Nuove strade per la catechesi. Mons. Sartor (Cei): “Non rivolgiamo un messaggio esclusivamente ai laureati e neppure ai soli cristiani, c’è posto per tutti”
(Assisi) “Si aprono nuove strade non tanto su una soluzione di cammino per il catechismo, ma si registra una convergenza sul fatto che la Chiesa e la comunità con la sua ricchezza va messa al centro. Si deve lavorare tutti assieme. Cominceranno così nuove collaborazioni”. Parola di mons. Paolo Sartor, direttore dell’Ufficio catechistico nazionale, che ha guidato il convegno al quale hanno partecipato, ad Assisi, 380 direttori e collaboratori degli Uffici catechistici diocesani giunti da tutta Italia. Il direttore dell’Ufficio Cei ha registrato “la disponibilità di Agesci, di Azione cattolica e dei rappresentanti di alcuni uffici della Conferenza episcopale italiana a sedersi attorno allo stesso tavolo e a confrontarsi sul tema non a partire solo da quello che siamo abituati a fare. È possibile che anche dagli altri mondi ci diano proposte di dialogo e collaborazione”. Non è stato un caso se nella sala del convegno e tra i tavoli dei partecipanti, nella Domus Pacis, erano presenti alcuni ragazzi sia dell’Agesci sia di Ac, che hanno rivolto il loro sguardo ai momenti e agli strumenti di formazione dei catechisti. Presenti per cominciare a prendere contatto con questa realtà che, per la prima volta, osservano da dietro le quinte.
Mons. Sartor, come possono essere coinvolte direttamente le parrocchie?
Le idee seminate devono essere accolte dai vari terreni, che sono le regioni, dove c’è una grande attenzione sull’iniziazione della comunità generativa, ma i cammini e le storie locali sono variegati. Bisogna guardare all’iniziazione cristiana in una diocesi o in una parrocchia non tanto come a un quadro su una parete, domandandosi che cosa tiene nei nostri sistemi di catechesi. Si tratta piuttosto di dati da guardare sullo sfondo di un dialogo tra la Chiesa e chi non è cristiano per portare l’annuncio del Vangelo. Restituiamo alla comunità il compito di generare alla fede.
Si inizia a parlare di “catechesi prima della catechesi”. Di che cosa si tratta?
La Cei già da vari anni ha recepito da alcune diocesi l’intuizione per un’iniziazione cristiana dei bambini che non comincia a 7-8 anni per poi arrivare alla Cresima, ma che comincia già con il Battesimo. Proponiamo percorsi all’interno delle parrocchie che si sviluppano per le famiglie con bambini nati da poco.
Un’offerta di iniziative di approfondimento, di cammino e maturazione per i genitori, anzitutto. Perché il bambino è estremamente piccolo.
Poi, quando comincia a diventare un po’ più grande, ad esempio nell’età della scuola dell’infanzia, ci si rivolge a lui anche con qualche contenuto adeguato al suo linguaggio e in base al suo livello di maturazione. Questo fa sì che la catechesi cominci prima della catechesi, ovvero prima del catechismo come siamo abituati a considerarlo. Da questo punto di vista è evidente che una pastorale del Battesimo e della primissima età non può che essere condivisa tra famiglia e parrocchia.
Quale atteggiamento indicate ai parroci e ai catechisti nei confronti delle famiglie?
Anzitutto, il giusto atteggiamento pastorale che accoglie le domande di Battesimo che arrivano ancora molto numerose alle nostre comunità, anche se non numerose come in passato. È un atteggiamento di accoglienza dei genitori che chiedono il Battesimo dei bambini e che, durante il percorso, diventa accompagnamento.
Spesso si verifica che quando i bambini crescono, l’accompagnamento, la vicinanza e l’alleanza educativa con le famiglie da parte dei catechisti, degli educatori e della comunità come tale, continui. Cambiano le forme, ma trova seguito.
A quel punto il ragazzino sarà autonomo per compiere determinate scelte, però la collaborazione con la famiglia non si ferma. Anche perché avrà esigenze diverse da quelle che aveva in precedenza.
È quindi per i genitori anche una forma di seconda evangelizzazione?
O, a volte, per certe famiglie di prima evangelizzazione. Il Battesimo del figlio può essere un modo per riavvicinare famiglie lontane e parlare direttamente con loro prima ancora di cominciare un percorso di iniziazione cristiana per i figli. Ci rivolgiamo così anche a chi chiede di avviare un percorso di iniziazione alla fede da adulto e a chi è stato lontano e vuole riavvicinarsi alla Chiesa. Vogliamo riallacciare un dialogo con percorsi ben precisi. Le nostre comunità stanno cercando vie per continuare a essere comunità che permettono a un popolo di incontrare il Signore.
Quali difficoltà invece riscontrate in questo percorso?
È una difficoltà obiettiva confrontarsi con contesti e persone differenti. D’altra parte questo fatto presenta anche un volto positivo.
Le nostre comunità, tipicamente le parrocchie, rendono possibile un accesso popolare al Vangelo, alla fede, senza discriminazioni in partenza.
Noi come Chiesa non rivolgiamo un messaggio esclusivamente a quelli che hanno la laurea o un certo livello culturale. Neppure ai soli cristiani. Perché c’è posto anche per chi cristiano non è. Anzi, sono proprio coloro con i quali vogliamo intavolare un dialogo.
Quali prospettive future si aprono?
L’assunzione del compito educativo dell’iniziazione cristiana in maniera sempre più condivisa. Vogliamo far sì che ci siano meno steccati, meno abitudini consolidate. La formazione che già è intensa potrà essere un po’ più generalizzata per i catechisti e per gli altri operatori. Vogliamo far comprendere alle comunità cristiane che iniziano ed educano alla fede che è importante che lo facciano in tutte le loro componenti.
È a una “pastorale integrata” che vi riferite quando parlate di “restituire alle comunità il compito di generare alla fede”?
Quando si ritiene che questo lo facciano solo alcuni nella comunità, solitamente i catechisti a ciò preparati, non ci si rende conto che la comunità educa più globalmente già di fatto, perché magari è aperta e ha un certo tipo di presenza nel quartiere. Se questo non si verifica, possiamo dire tutto quello che vogliamo nel momento della catechesi, ma passerà, ad esempio, l’immagine di una Chiesa lontana da quello che vive la gente. Allora già accade che la comunità come tale educhi o no, inizi o no. E non è un compito solo dei catechisti. Lo compiono gli animatori, gli educatori. In questo modo si realizza una formazione integrata.
Filippo Passantino
© www.agensir.it, lunedì 30 aprile 2018