla poltrona del Centro Apple coi bambini che ti fissavano incantati. E tu, Serranda, non penserai di essere stato sul serio ai Musei Vaticani, come abbiamo detto agli psichiatri! Io con te mi sono limitato a fare il giro del Colle Oppio. E basta!».
«Ti sei calmato, professore? Su, alza le braccia, che ti sciogliamo. Hai fame? Vuoi mangiare qualcosa?».
Eccoli qui, i nerboruti. È il solito gruppetto d’infermieri, pazienti e dottori. In mezzo c’è anche Valvassino che, stupefatto, mi contempla con attenzione, quasi vedesse per la prima volta la mia testa pelata.
«Tranquilli, tanto non vincerete mai niente. Siete soltanto laziali, latini d’accatto e riporto, schiavi dei senatori».
Lo senti questo? Romanista schifoso; visto che insisti, ti lascio legato tutto il pomeriggio».
In due hanno la meglio. Mi placcano come piloni avversari in una mischia da rugby. Fanno i loro nodi scorsoi. Scalpito, sbavo, imposto la scena.
«Tu quoque, brute, fili mi?».
Il laureato tiene la siringa a mezz’aria, studioso degli amori infantili. Gli scagnozzi acclamano. Qualcuno chiederà la misericordia per noi.
«Dormi, professore. Pensa al prossimo derby».
E mentre loro se ne vanno, io, prima di sprofondare di nuovo nel sonno, torno a guardare, fra le sbarre, il ritaglio della città lontana, quella scheggia di luce sempre più fioca, con i miei occhi di pachiderma a riposo.