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Malattia, sofferenza e “fine-vita”: cosa ha detto veramente papa Francesco

Leggendo le diverse testate giornalistiche o diversi commentatori sui vari blog si ha la percezione che sul tema del fine vita il Pontefice abbia rivoluzionato l’insegnamento in materia o abbia dato delle indicazioni particolari sull’approvazione di leggi specifiche. Ma è veramente così? Francesco ha davvero parlato di "eutanasia"? Padre Paolo Benanti, professore alla Pontificia Università Gregoriana, ci aiuta a decifrare il vero senso del messaggio di Bergoglio

Ha fatto molto scalpore il messaggio che papa Francesco ha mandato ai partecipanti al Meeting Regionale Europeo della World Medical Association sulle questioni del cosiddetto “fine-vita”, organizzato in Vaticano unitamente alla Pontificia Accademia per la Vita (http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2017/11/16/0794/01721.html).

Leggendo le diverse testate giornalistiche o diversi commentatori sui vari blog si ha la percezione che il Pontefice abbia rivoluzionato l’insegnamento in materia o abbia dato delle indicazioni particolari sull’approvazione di leggi specifiche. Ma è veramente così? Cosa ha detto papa Francesco?

Per capire il contenuto partiamo dal capire il senso del suo messaggio. In primo luogo dobbiamo considerare che Francesco ha mandato un messaggio a un meeting europeo organizzato dall’Associazione Medica Mondiale, un ente che fin dalla sua istituzione, nel 1947, ha espresso preoccupazione per lo stato della etica medica in generale e nel mondo, assumendosi la responsabilità di stabilire gli standard etici per i medici di tutto il mondo.

Un’associazione che collaborando con la Pontificia Accademia per la Vita si è chiesta cosa voglia dire aiutare medicalmente una persona in quella parte finale della sua esistenza terrena che prende il nome di “fine-vita”.

benanti1-300x300_1984178_2287318.jpgNon si parla di morte, ma di fine vita

Un secondo punto è proprio qui: non si parla di morte ma di fine vita. La morte sarebbe un momento puntuale, una sorta di interruttore e tutto il discorso verterebbe su quando questo è acceso o spento o se si possa in qualche misura spengere la vita.

Parlare di fine-vita implica invece capire questo momento dell’esistenza personale come un processo, una sorta di alba e tramonto in cui si chiude il profilo biografico di una persona. I medici e gli esperti della Pontificia Accademia si stavano chiedendo quindi come stare accanto in maniera competente e umana a una persona che sa che sta finendo la vita e non quando e se sia possibile produrre la morte di un individuo.

Tanto è vero che il documento cita la parola eutanasia solo informa negativa per dire che il tema di cui si para è tutt’altra cosa: “Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte”.

Il messaggio del papa prende il via dal fatto che lo sviluppo delle tecniche biomediche ha prodotto una serie di problematiche nuove rispetto al passato: si è registrato, anche grazie ai progressi delle cure mediche, un notevole innalzamento dell’età media della popolazione; si registra una notevole richiesta di trattamenti medici a fronte di una scarsità di risorse; il progresso nel campo della rianimazione e delle cure intensive ha risultati prodigiosi; l’uso degli analgesici si è diffuso in maniera massiccia generando da una parte una cultura analgesica sorretta dall’abuso di questi farmaci, e dall’altro a delle efficaci terapie del dolore.

Quanta confusione tra dolore e sofferenza

A tutto ciò si deve aggiungere la completa confusione che c’è sul piano culturale tra il dolore e la sofferenza: c’è un’apparente impossibilità all’interno dell’attuale contesto culturale di trovare un senso alla sofferenza assimilandola o confondendola con l’esperienza del dolore.

