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La preghiera di un insegnante

Vorrei che lo sguardo e il sorriso che proverò a regalare ai miei studenti di prima, che ancora non conosco, li faccia sentire riconosciuti, e unici, accolti e provocati

scuola_insegnante-lavagnaR375.jpgQualche giorno fa ho parcheggiato lo scooter proprio sotto la salita del vecchio sentiero. L'aria è bella, si può respirare pulizia. Il sentiero sale ripido e subito si entra nel bosco appena sotto la grande rupe verticale e assolata che sorregge il santuario. Non c'è nessuno. E il sapore della semplicità francescana comincia ad avvolgermi, come il bosco. Mi sono regalato un giorno di silenzio e di preghiera prima di ricominciare le battaglie in classe.

A La Verna di solito mi nascondo nella cappella di san Bonaventura, piccola, imbucata nella roccia, silenziosa e nascosta. I frati la riservano alla preghiera e pochissimi scendono i 6 gradini bassi e sconnessi per entrarvi. Ma quando sono dentro mi siedo nell'angolo a destra, di fronte al piccolo crocifisso e non faccio nulla.

I pensieri si affollano e cercano di occupare il mio cuore: li lascio lentamente scivolare e piano piano smettono di assalirmi. Respiro il silenzio e guardo il crocifisso. E ringrazio.

Ringrazio perché mi è stato regalato di sentire che Dio ha il sapore dell'amore, della leggerezza e della libertà. Dopo anni passati ad arrotolarmi dentro ad una fede scura, fatta di doveri, con un Dio che di mestiere fa il giustiziere, che si occupa col bilancino di pesare il bene e il male, mi è stato dato di provare a metterlo tra parentesi e di poter soffrire per le mie paure, i mie divieti, le mie rigidità e il mio odio. Mi è stato dato di poter attraversare il mio deserto e di ritrovare, dopo anni, una Bibbia che sa ancora stupirmi e farmi piangere, una Chiesa che mi accoglie come sono, e la percezione acuta e dolce che, comunque io sia, Dio mi ama. Banale, si, ma assolutamente vero.

Ringrazio perché sento forte di non essere perfetto, e anche per questo so di essere dentro la Chiesa. Di non sapere amare come vorrei e di dover ancora camminare molto, perché il mio terreno è impastato di sassi e spine e l'opera di bonifica non ha ancora termine, per fortuna. E se provo a dire a che punto sono non so davvero rispondere. Ma so che non sono solo a fare questo lavoro, e che dentro di me, un Altro, con dolce pazienza, attende che io lo lasci lavorare.

Ringrazio perché la mia testa, così presuntuosa, non prende più il sopravvento, pur continuando a non lasciarmi tranquillo. Continua a farmi incuriosire del mistero che siamo e abbiamo a mano, e a inseguire risposte sempre più accoglienti e comprensive, dove la verità non possa essere usata per dividere e giudicare e dove le nostre certezze sono punti di incontro, di confronto, di scontro, di aggiustamento e alla fine di riconoscimento per chi la pensa diversamente da noi.

Ma soprattutto ringrazio perché mi è dato ancora una volta, la ventiquattresima nella mia vita, di poter entrare in classe e guardare negli occhi ragazzi e ragazze che sperano che io sia sincero e rispettoso della loro fragilità, leggero e serio, ma soprattutto capace di fargli sentire che vivere vale la pena. Che c'è un luogo dentro di noi che nessuna tv, nessun social network, nessuna pasticca, nessuna bottiglia e nessun orgasmo può riempire, un luogo dove siamo da soli, ma in attesa che un Altro ci chiami e ci dia senso. Un luogo che sta sepolto sotto le loro paure, le loro maschere, il loro odio e il loro risentimento, ma non muore mai.

Ecco cosa vorrei quest'anno. Che i miei ragazzi possano sentire che oggi questo loro luogo interiore è ancora rintracciabile, è ancora percorribile. Con pazienza e coraggio si può aprire la propria porta interna e accettare di scendere qualche gradino, per cercare di ascoltare quel bambino ferito, umiliato, arrabbiato e abbandonato che si portano dentro. E che possano sentire che quel bambino è amato come nessun altro al mondo. Che lo sguardo e il sorriso che proverò a regalare ai miei studenti di prima, che ancora non conosco, li faccia sentire riconosciuti, e unici, accolti e provocati.

E che una volta aperta questa stanza interiore possano accorgersi del grande valore che loro sono e del dono che hanno di essere al mondo senza averlo domandato. Della opportunità che gli è offerta a poter stare sui banchi di scuola, per poter cominciare a "giocare" i loro doni insieme agli altri, fino a poter capire che cosa sognano davvero, e che cosa li può far felici davvero. E se in questo la parola di Dio può aiutarli e accompagnarli, che mi sia dato il regalo di poterglela offrire e poi di potermi fare da parte, perché ognuno trovi la sua via.

Ma soprattutto vorrei non dimenticarmi che insegno per quel che sono, non per quel che faccio e nemmeno per quel che so. E che la didattica, la programmazione, le tecniche e la burocrazia non possono nulla se ogni mattina non accetto di mettermi a nudo con loro e, con sincerità, di farmi anche contagiare da loro. Forse così sarà più facile farmi perdonare le stanchezze, gli errori, le distrazioni e le paure che di certo verranno.

Gilberto Borghi

© www.vinonuovo.it, 26 settembre 2011

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