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Quando san Michele arcangelo apparve a Roma e fermò la peste

Con la potenza della preghiera, papa san Gregorio Magno riuscì a fermare la peste del 590 che si era abbattuta su Roma. L’angelo Michele scese su Castel Sant'Angelo rinfoderando la spada. Ecco il motivo del grande angelo di bronzo sul mausoleo di Adriano e del suo nuovo nome

Lo skyline di Roma è caratterizzato da figure alate: le vediamo sul Vittoriano e in cima alla Corte di Cassazione, ma anche più in basso, su piedistalli e a guardia del ponte Vittorio Emanuele. Sono le Nikai, Vittorie alate, simbolo della Repubblica, in tutto simili a quelle dell’antica Roma, che svettavano sui monumenti come rappresentazione del potere e della grandezza dell’Urbe. Ma la città è popolata anche di figure angeliche, come quelle che scandiscono la lunghezza del ponte Sant’Angelo, e tante altre disseminate nella città.

La statua di San Michele su Castel Sant’Angelo

Infine ve n’è una del tutto particolare: una grande statua di san Michele Arcangelo.  L’iconografia è però profondamente diversa da quella canonica. L’impianto del corpo è statico, non esprime quell’energia dinamica alla quale siamo abituati, ad esempio nei dipinti di Raffaello o di Guido Reni. Non sta compiendo l’azione ma è fermo mentre sta per compierla. È appena atterrato, sotto i suoi piedi non c’è il maligno contratto e vinto. San Michele tiene il braccio sollevato, nell’attimo sospeso prima di rinfoderare la spada. Un gesto di pace e di misericordia.

La peste del 590 a Roma e san Gregorio Magno

Gregorio Magno era subentrato nel settembre del 590 a Pelagio II, morto a causa della tremenda pestilenza arrivata dall’Egitto nell’anno precedente, la cosiddetta lues inguinaria che mieteva sempre più morti e sembrava non voler cessare.

Il Papa decise allora di organizzare a una litania settiforme, cioè una processione divisa in sette cortei alla quale parteciparono tutti gli ordini del clero e l’intera popolazione. Essi attraversarono così le vie della città, per portare a San Pietro l’immagine di Maria Salus populi Romani, conservata in Santa Maria Maggiore e dipinta dall’evangelista Luca.

Sì, proprio quell’icona tanto cara a papa Francesco, da lui sempre visitata prima di ogni viaggio e anche domenica scorsa, durante la sua prima tappa di pellegrinaggio per invocare la fine della pandemia.

Gregorio di Tours, nell’Historiae Francorum (liber X, 1) e Iacopo di Varazze, nella Legenda Aurea, raccontano il memorabile prodigio in modo incalzante e accorato. Durante la processione, in una sola ora erano morte ben ottanta persone, ma papa Gregorio non smetteva di incoraggiare ad andare avanti con fede. Man mano che il corteo si avvicinava a San Pietro, l’aria diventava più leggera e salubre. Giunti al ponte che collegava la città al Mausoleo di Adriano, allora chiamato Castellum Crescentii, d’improvviso scesero dal cielo schiere di angeli che cantavano quelle che sarebbero diventate le parole del Regina Coeli, l’antifona che in tempo pasquale sostituisce l’Angelus e saluta Maria Regina per la risurrezione del Salvatore: “Regina Coeli, laetare, Alleluja – Quia quemmeruisti portare, Alleluja – Resurrexit sicut dixit, Alleluja!”.

San Gregorio rispose: “Ora pro nobis rogamus, Alleluja!”. Gli angeli planarono ancora più in basso per galleggiare sulle teste dei presenti e infine circondare il dipinto di Maria. Gregorio guardò in alto e sulla cima del castello vide la grande figura armata dell’Arcangelo mentre asciugava la spada dal sangue e la riponeva nel fodero. La peste era finita.

In ricordo del miracolo una grande statua dell’angelo Michele

Nel tempo, in memoria dell’accaduto, il castello mutò il toponimo in Sant’Angelo e in cima fu costruita una cappella che verso la fine dell’XI secolo fu rimpiazzata da una statua di san Michele, prima in legno e poi sostituita da alcune in marmo e in bronzo. Nel cortile del castello è conservata la versione risalente al periodo di Paolo III, opera del toscano Raffaello da Montelupo, datata al 1544, in marmo e rame, alta poco più di 3 m e restaurata dal Bernini nel 1660.

La statua che invece tutti noi possiamo oggi ammirare sul fastigio del mausoleo è opera dello scultore fiammingo Peter Anton Verschaffelt, che vinse il concorso indetto da papa Benedetto XIV Lambertini in occasione del Giubileo del 1750. Inaugurata solo nel 1572, la grande statua (m 4,70 x 5,40) ha un impianto classicheggiante, formato da trentacinque pezzi di bronzo sostenuti da un’intelaiatura interna, sostituita nel 1986 da una in acciaio e titanio.

Una profonda differenza tra le figure alate e l’Arcangelo Michele

Le vittorie alate sembrano prendere la rincorsa per librarsi in volo, per staccarsi dalla terra, per travolgere il cielo con i loro simboli terreni. San Michele invece arriva e pianta i piedi a terra, tanto da lasciare le proprie impronte, secondo la tradizione, impresse in una pietra conservata nel museo del castello, insegnandoci che lui è presente, qui con noi, e pronto a intercedere se glielo chiediamo con fede.

San Michele Arcangelo intercede per salvarci dalle epidemie

Il legame dell’Arcangelo con la liberazione dal pericolo delle epidemie si evince anche dall’episodio avvenuto presso uno dei santuari micaelici più celebri, quello sul Gargano, quando durante la peste del 1665 apparve al vescovo lucchese Berardino Puccinelli e gli raccomandò di raccogliere le pietre del santuario per essere usate con devozione contro il morbo, che in effetti afflisse tutto il regno di Napoli, ma risparmiò il territorio di Manfredonia. Il vescovo vi incise la sigla M † A e le distribuì a tutta la popolazione. Sul luogo dell’apparizione pose una statua dell’angelo, mentre una copia la mandò a Lucca, scolpita con pietra proveniente da grotte vicine e che si trova tuttora nell’antica chiesa di San Michele in Foro, sul secondo altare a destra.

Maria Milvia Morciano - Città del Vaticano

© www.vaticannews.va, venerdì 20 marzo 2020