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Papa Benedetto e l’«ultimo tratto»

papafra180.jpgLa maggior parte di chi fra noi è ancora relativamente giovane si figura i suoi ottant’anni con un confuso timore. Ci si può domandare se arriveremo a quell’età ancora saldi sulle gambe, e lucidi, nel pensiero; se saremo assistiti e curati da figli e nipoti, o invece soli. Ma comunque se ci immaginiamo ottuagenari difficilmente riusciamo a non pensare a un viale del tramonto, alla vitalità e le energie che si frammentano lasciandoci indeboliti  e fragili. Il Papa invece, che di anni ne ha fatti 85, ieri ha detto di sé: «Mi trovo di fronte all’ultimo tratto del percorso della mia vita e non so cosa mi aspetta. So, però, che la luce di Dio c’è, che Egli è risorto, che la sua luce è più forte di ogni oscurità, che la bontà di Dio è più forte di ogni male di questo mondo. E questo mi aiuta a procedere con sicurezza».

Lo ha detto in una omelia nella Cappella Paolina, parlando a braccio in tedesco ai vescovi venuti dalla Germania. Parlando nella spontaneità della lingua madre, fra volti conosciuti, Benedetto XVI si è detto con la sincerità con cui ci si può raccontare fra amici: «Mi trovo di fronte all’ultimo tratto della mia vita, e non so cosa mi aspetta».

Ha affrontato dunque l’argomento fra tutti più tabù: la vecchiaia che avanza, il domani che si fa incognita. Nulla negando della propria fragilità, Benedetto ha testimoniato però una granitica certezza: Dio c’è, è risorto, è più forte di ogni male. E quindi, dentro a questo respiro grande e in pace, nei suoi ottantacinque anni il Papa «procede con sicurezza».

Noi che ascoltiamo, da una simile certezza siamo colpiti. Noi, che siamo cresciuti in tempi ostili alle verità assolute, abituati invece a piccole relative individuali certezze, sentiamo queste parole quasi come uno schiaffo. È possibile dunque in questo mondo sempre più precario, mondo incerto perfino sull’opportunità di avere figli e quindi di continuare se stesso, è possibile comunque essere, nell’età «debole» della vecchiaia, così fermi e forti. Una testimonianza che dovrebbe far tendere l’orecchio anche ai più lontani dalla fede: perché quanti, perfino fra i ricchi e i potenti, a ottant’anni possiedono una simile serenità? I più censurano la prospettiva intollerabile dell’avvicinarsi della morte; o si compiacciono, finché possono, del loro potere. Invece Benedetto XVI testimonia un altro vivere, un altro invecchiare possibili.

Possibili, come? Nel ringraziare i suoi genitori per la vita che gli hanno dato, ha aggiunto: «La vita diventa un vero dono se insieme ad essa si può donare una promessa che è più forte di qualsiasi sventura». Alludeva al battesimo, alla nuova vita che in Cristo il battezzato riceve. E forse il pensiero del Papa riandava al suo, di battesimo, nella mattina della domenica di Pasqua del 1927, quando, sotto una gran nevicata, il bambino nato di Sabato santo venne portato nella chiesa di Marktl sull’Inn. Il pensiero è tornato a quel suo essere nato nel giorno del «silenzio di Dio», per essere il primo immerso, all’alba, nell’acqua della nuova Pasqua.
Ottantacinque anni fa.

Di mezzo, la più terribile delle guerre, milioni di morti e l’orrore di un male assoluto, scientificamente pianificato. Era qualcosa di così piccolo quel bambino all’alba della Pasqua del ’27 – e forse imprudente, anzi, portarlo in chiesa in un giorno di gelo e di neve. Era qualcosa, quel bambino, di così fragile – fragile, come lo si diventa di nuovo da vecchi. Eppure una certezza di roccia lega insieme i due capi opposti della vita di quest’uomo: che, rinato in Cristo, dentro a ogni avversità rimane certo di un destino buono. Certo che non siamo polvere e non andiamo nel nulla; certo che vivremo, e ritroveremo madre, padre, amici e fratelli perduti.

Di modo che la ferrea certezza testimoniata da un vecchio cristiano ci interpella: siamo altrettanto certi, noi? E i nostri figli sanno, hanno la memoria e le ragioni di questa certezza? Parlando a braccio, nella sua lingua natale, come fra vecchi amici, il Papa ci ha fatto vedere semplicemente che cos’è un cristiano, e quanto grande sia la speranza di cui vive.

Marina Corradi
 
© Avvenire, 17 aprile 2012
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