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Pierino e il latino

Se il latino oggi è da re-imparare perché si fanno meno studi classici, perché dobbiamo ricorrere a un uso quasi misterico della lingua per dare lustro alle nostre liturgie?

jpg_3320998.jpgNella pubblicistica pedagogica più diffusa (ma rimango a disposizione degli aventi diritto che ne rivendicassero la paternità a cui non sono stata in grado di risalire) è facile ritrovare il detto che più o meno suona così: per insegnare il latino a Pierino occorre sapere il latino e conoscere anche Pierino.

È la prima cosa che mi è venuta in mente quando venerdì ho letto l'istruzione della Pontificia commissione Ecclesia Dei che parla dell'applicazione del motu proprio di Benedetto XVI Summorum pontificum che, in breve, concede la possibilità di celebrare liturgie con il rito preconciliare e, quindi, in latino.

La notizia della pubblicazione del documento, che ai profani può nel migliore dei casi apparire una questione di lana caprina, è passata sui giornali per il suo lato più notiziabile e cioè che i sacerdoti dovranno studiare di più il latino in seminario per poter "pronunciare le parole in modo corretto e di capirne il significato" (n. 20) - nel caso dovessero far ricorso a quel rito e non a quello approvato da Paolo VI dopo il Vaticano II, che ormai si usa per lo più nelle lingue cosiddette vernacolari.

Ma sapere o meno il latino non è un aspetto secondario. Non voglio entrare nel merito del documento, che è meritevole di numerosi approfondimenti. M'incuriosisce capire un fatto: se il latino è da re-imparare perché si fanno meno studi classici, perché ormai, pur rimanendo lingua ufficiale della Chiesa, è sempre meno parlato e usato - come attesta anche il recente volume di Massimo Arcangeli, L'italiano nella Chiesa tra passato e presente (Allemandi 2011) -, perché intestardirsi nel volerlo usare nella liturgia?

Mettiamo per un momento tra parentesi le celebrazioni pontificie, dove il latino non solo costituisce una lingua della tradizione, ed è utile, oltre la Babele linguistica, a dare uniformità ai vari contesti dove il Papa si trova a celebrare.

Parlo di quelle "normali", diocesane, parrocchiali, dove spesso - badate bene - nelle solennità fa capolino la lingua di Cicerone: può essere l'annuncio della Pasqua nella veglia del sabato; può essere il Padre nostro o l'intero Credo; le litanie dei santi...

Mi domando - è proprio il caso di dirlo - cui bono? Per il bene di chi? Magari i solerti cultori dell'antico provvedono anche a una - bontà loro - traduzione col testo a fronte: ma è come un film in lingua originale con i sottotitoli... Che cosa dice al fedele praticante che non fa il filologo di mestiere una salmodia in latino con l'occhio che continuamente salta al testo italiano per vedere a che punto siamo? E che cosa dice al fedele saltuario che capita a Messa magari solo la notte di Pasqua o Natale?

Lo so, qualcuno mi dirà che alcuni si riavvicinano alla liturgia in latino - vecchia o nuova in molti casi non importa - proprio perché amano la lingua del tempo antico quasi che essa da sola fosse in grado di trasmettere meglio il senso del sacro perché detto e pronunciato in una lingua ai più sconosciuta. Ma è questo il senso del sacro che viviamo e che vogliamo trasmettere? Un sacro lontano e distante dalla vita quotidiana che usa una lingua che viene detta volgare nella sua accezione dispregiativa. Perché dobbiamo ricorrere a un uso quasi misterico della lingua per dare lustro alle nostre liturgie? O forse le liturgie che celebriamo sono talora povere tanto quanto la nostra povertà di spirito?

A voler dare a Pierino ripetizioni di latino a ogni costo, secondo me, alla lunga e a buon diritto potrebbe chiederci: "Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?".

Maria Elisabetta Gandolfi

© www.vinonuovo.it, 17 maggio 2011

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