L'Antico Testamento che ci manca
«... e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque». Quando rileggo la prima pagina delle Genesi di solito è la parte su cui scivolo via più facilmente. L'ho sempre considerata un retaggio di un vecchio tipo di descrizione scientifica del mondo. Ma ora che guardo alla televisione le immagini che da due giorni ormai ci arrivano dal Giappone sono proprio queste parole le prime che mi vengono alla mente. Insieme alle altre del libro di Qoelet: «Vanità delle vanità: tutto è vanità». O alla constatazione estremamente cruda del salmo 61: «Sono un soffio i figli di Adamo, una menzogna tutti gli uomini: tutti insieme, posti sulla bilancia, sono più lievi di un soffio». Da che mondo è mondo le catastrofi naturali hanno sempre fatto affiorare nel cuore dell'uomo le grandi domande. E quindi non mi sento particolarmente originale scrivendo queste cose, né ho la pretesa di addentrarmi in un dibattito teologico sul senso dell'ora terribile che il Giappone sta vivendo. Mi colpisce, però, un aspetto: questo terremoto di inizio Quaresima sembrerebbe fatto apposta per scuotere tante nostre certezze. Perché il Giappone è il Paese antisismico per eccellenza; per cui stavolta non c'è neanche uno straccio di polemica a cui aggrapparci sugli allarmi che non hanno funzionato (come nello tsunami in Sri Lanka) o sulla «casa dello studente» costruita male (come nel nostro terremoto all'Aquila). Certo, adesso stiamo un po' provando a deviare il discorso sulla questione delle centrali nucleari. Ma ugualmente non si scappa: stavolta è proprio con il tema della nostra umana finitezza che questa catastrofe naturale ci chiede di fare i conti. Ed è un tema che ci mette profondamente a disagio. Tutti noi in queste ore ricorriamo fondamentalmente a due surrogati. Da una parte l'overdose informativa, scandita dalle immagini ad effetto (ho appena sentito il Tg1 dire che a chi vuole le manderanno anche sulla posta elettronica). E dall'altra la solidarietà, ovviamente preziosa per dare una mano a chi ha perso tutto. Ma queste due risposte bastano davvero? E - da sole - non rischiano di diventare un modo per riportare tutto molto in fretta alla normalità di uno schema che siamo in grado di controllare? Sono domande aperte. A cui io so dare solo uno sprazzo di mia risposta personale. E torno, dunque, all'immagine da cui sono partito: se penso a come leggere un fatto del genere alla luce della Parola di Dio i brani che mi vengono in mente sono tutti tratti dall'Antico Testamento. Perché in questi casi ci riempiamo tutti la bocca con la parola Apocalisse (senza peraltro ricordarci che vuole dire "rivelazione" - e quindi verrebbe comunque da chiedere: di che cosa?). Ma nella Scrittura sono altri i libri in cui si parla del rapporto del cristiano con le catastrofi naturali. Ad esempio i Salmi sono pieni di immagini forti in questo senso: carestie, terremoti, uragani... Perché? Possibile che capitassero sempre tutte a loro? E allora mi viene da pensare che ciò che abbiamo perso è la capacità di far diventare sapienza condivisa questa consapevolezza del nostro limite. La cura di non fare scorrere via questi shock emotivi, ma farli diventare una preghiera di tutti. Perché - invece - oggi abbiamo confinato questo tipo di esperienze al formulario della Messa «in tempo di terremoto», che andiamo a rispolverare giusto in queste occasioni? È una domanda che ho l'impressione porti lontano e sento le mie gambe non sufficientemente forti per affrontare una strada del genere. Di una cosa, però, sono certo: noi cristiani dovremmo guardare con un po' meno sufficienza l'Antico Testamento. E ricominciare a prenderlo in mano sul serio. Un bel proposito da inizio Quaresima... Giorgio Bernardelli © www.vinonuovo.it, 14 marzo 2011