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La Superbia: Un super-io contro Dio

Vizi Capitali 1. Sette grandi predicatori affrontano i sette canonici peccati

vizi-capitali.jpgLa superbia è il rifiuto di Dio. Lui o io. Non può esserci una via di mezzo. Lo aveva ben compreso Agostino quando nel De civitate Dei dice perentoriamente che la superbia è «allontanarsi da Dio e convertirsi a sé». Il superbo scimmiotta Dio; perché vuole imitare la sua potenza e rendersi simile a lui. Non è un caso, quindi, che egli veda nella superbia «l’origine di tutti i mali perché è la causa di tutti i peccati»; tanto da poter «sussistere anche da sola senza gli altri peccati». Una grande lezione proviene anche da Tommaso che è la fonte per Dante.

Con la profondità che gli è propria, Tommaso dice che «la superbia è il vizio e il peccato con il quale l’uomo, contro la retta ragione, desidera andare oltre la misura delle sue condizioni». Il superbo, di fatto, crea una sproporzione tra sé e la realtà con la conseguenza che la volontà, principio che guida l’agire, non è più capace di giudicare coerentemente. Ecco perché è contraria alla retta ragione, perché il superbo sopravvaluta se stesso senza confrontarsi con la realtà. La superbia diventa, di fatto, andare contro la ragione.

Questa è fatta per ricercare la verità, vale a dire, ciò che è coerente (adequatio); con la superbia, invece, la stessa ragione è fuori strada. Dirà sempre Tommaso: «I superbi mentre godono della propria superiorità, trovano fastidio nella superiorità della verità». Non si tratta più di solo sentimento o di condizione psicologica caratteriale. La superbia è un uso non corretto della ratio!

Ciò implica l’assunzione di una responsabilità che proviene da una scelta fatta. Puntare gli occhi sulla verità, al contrario, crea equilibrio e permette di vedere non solo la complessità della realtà, ma il suo ordine intrinseco verso cui siamo orientati per ottenere il bene. Ne è ben consapevole Dante, che alla scuola di Tommaso, identifica esempi concreti di superbi nell’XI canto del Purgatorio. Omberto Aldobrandeschi, Oderisi da Gubbio e Provenzano Salvani stanno a indicare i tre ambiti in cui la superbia sembra esercitarsi con maggior facilità: la nobiltà, l’arte e la politica. Il primo si rivolge a Dante chiedendo, retoricamente, e con un accenno alla superbia non ancora debellata, se lo ricorda. Col secondo, invece, il dialogo diventa più intenso e il senso della superbia acquista maggior significato.

«Oh vana gloria de l’umane posse!» esclama Oderisi, facendo da eco a Gregorio Magno che proprio così aveva definito la superbia: <+corsivo>inanis gloria<+tondo>. La superbia altro non è che illusione e transitorietà: «com’ poco verde in su la cima dura». Insomma, insegna Dante, la superbia ti illude, perché è effimera. Ti lascia godere un istante, ma a ben vedere ti abbandona presto e rende la delusione ancora più grande. Torna con forza, a questo punto, un’immagine anch’essa scolpita nella mia mente di ragazzo quando davanti al televisore seguivo l’incoronazione di Paolo VI. Il Papa sulla sedia gestatoria procedeva contento e salutava festoso una folla che lo acclamava.

Ad un certo punto, il cardinale con in mano un piatto ricolmo di ovatta, incurante di quanto accedeva chiamò il Papa: «Pater Sancte. Paolo VI si volse verso di lui e il cardinale diede fuoco all’ovatta: «Sic transit gloria mundi». Un attimo e il fuoco bruciò tutto. Il volto di Paolo VI divenne greve e pensoso. Il segno, in questo caso, parla molto più delle parole. Nessuno può gloriarsi perché tutto passa velocemente, e solo puntare all’essenziale crea stabilità.

Dio disperde quanti hanno pensieri di superbia perché si contrappongono a lui e rimangono chiusi in se stessi e nell’illusione della loro arroganza, mentre egli esalta l’umile. Non è un caso che soprattutto i libri sapienziali facciano ricorso alla dialettica tra superbia e umiltà per indicare in quest’ultima la via privilegiata a cui il giusto e il pio devono attenersi.

È significativo, d’altronde, che il Vangelo di Marco, ripercorrendo lo stesso pensiero, ponga la superbia tra la «bestemmia» e la «stoltezza»; cioè è tipico dello stolto essere superbo, perché si rivolta contro Dio, non volendo riconoscere la sua grandezza, ma nello stesso tempo condanna se stesso per non avere un’intelligenza adeguata della sua esistenza (Mc 7,22).

Una parabola, comunque, acquista in questo contesto tutto il suo valore. Gesù narra di due uomini, un fariseo e un pubblicano che si ritrovano insieme al tempio per la preghiera. Il primo, «stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio, che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo» (Lc 18,11-12). Aver posto l’esempio del superbo nello scenario della preghiera ha un suo primo significato: come ci si pone dinanzi a Dio, così ci si pone dinanzi agli uomini, e viceversa. Il senso della parola, comunque, non verte sulla preghiera, ma sull’atteggiamento dell’uomo.

Ciò che egli fa è riconosciuto solo come sua impresa personale; il tono delle sue parole e il vanto che ne deriva non sono altro che un’autoesaltazione e compiacenza di sé. Insomma, la sua preghiera diventa un monologo per pronunciare il giudizio su se stesso; non deve attendere quello di Dio, perché si è già posto come innocente davanti a lui e ha trovato il capro espiatorio: il pubblicano. Alla fine, poiché compie opere non comandate dalla legge, egli è perfino creditore nei confronti di Dio. Ma la verità sulla propria vita appartiene al pubblicano, non al fariseo che rimane fermo nel suo inganno: «Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1Gv 1,8).

A conclusione giunge attuale la parola di Gregorio Magno. Nel suo Commento morale a Giobbe, il grande Papa identifica quattro atteggiamenti che permettono di riconoscere la superbia: «Quando si pensa che il bene derivi da noi stessi; quando si crede che, se ci viene dato dall’alto, è per i nostri meriti; quando ci si vanta di avere ciò che non si ha; quando, disprezzando gli altri, si aspira ad apparire gli unici dotati di determinate qualità». In un momento in cui il narcisismo ha conquistato un posto d’onore nella cultura dei nostri giorni e in molti dei nostri comportamenti, una seria considerazione su chi siamo realmente non dovrebbe stonare né apparire fuori luogo.

Perdere il senso del limite e non essere più capaci di humour su se stessi conduce a quella ipertrofia dell’ego che presto o tardi porta a conseguenze nefaste per la propria vita. Meglio allargare l’orizzonte e puntare sull’essenziale della vita per consentire di raggiungere la vera libertà fonte di genuina realizzazione di sé. Dovremo dire con il libro dei Proverbi: «Ubi humilitas ibi sapientia» (11,2). La verità su se stessi proviene dalla capacità di ascolto e gratuità che sostiene la profonda intelligenza in ricerca della verità ultima.


Rino Fisichella
 
© Avvenire, 29 giugno 2012
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