A questo scenario molto complesso il pontefice risponde mettendo al centro il vero valore da tutelare: la persona sofferente. “Il vostro incontro si concentrerà sulle domande che riguardano la fine della vita terrena. Sono domande che hanno sempre interpellato l’umanità, ma oggi assumono forme nuove per l’evoluzione delle conoscenze e degli strumenti tecnici resi disponibili dall’ingegno umano. La medicina ha infatti sviluppato una sempre maggiore capacità terapeutica, che ha permesso di sconfiggere molte malattie, di migliorare la salute e prolungare il tempo della vita. Essa ha dunque svolto un ruolo molto positivo. D’altra parte, oggi è anche possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano neanche immaginare. Gli interventi sul corpo umano diventano sempre più efficaci, ma non sempre sono risolutivi: possono sostenere funzioni biologiche divenute insufficienti, o addirittura sostituirle, ma questo non equivale a promuovere la salute”.

Il corpo del paziente non è un puro materiale biologico: il morire non si presenta mai come un evento puntuale ma assume il carattere di un processo e volendo esprimere tutto ciò in modo sintetico possiamo dire che: in ogni istante è l’uomo vivente che va verso la morte e l’uomo morente è ancora vivo.

La persona in questa fase è chiamata in modo irrevocabile a confrontarsi con l’orizzonte della trascendenza. Proprio mentre declina la capacità di controllare gli accadimenti della propria vita ci si trova a dover confidare nell’assolutamente Altro: quello che si chiama Dio è visto in maniera irrevocabile come parola di salvezza o come una parola vana. L’accompagnamento della persona in fin di vita diventa così la cifra dell’umanizzazione della morte, del rendere giustizia all’esistenza unica e personale che compie il suo cammino terreno.

L’accompagnamento si presenta nella sua natura come un dono: accompagnare una persona negli ultimi giorni o momenti della sua vita potrebbe essere il servizio o il dono più importante e più rilevante che un’altra persona possa mai rendergli. I moribondi hanno una grande paura non solo del dolore o della stessa morte, ma anche di essere un peso, un disturbo agli altri. Del resto come tutti quanti, temono di essere respinti, rifiutati. In questo momento il medico è chiamato ancor di più a impostare il suo operato secondo la virtù della compassione.

Questa importanza della sofferenza del moribondo per un etica della compassione indica una strada privilegiata nel consentire una morte con dignità: i dolori dovrebbero essere leniti o consolati al massimo, il moribondo dovrebbe poter esprimere i suoi ultimi desideri e confidarsi con i suoi familiari, dovrebbe poter morire in un ambiente conosciuto e circondato dai familiari stessi.

Nell’ottica della fede il processo di accompagnamento del morente assume i tratti della virtù della costanza: speranza in Dio che ci dice l’ultima parola sulla storia dell’uomo. Tanto l’accompagnatore che l’accompagnato possono evangelizzare la realtà della morte illuminata e redenta dall’evento pasquale del Cristo.

Questo è il punto chiave del messaggio di Francesco, quello che il Vangelo della vita dice alla fragilità del nostro essere: “La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano. In questo percorso la persona malata riveste il ruolo principale”.

Il concetto di terapia proporzionata

Il punto chiave, alla luce di quanto già detto sull’accompagnamento del morente e sulla dignità della vita, si può individuare nel concetto di terapia proporzionata. Una terapia si definisce proporzionata quando si riveli tecnicamente corretta sotto il profilo clinico e giustamente equilibrata tra i due eccessi dell’accanimento terapeutico e dell’abbandono terapeutico e soprattutto commisurata, per quanto detto in precedenza, alle esigenze spirituali dei soggetti ed alla dignità della persona nel rispetto della sua personalità e della sua volontà.

Questo è il cuore del messaggio del Papa che riassume e ripercorre tutti gli insegnamenti precedenti dei suoi predecessori in questo senso: “Il Papa Pio XII, in un memorabile discorso rivolto 60 anni fa ad anestesisti e rianimatori, affermò che non c’è obbligo di impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili e che, in casi ben determinati, è lecito astenersene (cfr Acta Apostolicae Sedis XLIX [1957],1027-1033). È dunque moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito “proporzionalità delle cure” (cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, 5 maggio 1980, IV: Acta Apostolicae Sedis LXXII [1980], 542-552)”.

