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L'oratorio al centro commerciale

Può essere un'idea, ma per quale motivo dovrei andarci a riproporre ancora le solite strutture? Forse più che sui luoghi dovremmo interrogarci su come ascoltare i giovani

porticato oratorio con ragazzi.JPGHa suscitato scalpore in questi giorni l'idea di aprire oratori nei centri commerciali espressa in forma di ipotesi dall'arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia nell'ultima sua lettera alla diocesi. Abbiamo chiesto di commentarla a don Cristiano Mauri, uno dei tanti vicari parrocchiali che in Italia passano le loro giornate con i giovani. Oltre a essere un lettore di Vino Nuovo, don Cristiano svolge il suo ministero a Meda (Milano) e cura su internet il blog La bottega del vasaio.

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Proposta choc dell'arcivescovo di Torino: gli oratori nei centri commerciali. Nella lettera di auspici alla città di Torino per il 2012 presentata il 3 gennaio, parlando dei giovani, Nosiglia scrive: «Credo che sia necessario riannodare i fili del dialogo fra le generazioni... È un impegno anche per la nostra Chiesa diocesana, che ha bisogno di lasciarsi interpellare dalla loro "estraneità" al nostro mondo culturale, sociale e pastorale. Forse dovremmo davvero aprire i nostri oratori anche nei centri commerciali e nei luoghi di divertimento, o proporre servizi educativi realizzabili in forma cooperativa anche presso locali di oratori o di congregazioni religiose».

Mi trovo coinvolto, un po' per caso, a commentare questa notizia. Lo faccio da prete di pastorale giovanile che lavora sul campo e che, fin qui, ha collezionato più ferite che stellette. Poche certezze, troppe domande, nessuna ricetta certificata. Condivido qui con voi delle impressioni che mi accompagnano da tempo circa questo ritornello - ormai di questo si tratta - dell'«andare verso i giovani» e che le parole di Nosiglia hanno di nuovo sollecitato. Impressioni e qualche possibile diverso approccio.

La prima impressione è quella di una contraddizione di fondo nelle parole dell'arcivescovo. Non si può parlare di un «andare verso» senza essere realmente disposti a partire. E la disposizione alla partenza è anzitutto a lasciare qualcosa: una terra certa, tradizioni stabilite, abitudini consolidate. Trovo che questo sia il primo degli ostacoli più seri dell'attuale pastorale giovanile: quale reale disponibilità c'è a mettere radicalmente in discussione gli strumenti, i metodi, le strutture pastorali che in questi anni abbiamo consolidato? Ne vedo moltissima, in linea di principio, pochissima all'atto pratico. E ciò che mi spaventa maggiormente è il costatare che si tratta in realtà di vera incapacità pratica. Gli intenti sono sinceri, i desideri encomiabili, le sollecitazioni giuste, ma anni e anni di una pastorale in cui abbiamo potuto vivere di rendita e gestire con tranquillità l'esistente ci hanno sedentarizzato. Le strutture e i metodi che da sempre usiamo rischiano ora di non essere più un aiuto, ma un intralcio. Abituati a gestire - brutto verbo, ma era realmente così - senza troppi patemi, ora che si tratta di andare, sbloccare gli ingranaggi non è cosa semplice. Non siamo capaci di andare, di muoverci. Lo sperimento io stesso coi miei collaboratori ogni volta che facendo l'esercizio di ripensarci daccapo, senza troppo badare al retroterra, ci scontriamo con la forma mentis ormai in noi consolidata e dalla quale, pur ribellandoci nervosamente, fatichiamo ad emanciparci.

La dichiarazione di Nosiglia, da questo punto di vista è un esempio lampante. Andare nei centri commerciali può essere un'idea, ma per quale motivo devo andarci a riproporre ancora i soliti metodi, le solite strutture, etc...? Evidentemente perché temo di non saper fare altro, ma finchè non ci si prova... Andiamo, certo, ma a cogliere anzitutto l'occasione di metterci in discussione, senza preparare nulla, senza bisaccia, né bastone, senza pensare di saper la strada prima di averla fatta. Altrimenti corriamo il rischio di chi, emigrato in altri paesi, non coglie l'opportunità di imparare altre lingue, altri modi di vivere, altre culture e finisce per ricostruire lì la miniatura della nazione d'origine: si chiamino Little Italy o China Town, sempre ghetti sono. A volte ho l'impressione che i giovani non rimangano nei nostri ambienti perché li percepiscono un po' così: piccoli ghetti, irrigiditi, ripetitivi, avulsi dal contesto, nei quali la preoccupazione di mantenere viva la struttura spinge a volerli trattenere con sè più che formare la loro capacità d'integrarsi altrove. Se poi aggiungiamo l'immagine che non di rado diamo di cercarli per poter, con le loro forze, mandare avanti i nostri macchinoni pastorali, l'assenza dei giovani pare giustificata. Smuovere i meccanismi arrugginiti mettendosi realmente in discussione dalle fondamenta potrebbe essere invece il primo vero passo verso i giovani.

Soprattutto per il fatto che - ed è la seconda impressione - non mi pare affatto che sia una questione di luoghi. O meglio, non una questione di luoghi fisici. Ho quasi sempre la sensazione netta che anche quelli che vivono i nostri ambienti e le nostre proposte si trovino da un'altra parte, come in un «luogo altro» che, pur nella vicinanza fisica, non riusciamo a raggiungere in modo compiuto. Mi pare che il loro «spazio vitale» (relazioni, visioni del mondo, abitudini, coscienza personale, volontà, affetti, intelligenza, cultura, divertimento...) avverta come estraneo non il messaggio cristiano in sé, al quale invece spesso sono sorprendentemente sensibili, ma il mondo cattolico che noi abbiamo costruito e che continuiamo a proporre come l'unico mediatore del Vangelo. Certi nostri linguaggi, certe nostre impostazioni - o imposizioni? - culturali, alcuni anacronismi, diversi nostri "focus" pastorali, sono da loro colti come estranei non per cattiva volontà loro, ma solo perché l'estraneità è reale.

Occorrerebbe perciò trasformare davvero da slogan a pratica effettiva l'asserto «i giovani vanno ascoltati». Questo è un terzo elemento che mi ritorna spesso nella riflessione e che tutti ci ripetiamo con la stessa frequenza dell'«andare verso». Nel concreto del nostro fare pastorale, l'approccio rimane quello di chi si propone immediatamente di insegnare qualcosa. Alla fine, per la nostra pastorale tradizionale il giovane rimane un oggetto di cui avere le dovute attenzioni formative: incontri, esperienze, percorsi per formare il giovane. Li chiamiamo percorsi educativi ma spesso nella sostanza hanno il carattere di una lunga catechesi, pur in forme variegate. Anziché preoccuparci di insegnare potremmo provare effettivamente ad ascoltare i giovani mentre già vivono il Vangelo (e ce n'è, magari un po' "sgarrupati", ma ce n'è) e farci raccontare e insegnare da loro come si fa, come si può o si riesce ad essere un giovane cristiano oggi. E nel caso di chi è lontano dal Vangelo, farci almeno raccontare quali religiosità - in senso ampio - vive, come lo fa, perché le ha scelte. Smetteremmo di essere preoccupati di trascinarli nei nostri spazi per venire introdotti e ospitati nei loro «luoghi» di vita. E potrebbero essere loro a indicarci il posto in cui un giovane può vivere il Vangelo oggi, magari sorridendo ironicamente, insieme a noi, all'idea dell'oratorio al centro commerciale.

 

Cristiano Mauri

© www.vinonuovo.it, 10 gennaio 2012

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