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Ma la scrittura non l’hanno mai sostituita

Intervista a Ugo Volli è professore ordinario dall'Università di Torino, dove insegna Semiotica del testo e Filosofia della comunicazione. È direttore del Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazione. Presiede il corso di laurea in Comunicazione e culture dei media.

Sono passati cinquant'anni da quando Marshall McLuhan impose l'idea che la "linearità tipografica" stesse lasciando il posto a un "villaggio globale" elettronico, dominato solo dalle immagini. In realtà le cose sono un po' diversamente: la scrittura non è stata affatto abolita dalle immagini di media "freddi" come la televisione e il computer, ma anzi ha conosciuto un grande sviluppo. Anche se ormai è facilissimo telefonare e anche collegarsi in video gratis dappertutto, non abbiamo affatto smesso di scriverci. Prima gli sms, poi le chat, poi ancora Facebook e Twitter comunicano contenuti quasi orali in forma grafica.

Naturalmente si tratta di un'altra scrittura, rispetto alle lettere e ai diari di una volta: veloce, occasionale, effimera, molto breve, non solo per i limiti prestabiliti degli sms o dei twitt, ma anche per impazienza e per fretta. E' una grafia combinata sulla tastiera dei cellulare e dei computer con molte abbreviazioni e convenzioni tipografiche, come i famosi emoticon, le "faccine" che imperversano dappertutto, gli "hastag" cioè gli argomenti prestabiliti di Twitter. Si scrive "xke'" invece che "perché", "ki" invece di "chi", "xo'" invece di "però", ";-)" invece di "sto scherzando" e mille altre abbreviazioni del genere. Alcuni utenti sono particolarmente fanatici di questo gergo e riempiono i loro testi di kappa e di altri segni convenzionali anche dove non serve economizzare caratteri; altri usano solo occasionalmente e per necessità questo tipo di abbreviazioni. Valgono regole di gruppo che regolano il nuovo linguaggio grafico e anche delle regole di cortesia altrettanto convenzionali: per esempio è maleducato scrivere in maiuscole: è un modo di "urlare" .

Siamo di fronte a una nuova lingua?

Certamente no. Le lingue si trasformano continuamente, in relazione al cambiamento sociale e per semplice dinamica interna. A un certo punto della storia del latino i popolani romani progressivamente smisero di dire "equus" e passarono a "caballus"; ma smisero anche pian piano di declinare le parole, iniziarono a pronunciare "o" oppure "a" il dittongo "au" ("oro", "agosto"), e così via: le lingue neolatine sono il frutto di queste lente trasformazioni. Ancora oggi questo meccanismo è attivo nell'italiano, per esempio con la perdita progressiva dell'opposizione fra vocali aperte e chiuse ("pésca" in mare e "pèsca" sull'albero) e la progressiva estinzione di congiuntivo e condizionale.

La scuola, il dispositivo cui le società affidano la conservazione della loro memoria e identità, resistono a questi processi di cambiamento e li condannano - ma sono battaglie perdute in partenza. A differenza del francese e dell'inglese, l'italiano è rimasto abbastanza costante nei secoli perché era una lingua puramente letteraria e le spinte al cambiamento agivano sui dialetti; ma da quando è diventato davvero strumento di comunicazione nazionale (non più di sessant'anni fa), la deriva linguistica l'ha investito con forza, per esempio con gli anglismi "inutili" (perché "software" invece che "programma"? "tablet" e non "tavoletta"?) e con gli altri fenomeni cui ho accennato. Il "linguaggio" degli sms e di Twitter contribuisce certamente al cambiamento, ma non è fra le sue cause principali: è una trasformazione soprattutto grafica. Considerando la lettura dei messaggi e non la loro scrittura, ci troviamo un italiano abbastanza normale, assai veloce e spesso sciatto, senza congiuntivi e con molti prestiti stranieri e usi vernacolari, ma non rivoluzionario.

Vale la pena di fare una crociata per "salvare l'italiano"?

Ci provò già il fascismo, il che non è certo una raccomandazione. Ma soprattutto non ci riuscì. Alla faccia di Mussolini, continuiamo a dire "bar" e "garage" e a darci del "lei" e non del "voi". Lo stesso accadrebbe per ogni purismo sulle sigle dei messaggini. Ma anche nel linguaggio le mode passano presto e i gerghi scompaiono da soli. Quel che resta va ad arricchire il gran corpo della lingua: un segno di vita, non di debolezza. Chi protesterebbe oggi contro "guardare" che viene dal germanico o "parlamento" che ci arriva dal francese? O contro la sparizione di usi di scrittura una volta diffusi come "à" per "ha"? Giochiamo pure senza patemi con la lingua di Twitter e Facebook, magari con misura e facendo attenzione al fatto che un uomo d'età (magari politico o giormalista) che si comporta da ragazzino è ancora più triste di un ragazzino che si traveste da adulto. Ma questa è estetica della vita quotidiana, non linguistica né etica.

© Ilfattoquotidiano, 13 maggio 2013

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