Un percorso di profonda continuità con la tradizione ecclesiale e con i pontefici precedenti. Nel caso di malati terminali il processo di accompagnamento dovrebbe offrire loro la possibilità di percorrere le ultime fasi del loro percorso biografico esprimendo tutti i sentimenti che accompagnano l’approssimarsi della morte e le adeguate cure mediche e qui Francesco registra tutta la difficoltà del caso. “Certo, quando ci immergiamo nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica, i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare. Per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. […]

Lo dice con chiarezza il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità» (ibid.). È anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante. È una valutazione non facile nell’odierna attività medica, in cui la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo”.

E qui si pone tutta la difficoltà etica: comprendere quali cure siano proporzionate e quali no.

Precisazioni sul termine "accanimento terapeutico"

 Infine, per quanto riguarda l’accanimento terapeutico, dobbiamo introdurre alcune precisazioni. Il termine accanimento terapeutico è un’espressione colloquiale resa popolare dai mezzi di comunicazione di massa. L’espressione medica corretta è distanasia e viene utilizzata nel vocabolario etico per indicare l’utilizzo nel processo del morire di trattamenti che non hanno altro scopo che quello di prolungare la vita biologica del paziente.

Il mondo anglosassone parla in modo generico di life sustaining treatment, che non ha la sfumatura né dell’accanimento terapeutico, né della distanasia, e potrebbe essere anche considerato, in certe situazioni, come un mezzo ordinario o proporzionato alla condizione medica del paziente.

Da quanto fin qui detto appare evidente come trattamenti di questo tipo si collochino all’esterno del processo di accompagnamento, trattando il corpo umano come mero complesso biologico da preservare nelle sue funzioni vitali minime. Anzi, un prolungato trattamento di questo tipo, renderebbe impossibile anche il completarsi del processo di accompagnamento che come abbiamo visto è di natura biunivoca tra accompagnato e accompagnatore.

Questa deriva contraria alla medicina, all’antropologia e alla fede è quella che Francesco chiede di evitare e su cui vigilare: “Occorre quindi un supplemento di saggezza, perché oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona”.

Tuttavia questo processo non è una cosa che riguarda solo il morente o solo il personale medico ma è un’istanza sociale. Ecco perché Francesco conclude il messaggio dicendo che ogni società non deve lasciare soli i deboli e i sofferenti ma deve tutelare tutti cominciando dai più deboli: “In seno alle società democratiche, argomenti delicati come questi vanno affrontati con pacatezza: in modo serio e riflessivo, e ben disposti a trovare soluzioni – anche normative – il più possibile condivise. Da una parte, infatti, occorre tenere conto della diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose, in un clima di reciproco ascolto e accoglienza. D’altra parte lo Stato non può rinunciare a tutelare tutti i soggetti coinvolti, difendendo la fondamentale uguaglianza per cui ciascuno è riconosciuto dal diritto come essere umano che vive insieme agli altri in società. Una particolare attenzione va riservata ai più deboli, che non possono far valere da soli i propri interessi. Se questo nucleo di valori essenziali alla convivenza viene meno, cade anche la possibilità di intendersi su quel riconoscimento dell’altro che è presupposto di ogni dialogo e della stessa vita associata. Anche la legislazione in campo medico e sanitario richiede questa ampia visione e uno sguardo complessivo su cosa maggiormente promuova il bene comune nelle situazioni concrete”.

Concludendo, Francesco ha ricordato ai medici di tutto il mondo che la medicina prima di essere una tecnica o una tecnologia è un'arte animata dall’amore per il prossimo e dalla compassione. La chiave dell’agire medico è l’accompagnamento del paziente in un percorso speciale: la terapia.

Paolo Benanti

© www.famigliacristiana.it, venerdì 17 novembre 2017

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